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Autore: Sere88    27/12/2010    3 recensioni
Questa storia racconta l'avventura della fortuna, del talento, e dell'amore; la passione di due anime confuse tra destino e sentimenti, e quella di due corpi che si sono cullati e torturati in un intreccio di vite a cavallo tra cronache e fantasie. E' la storia che racconta della vita di un uomo vero, una stella mondiale della musica, adorato e criticato di nome MIchael Jackson e di una donna inventata che almeno nella mia fantasia gli ha regalato l'amore che meritava...
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 8


Tra litigi e riappacificazioni non fu facile gestire la nostra storia in quella situazione, ma le difficoltà facevano  parte del gioco e lo sapevamo fin dall’inizio.
A volte sembravamo due ragazzini quindicenni che si sbaciucchiano di nascosto dai genitori, di questo avevamo bisogno, lui più di me. Era bambino quando iniziò a solcare i primi palchi; non visse infanzia, né gioco, né adolescenza.
-Sei la mia giovinezza spensierata- mi disse una sera nella penombra della mia camera d’albergo- tu sei quello che avrei sempre desiderato e che mi è stato strappato…Sei la mia piccola ragazza normale…
Mi abbracciò forte forte quasi da farmi mancare il respiro, stropicciandomi il viso nel suo collo profumato.
 
-Te ne andrai Susie…?- mi chiese come timoroso di sentire la risposta- …te ne andrai via da me?
 
-No Mike…
 
-Voglio che tu mi dica che è per sempre…Susie…ci devo credere…
 
-Sarà per sempre…Te lo giuro…
 Ci credevo davvero, anche io.
Adorava venirmi a svegliare la mattina, anche perché sono una dormigliona e quindi ho sempre bisogno di essere letteralmente buttata giù dal letto, e un giorno per essere più convincente mi portò anche la colazione in camera.
 
-Sorpresa!!!- disse allegro quando aprii la porta ancora assonnata.
Seduta sul letto sorseggiavo il succo d’arancia che mi aveva portato quando si mise alle mi spalle.
 
-Che fai Mike?
 
-Schhhhh…-mi sussurrò all’orecchio invitandomi al silenzio.
 
Spostò i miei capelli su di un lato e delicatamente iniziò a baciarmi il collo.
 
-Che intenzioni hai Mike?
 
-Schhhh…
 
Prese dalla tasca un foulard e mi coprì gli occhi. Poco dopo senti qualcosa di leggermente freddo cingermi il collo.
 
-Ecco, adesso puoi guardare…
 
 Un ciondolo stupendo pendeva luminoso e pesante al mio collo, un cuore incorniciato di diamanti luccicantissimi come quegli occhi infiniti che mi avevano fatto innamorare. Dietro c’era inciso qualcosa, lo voltai per leggere…”Per sempre…29 agosto 1987” .
 
-Ma perché ?
 
-Perché te lo meriti…Perché sei tu…
 
Ci tenne a spiegarmi il significato di quella data. Non era semplicemente il giorno del nostro compleanno. Mi disse che quella in realtà era la data che segnava il momento in cui aveva capito di aver trovato una persona speciale.
Ricordai quella torta a forma di Italia, il mio imbarazzo, il batticuore; per me quel giorno aveva avuto lo stesso medesimo significato. Lo ribattezzammo il “Nostro Anniversario Di Vita”.
Le mie labbra corsero incontro alle sue come spinte dal desiderio di regalargli a mio volta un cuore, un cuore rosso e pulsante di cui lui era il senso di ogni battito.
Era maledettamente tardi e il tour purtroppo non poteva stare dietro al nostro amoreggiare; lo accompagnai verso la porta ma sembrava non volesse andare via.
 
-Ci vediamo tra un po’, vado a prepararmi…- gli dissi.
 
Sorrise a mezza bocca facendo finta di opporre resistenza e poi quegli occhi, lo sapeva che quegli occhi avevano il potere di capovolgermi dentro e fuori.
 
-La smetti…su…non fare lo scemo è tardissimo…
Lo respingevo buffamente senza troppa convinzione, tanto lo sapevo come andava a finire e non vedevo l’ora che andasse a finire in quel modo.
 
