Disclaimer:
Non sono così geniale da possedere Inception. Too bad.
Inception
© Christopher Nolan
Almost there, but not quite
Fu Ariadne a trovare lui, alla fine.
*
Arthur si era
fermato in un piccolo albergo nella zona di Montmartre a Parigi. Aveva pagato
con una delle sei carte di credito che aveva nel portafoglio e l’indiano alla
reception gli aveva dato la chiave di una delle stanze, masticando un
ringraziamento in un francese accidentato e guardandolo di traverso, con
sospetto.
Arthur,
impassibile, annuì in segno di apprezzamento, salì i tre piani di scale e si
rinchiuse dentro la stanza – 32, si annotò mentalmente con lo scrupolo di un
cecchino.
L’ambiente era
piccolo, quasi claustrofobico, ma era vicino ad una via di fuga, l’hotel
sembrava poco affollato e c’era un bagno, per cui tutto sommato era stata una
felice scelta.
Con passo
militare, Arthur andò alla finestra. Con un colpo secco, chiuse le veneziane e
spiò il vicolo sotto di lui. C’era un’anziana signora che sbatteva uno straccio
sul terrazzo del condominio di fronte a lui, e qualche gruppo di ragazzi sulla
strada, riparati sotto l’ombrello. Per ora, niente anomalie. Arthur si permise
di sospirare, sollevato.
Ispezionò
l’angusta stanza: telefono, letto rifatto, qualche briciola sul tappeto. Il
bagno era essenziale e apparentemente pulito, sebbene non si sentisse odore di
disinfettante. Ma questo, al momento, non gli importava.
Erano mesi che
Arthur si trovava in quella città, e di Ariadne
nessuna traccia – se non il profumo lieve dell’inchiostro indelebile e di menta
nell’aria, che lo inseguiva come uno spettro.
Di tanto in
tanto, Arthur sapeva di essere vicino all’uscita di quel labirinto, come ad
esempio quando passava accanto alla Tour Eiffel e la vedeva accesa come un
albero di Natale (ed era autunno), o quando vedeva in qualche poster per la
strada schizzi di schemi e indovinelli, ma erano tracce labili, praticamente
inutilizzabili.
Tirò fuori una
Magnum dalla cintura, e la rigirò fra le mani, meditabondo. Doveva cambiare
strategia: non fermarsi, restare all’università per un po’ ad aspettare,
magari. Di tempo ce n’era, anche se stava mangiando voracemente la sua
lucidità.
Si sedette sul
letto. Un gatto miagolò irritato, cedendogli il posto e soffiandogli contro.
Arthur alzò un
sopracciglio, sorpreso.
Non ebbe il
tempo di domandarsi cosa stesse succedendo, che sentì qualcuno bussare alla
porta. Cautamente, dopo aver aperto la sicura della pistola, si avvicino alla
porta. Niente spioncino. L’indiano aveva forse capito che era–
«Arthur.»
Trattenne il
respiro e, col fiato sospeso, aprì la porta.
*
Ariadne lo osservava, il volto disteso
e sereno, nonostante avesse ancora la pistola in mano.
Gli sorrise,
raggiante. «Ti ho trovato finalmente!»
Lo scostò e si
lanciò sul letto. «C’è voluta una vita…» si lamentò,
prendendo il gatto in braccio; quello, dopo una prima resistenza, si lasciò
accarezzare acciambellandosi sui jeans di Ariadne.
La sua
tranquillità lo innervosì.
«Ariadne…» cominciò, ma quando lei alzò gli occhi avvertì
ogni parola bloccarsi insieme al suo respiro, come pietrificata.
Il sorriso di
lei si fece più largo, tagliente, e in qualche modo anche malizioso. «Vieni
qui.»
Preso dalla
paura, Arthur non mosse che la testa, guardando nervosamente la porta,
ripensando all’indiano che non pareva essersi accorto di nulla, all’anziana
signora che l’aveva ospitato la notte prima, alla folla che si riversava a
fiotti nelle vie di Parigi dai negozi e dalle case che gli era passata a fianco
senza parere infastidita.
Serrò la mano,
diventata umidiccia, attorno alla pistola. Ariadne,
invece, imperturbabile, sospirò.
«Bene, allora
vengo io.»
Si alzò con
fluidità – dov’era finito il gatto? –
e gli circondò il collo con le lunghe braccia bianche, del tutto scoperte. In
un attimo, non era svanito solo il gatto.
Arthur deglutì,
tentando di mantenere il controllo mentre lei gli allentava la cravatta e gli
premeva addosso il suo corpo caldo.
«Ariadne…» Il suo tono aveva perso sicurezza.
Ariadne sospirò, falsamente afflitta,
le labbra che gli sfioravano il petto.
«Il solito guastafeste…»
Arthur la spinse
contro il muro e la baciò disperatamente, cercando il suo respiro.
*
Era stato tutto
così veloce, che una piccola parte di Arthur – quella dell’orgoglio maschile –
provava vergogna.
Ariadne era distesa sopra di lui,
piccola e morbida, come un gattino, emettendo un suono gutturale e soddisfatto,
come se facesse le fusa.
«Come hai fatto
a trovarmi?»
La domanda gli martellava
in testa dal momento in cui era riuscito a mettere in marcia il cervello, il
che non era stato semplice, considerando che aveva il corpo di Ariadne che gli faceva da maglietta.