-Dai…solo cinque minuti…- mi disse ironicamente con le mani congiunte come per pregarmi-…e poi lo merito anche io un regalo no?
 
-Mike ma  sono ancora in pigiama…
 
Con un leggero colpo spinse la porta ancora socchiusa e mi prese in braccio.
 
-Facciamo prima…
 
Mi lanciò sul letto facendo quasi rimbalzare il materasso.
 
-Addirittura… tutto questo ardore…?- esclamai maliziosa mentre lui lentamente si avvicinava con uno sguardo che lasciava poco all’immaginazione.
 
-Signorina, ma qualcuno te lo ha mai detto che sono un cattivone?
 
-…Beh negli ultimi mesi in giro non si parla d’altro…ma sai com’è, se non vedo non credo…
 
Lentamente indietreggiavo, mi piaceva questo gioco di sguardi e di movimenti e sapevo che lui adorava rincorrermi per poi farmi cedere alle nostre voglie.
 
-Piccola non mi istigare…potrei essere pericoloso…
 
Scesi dall’altro capo del letto incollata a quell’immensità di iridi scure mentre lui si avvicinava lento.
 
-Uuuhhh che paura…e che mi faresti…?
 
Con un abbraccio sicuro e deciso mi cinse le spalle da dietro, ero un fremito.
 
-Potrei cominciare col mangiarti…a partire da qui…
 
 Morse leggermente il lobo  dell’orecchio.
 
-…per poi passare qui…
 
e sentii i suoi denti sfiorarmi umidi e avidi il collo…
 
-…e ancora qui…
 
Poi la spalla.
 
Quel dolce divorarmi mi procurò un solletico irresistibile e tra risate e pelle d’oca mi piegai a terra. Distesa supina con i gomiti poggiati sulla moquette lo tenevo di fronte, bello e maestoso come un Apollo musagete. Con delicatezza mi sfilò il pantalone del pigiama. In effetti aveva ragione, facevamo prima. Avevo le gambe nude e l’emozione mi fece rabbrividire quasi al punto di tremare. Mi sfiorò leggermente la coscia ed ebbi come l’istinto di serrare le ginocchia, forse ancora per qualche ingenuo residuo di pudicizia, forse perché mi piaceva l’idea di opporre una maliziosa resistenza, o forse perché quella volta mi andava di vederlo un po’ “cattivo”. Ma poi mi bastò cogliere nelle sue mani l’ardore con cui si aprì la camicia e leggere nel suo sguardo il desiderio fisico di noi, che mi concessi estasiata a quella sublime invasione.
Il resto fu amore.
Ma non mancarono momenti di tensione.
 Il tour fu stressantissimo e talvolta si sentiva abbattuto per qualche critica di troppo, fuori forma e fisicamente stremato. Il suo perfezionismo era alle volte deleterio più che migliorativo.
Quando era troppo sotto pressione perdeva di lucidità, vedeva tutto storto, e in quei momenti cercavo di stargli vicino come potevo, ma spesso e volentieri discutevamo per alcuni irritanti guizzi di irascibilità che gli venivano fuori spinti dalla pressione dello stress. Mi rispondeva sgarbatamente nonostante i miei sforzi di comprenderlo e i miei tentativi di essergli di conforto. Ma non mi lasciavo piegare, piuttosto lo lasciavo sbraitare da solo così che sbollisse la rabbia momentanea.
“Mantieni i piedi per terra…rimani sempre te stessa…”
Le parole di mia madre in quei momenti mi risuonavano nella mente, sentenziose.
Ma nonostante tutto quell’uomo trovava sempre il modo di farsi perdonare e non necessariamente con cose eclatanti e regali costosi, sebbene per quelle cose fosse sempre stato portato, ma anche  con la semplicità, con la sincerità. Sapeva chiedere scusa e quando lo faceva gli dicevo- Ecco! È tornato il mio piccolo grande uomo normale…
Quella frase dopo ogni litigio era il segno che pace era stata fatta e allora ci lasciavamo prendere dalle coccole. Accarezzandomi i capelli e massaggiandomi delicatamente le tempie mi raggomitolavo su di lui e lasciavo le sue lunghe dita affusolate sfiorarmi producendo estese ondate di brivido e intrecciandomi sapientemente capelli e pensieri.
 
Il ritorno a casa fu trionfante.
Nel giro di pochi mesi lo accompagnai a decine di premiazioni. Voleva che fossi sempre presente perché sosteneva che quei premi fossero anche un po’ miei dato che gli avevo donato la serenità, la sicurezza, il rispetto e la sollecitudine che gli avevano permesso di fare un buon lavoro. Sinceramente non ricordavo di aver fatto tutto questo; era così naturale per me darmi a lui con tutta me stessa. Non desideravo nessun premio, nessun riconoscimento; la sua felicità era per me la più grande ricompensa.
Un grande successo meritava di essere adeguatamente festeggiato e non appena ebbe modo di rimettersi in sesto dopo lo scombussolamento post-tour, Mike pensò di organizzare una cena con l’intero staff che lo aveva accompagnato in quell’avventura per ringraziare quanti si erano dedicati anima e corpo nella realizzazione di quel progetto. Dal canto mio mi auguravo che quella potesse rivelarsi anche l’occasione migliore per comunicare ufficialmente a tutti della nostra relazione, ne avevo abbastanza di commenti a mezza voce e risatine di quanti avevano ormai sospetti fondati, e poi del resto eravamo giovani, ci volevamo bene, avevamo tutto il diritto di amarci senza nasconderci, no? Ma io, povera ingenua che viveva ancora nel mondo delle favole, non avevo fatto i conti con la dura realtà che spietatamente mi confermava che l’uomo che amavo più di ogni altra cosa non si riteneva ancora detentore di questo diritto.
Quella sera c’erano tutti, ma proprio tutti.
Con i suoi collaboratori mi trovavo bene, ma era con le collaboratrici e seguito che avevo qualche problemino. Ero un tipo geloso, ma a differenza sua lo riconoscevo e di certo non mi facevo problemi a mostrarlo in pubblico.
Quella sera gliene diedi la dimostrazione.
Per amore suo, e perché in fondo all’inizio mi stava bene anche a me, avevo rinunciato a vivere la nostra storia alla luce del sole. Fu uno sforzo sovraumano perchè non ero abituata a questo tipo di cose. Ma adesso che il tour era finito e che potevamo prenderci un momento di relax, non vedevo più ragione alcuna di nasconderci ancora; due anni di latitanza mi sembravano sufficienti.
Mike era costantemente circondato da galline in calore che cercavano di portarselo a letto con una costanza e una devozione quasi ammirevole. E lui, senza essere mai andato oltre, aveva quei modi per sua natura gentili, galanti e disponibili che facevano credere ad ogni donna che lei fosse quella della sua vita, e dovevo riconoscere che questa cosa mi irritava maledettamente.
Rachel, una bionda tettona alta un metro e cinquanta, con dei grandi occhi a palla color nocciola e un viso squadrato,  era l’addetta all’ufficio stampa e alle pubbliche relazioni; non c’è che dire quel ruolo le calzava a pennello. Adorava Mike e lo idolatrava come un dio in terra, rasentando talvolta  il ridicolo.
Sebbene cercassimo di non dare nell’occhio ormai i membri dello staff si erano accorti di me e Mike e delle nostre improvvise sparizioni; Rachel fu la prima e quanto più se ne rendeva conto tanto più faceva la cretina. Mi odiava e mi sfidava.
Fino ad allora c’ero stata alle sue provocazioni e la cosa quasi mi divertita, ma ormai ero esausta di dover fare i conti con quelle punte di nervosismo che mi facevano prudere le mani al punto di volergliele schiaffare in faccia non appena la incontravo. Più di una volta avevo discusso con Mike del caso “Rachel la tettona” come la chiamavo io, forse anche mossa da un tantino di invidia femminile dato che io da ballerina non sono mai stata prosperosa. Appena aprivo l’argomento lui mi prendeva in giro fino allo sfinimento.
 