Lei fece
spallucce. «Trentadue. La tua età, no?»
Gli venne da
ridere, ma si trattenne.
«Ventinove, a
dire il vero» la corresse con gentilezza.
«Oh…» Ariadne sembrava sorpresa. E
stava arrossendo. «Pensavo ne avessi… insomma, ti
facevo un po’ più vecchio…»
Arthur si trovò
suo malgrado a ridacchiare, e Ariadne ad arrossire
ancora di più.
«Oh, beh, questo
mi ha portato da te, no? Il mondo è pieno di strane coincidenze…»
E Arthur si
ricordò dove e perché si trovava lì.
Con gli occhi di
nuovo distanti e malinconici, che ricordavano tanto la Senna ad Ariadne, la baciò lentamente, assaporando il suo respiro
senza sapore, senza odore.
Appoggiò la
fronte su quella dell’architetto, sfregando la pelle l’una sull’altra,
immaginandola soffice e tiepida e inspirò.
«Non sono
coincidenze, Ariadne.»
Lei alzò gli
occhi su Arthur, con gli occhi lucidi, e si morse il labbro con aria colpevole.
«Lo so.
Altrimenti Pagnotta non sarebbe stata in questa stanza.»
«Pagnotta?»
«La gatta di mia
nonna. È morta sei anni fa.»
«Uh, beh, mi
spiace.»
Ariadne scosse la testa, e i suoi
capelli gli solleticarono lievemente il collo. «Non ce n’è bisogno.»
Ma Arthur gli
accarezzò ugualmente la schiena, guardandola con calore. Ariadne
gli regalò un piccolo sorriso, un po’ amaro.
«Quando te ne
sei accorta?» domandò poi.
Lei inarcò le
sopracciglia. «Di cosa? Che siamo in un sogno?»
Arthur annuì.
«Beh, è Parigi
come la vorrei io. E il mio totem non ha il peso giusto. Anche se ho impiegato
un po’ di tempo a ricordarmene, devo essere stata qui sotto parecchio tempo. E poi…» la voce di Ariadne si
incrinò leggermente. Scosse la testa, e gli accarezzò con un dito la guancia perfettamente
rasata. «E tu? Come intendevi trovarmi?»
«Non lo so»
ammise Arthur. «Non mi sono mai trovato nel Limbo. Seguivo delle tracce, o
meglio delle parvenze di tracce, sperando di arrivare al centro del labirinto,
se mai ce ne fosse stato uno… sai, il Limbo è
diverso, ma dato che sei un Architetto, speravo che la tua mente funzionasse
così. E poi…» Si fermò, esitante. «Poi, alle volte mi
illudevo.»
«Di cosa?»
«Che ricordando
al tuo profumo, ti avrei ritrovata.»
«Oh.»
Rimasero per un
po’ in silenzio.
*
Ciò di cui non
riuscivano a parlare, era che Arthur non aveva mai odorato la pelle di Ariadne, perché lui era solo una proiezione. E Ariadne lo sapeva: lo aveva creato lei ed era stata
abbastanza brava da immaginarlo lucido quanto il vero Arthur, tanto che, dopo settimane di ricerca, arrivato a
toccarla, aveva capito che non conosceva la sensazione dell’aria nella trachea.
*
Era solo un
frammento di Arthur, ma un principe azzurro nella mente di Ariadne.
Per cui alla
fine sospirò, accarezzandole i capelli.
«Hai freddo?»
«No.»
Ariadne sembrava pensierosa e
distante, improvvisamente taciturna e sbiadita. Arthur sapeva cosa le passava
per la testa, facendone parte, esattamente come aveva avuto la realizzazione di
cos’era quando lei l’aveva capito ed esattamente come si era accalorato percependo
l’eccitazione di Ariadne.
Non era che un
vaso di Pandora, che Ariadne teneva fra le mani, che
tremavano. Quando sarebbe caduto, avrebbe liberato ogni vizio e la realtà le
sarebbe piombata addosso – telefonate senza risposta, mesi di attesa vana, un
bacio di cui non si parlava mai, un altro a casa di Cobb
nell’unica riunione del vecchio gruppo ad alimentare speranze, poi bruciate da
mesi di silenzio che si ammassavano come decine di materassi sopra la speranza
in fondo al vaso.
All’inizio,
Arthur cercava Ariadne perché era stato creato per
seguirla: la credeva persa. E, forse, lo credeva pure lei, per questo era nato.
Ma Ariadne aveva il filo.
Le alzò il volto
e la guardò negli occhi, senza spostare lo sguardo, nemmeno quando l’architetto
prese la pistola dal comodino e se la premette sulla tempia.
«Scusami,»
sussurrò.
Poi uno sparo. E
Arthur, con un ultimo sorriso da poeta, svanì dai pensieri di Ariadne.
*
Quando si
risvegliò, la prima cosa che sentì fu una voce concitata: «Ariadne!» e il dopobarba di
Arthur addosso. Non ricordava più quanto fosse pungente.
Le venne da
piangere.
Ho finito di
scrivere qualcosa. Spero di non
svegliarmi da questo sogno! ;_;
Ringrazio Val per aver letto in anteprima, Sacker
per avermi fatto vedere questo capolavoro, e tutti quelli che leggeranno e
recensiranno.
Grazie.
Bye,
Kaho