–Ah e sarei io il siciliano degli anni cinquanta?...-mi diceva ironico- lasciala stare e fidati di me…
 Ma in realtà io di lui mi fidavo, era lei che mi preoccupava.
E così, un po’ per lo stress accumulato a causa di tutti quei mesi di viaggi, un po’ perché nella mia testa ogni tanto frullavano idee nefaste riguardo il mio non essere all’altezza di stare con lui, che durante quella cena raggiunsi il massimo livello di saturazione.
Ero una bomba ad orologeria.
A tavola Rachel si piazzò tra me e lui; c’era da aspettarselo.
All’inizio la lasciai fare, non volevo innervosire Mike con le mie battutine taglienti che di solito accompagnavano ogni occasione di incontro con lei. I miei propositi quella sera erano dei migliori, fino a quando lei non iniziò ad esagerare un po’ troppo per i miei gusti.
… La mano sulla spalla, l’occhietto languido, gli sfiora il viso con una carezza,  gli mette una mano fra i capelli…
Lui era visibilmente imbarazzato per via dell’eccessiva vicinanza di quella scollatura con latteria annessa che Rachel sapientemente gli sventolava sotto il naso; cercava il mio sguardo come per dire “Vedi, sta facendo tutto lei…”, sguardo che puntualmente evitavo facendogli cogliere tutto il mio fastidio. Mike sapeva bene quanto fossi teatrale in ogni mia manifestazione emotiva, sia positiva che negativa e mi conosceva quando ero arrabbiata; in quel momento arrabbiata era un eufemismo. La cosa stava diventando di cattivo gusto, dovevo darci un taglio.
I miei occhi emanavano fiamme.
Rachel indossava un vestitino di lana color panna, piuttosto scollato, che non lasciava nulla all’immaginazione.
Pensai maligna che rosso e panna fossero un bell’abbinamento; feci per allungarmi e versarmi del vino quando, ”del tutto inavvertitamente”, le rovesciai l’intera bottiglia addosso.
Lui  sbarrò gli occhi. Immaginava che nella mia testolina stesse frullando vendetta, ma non credeva che arrivassi a tanto. Non davanti a tutti.
 
-Uh quanto mi dispiace...
 
 Lei mi lanciò un’occhiataccia.
 
-Vado in cucina a prendere qualcosa per asciugare a terra…
 
Mi alzai soddisfatta.
Mike mi seguì a ruota.
 
-Ma ti sei rimbecillita?- mi disse alterato e sbattendo la porta alle sue spalle.
 
Senza neanche voltarmi, mentre frugavo nei cassetti in cerca di uno strofinaccio
 
 –Ce l’hai con me?
 
-La smetti di fare la stupida? Lo so bene che lo hai fatto apposta. Ma ti pare il modo di affrontare le cose questo? Sembri una ragazzina…
 
La pressione mi stava salendo alle stelle; il tornado Susanna era pronto a devastare tutto ciò che le gli fosse capitato davanti.
 
-Bene “Mr. Ho Vinto Tutti I Grammy Di Questa Terra” , adesso la ragazzina sai che fa? Va di là e dice all’intera tavolata in convivio che è stanca di nascondersi e che da due anni sta con un uomo che quasi sembra vergognarsi di dire che la ama e che stanno insieme. Sempre se la ama ancora!
 
-Ah …addirittura stiamo a questo punto. Ma lo sai che tu non hai capito proprio un bel niente? Se non me la sento di rendere la cosa pubblica a mezzo mondo, perché lo sai che non si tratta di chiacchiere di quartiere ma di giornali, paparazzate e schifezze del genere su scala mondiale, lo sai vero? È perché volevo proteggerci, volevo che il nostro rapporto rimanesse una oasi incontaminata…lontana da tutti…dove…
 
-Terra chiama Michael, terra chiama Michael…! Ma dove credi di vivere? Mike non puoi nasconderti in eterno; non puoi scappare dalla realtà solo perché ti fa paura. La vita va affrontata, cazzo! E poi stiamo parlando di amore, il sentimento più antico e bello dell’universo. Ma perché nascondere la propria felicità…perché non…
 
-Perché la cattiveria e l’invidia distruggono ogni cosa…
 
-Mike ma non siamo in un film dove i buoni combattono contro i cattivi e alla fine il bene trionfa. Questa è vita vera…la vita vera è fatta anche di questo; non è chiudendoti in un mondo finto, nascosto, dove tutto sembra perfetto, là fuori cambieranno le cose. Le persone che parleranno male di te ci saranno sempre; è lo show biz Mike, è il prezzo che devi pagare per essere l’uomo più famoso al mondo degli ultimi venti anni…Facevi l’impiegato se non ti andava di stare sulla bocca di tutti, non la pop star…
 
-Ma non capisci che la gente non ha rispetto; è ingorda di pettegolezzi…di…
 
-Ma perché vedi sempre o tutto bianco o tutto nero? Il mondo è fatto di sfumature e tra quelle sfumature ci sono le persone che ti amano e che ti vogliono bene. Non costringerle alla segregazione…permetti a queste persone di amarti alla luce del sole. Permettimi di amarti alla luce del sole…
 
La discussione stava degenerando; abbassammo i toni ma l’amarezza non voleva saperne di abbandonare le alte vette che aveva raggiunto.
 
-Dai, Susie, ne parliamo con calma più tardi…quando se ne vanno via tutti…non è il momento…dai…-disse aprendo leggermente la porta della cucina come per invitarmi a tornare a tavola.
Stava scappando di nuovo.
 
-Tutti…tutti…tutti…!!!! Ne ho abbastanza…E noi?…noi invece?…Sai che ti dico, stasera stai con “tutti”…io me ne vado, scusami ma non sono dello spirito giusto
 
Veloce come un razzo attraversai la sala da pranzo, gli sguardi degli invitati mi seguirono perplessi; presi la borsa e il soprabito e me ne andai.
Il tornado si era abbattuto sull’isoletta sperduta chiamata Mike e Susie, e dietro aveva lasciato solo distruzione.
Mi sentivo uno schifo e la mia testa era un frullatore impazzito di pensieri ambivalenti.
“Ma perché ogni volta che litighiamo così mi sento in colpa? Perché alla fine di ogni discussione lui si trasforma, e dopo aver alzato un po’ la voce diventa quel bimbo triste dagli occhi smarriti? Perché mi sento così male? Sono io la vera causa dei suoi problemi, sono una sciacquetta egocentrica che non capisce un cavolo. Lo voglio tutto per me, voglio che dica al mondo che mi ama, voglio essere al centro dei suoi pensieri, voglio voglio, voglio….Sono una schifosa egoista. Ma forse no…forse lo amo così tanto che sento il bisogno di dirlo all’universo, forse lo sento così mio che il solo pensiero che qualcuno me lo possa strappare via mi uccide. Forse vorrei solo poterlo amare senza restrizioni, poter uscire con lui la sera, mangiare un gelato al parco, fare acquisti a Natale, portarlo in Italia a conoscere la mia famiglia. Forse non sono capace di rapportarmi a lui e al suo essere uno e mille allo stesso tempo, sicuro e deciso nel lavoro, poliedrico e comunicatore sul palco, ardente e puerile in amore, timido, riservato e timoroso con il resto del mondo. Come possono tutte queste cose concentrarsi in un’unica persona”…Non c’era spazio che per questi pensieri nella mia mente.
Forse, forse, forse…Forse avevo preteso troppo dalla vita.
Ma la realtà è che quando ti innamori di quel sorriso pulito, di quegli occhi figli della terra, dell’odore speziato dei suoi capelli, quando conosci a memoria ogni centimetro del suo corpo, quando impari dove soffre di più il solletico e come si lava i denti, quando ti diverti a preparargli la cena e piegargli le camicie, è allora che capisci veramente che se anche non ci fossero stati riflettori, concerti mondiali, premi e miliardi di dollari, quel sorriso, quegli occhi, quei capelli, quel corpo…sarebbero esistiti lo stesso e tu quel ragazzo lo avresti amato comunque.
Quanto più cercavo di razionalizzare la questione tanto più mi sentivo male; era come se dopo una lenta agonia arrivassi a comprendere che forse non potevamo stare insieme e che in realtà io quell’uomo non lo avevo mai capito. E saliva ancora di più il senso di colpa e lo sdegno verso me stessa e l’incapacità di apprezzare che io, Susanna De Matteo, ero la ragazza più fortunata dell’intero pianeta perché stavo con Michael Jackson, la più grande star di tutti i tempi.
Ma ecco, ancora una volta mi stavo sbagliando.
L’unica cosa che proprio non potevo rimproverarmi della nostra relazione era il fatto di non averlo trattato ed idolatrato per il suo essere il re indiscusso della musica; lui con me voleva sentirsi vero, reale, con i suoi pregi e i suoi difetti e con le difficoltà che lo stare insieme poteva comportare. E forse era proprio quel realismo a portarmelo via e a sbattermi in faccia che una come me in fondo con uno come lui non ci poteva stare, in una lotta titanica tra ciò che lui rappresentava per il mondo intero e le esigenze di una piccola ragazza normale.
Stavo male, mi rigiravo freneticamente nel letto.
- Quell’uomo mi ha così assorbito da trasmettermi anche la sua insonnia- pensai.
Intorno a me aleggiava un’aria soffocante. Sentivo le pareti della stanza restringersi ed espandersi freneticamente. Ero avvolta in uno stato di ansia tale da farmi accelerare il battito cardiaco. Non immaginavo che un uomo fosse capace di suscitare in me reazioni psicosomatiche di tale incidenza. Dopo circa due ore Morfeo si abbatté pesante e tormentato sulle mie palpebre.
 
-Mamma mamma voglio una coperta…
 
Era buio e mia madre teneva per mano me bambina mentre camminavamo nei vicoli del centro storico di Napoli. Le strade erano deserte e si sentiva solo il rumore dei nostri passi. Era inverno però indossavamo degli abiti leggeri per cui sentivo molto freddo.
 
-Non ce l’ho, mi dispiace. Ormai non è più compito mio occuparmi di te. D’ora in poi non farò altro che accompagnarti silenziosa.
 
-Ma come mamma? Ho bisogno di te, non sono ancora pronta…
 
-Non è colpa mia gioia di mamma, è il morbo che lo vuole…
 
Ad un tratto un braccio sbuca dal buio di un cancello. La tira, la strattona. Cerco di afferrarla, faccio resistenza, ma non sono abbastanza forte. Quella morsa la tira violenta verso le inferriate, le fa sbattere la testa, le fa male.
 
-Mamma non ce la faccio…mammaaaaaa…aiutatemiiiii vi pregoooooo!!!!!!
 
-E’ il morbo tesoro mio…è il morbo che lo vuole…è il morbo che lo vuole…è il morbo che lo vuole…
 

Squillò il telefono.
 Alzai violentemente la testa dal cuscino. Ero in un bagno di sudore.
Per fortuna era un incubo, era passato, non esisteva. Ma allora perché mi sentivo ancora soffocare? Perché le braccia mi facevano così male? Perché avevo il terrore di aver perso qualcosa?
Al quarto, quinto squillò realizzai che dovevo rispondere.
 
-Susanna?
 
Riconoscevo quella cadenza. Cadenza di casa mia. Era Riccardo, mio fratello.
 
-Riccà? Che è stato?
Mi preoccupai. Iniziai ad agitarmi; qualcosa mi diceva che…qualcosa…
 
-Mamma...mamm…Mamma è morta Susà!
 
Mamma è morta.
Mamma è morta.
Mamma è morta….
…è il morbo che lo vuole…
…è il morbo che lo vuole…
…è il morbo che lo vuole…
 
La cornetta mi cadde dalle mani.
Respiravo affannosamente. Mi dondolavo in maniera compulsiva, la testa mi pulsava…
Come dopo un terremoto, una valanga, uno tsunami. Solo macerie; così mi sentivo dentro.
Il dolore più grande della mia vita.
Piansi al punto da strapparmi gli occhi; urlai di sofferenza perdendo completamente la voce. Non ero più niente.
Chiamai Mike e gli dissi che l’indomani sarei partita con il primo volo per l’Italia per dare l’ultimo eterno saluto alla donna più importante della mia intera vita.
Quella mattina all’aereoporto riconobbi Jim. Accanto a lui appoggiato alla macchina e nascosto da occhiali scuri, berretto e sciarpa fin sotto gli occhi c’era lui. Si era imbacuccato per passare inosservato. Tanto era gennaio, faceva un freddo cane, nessuno ci avrebbe fatto caso.
Per l’ennesima volta si era nascosto. Ma sapevo, quella volta avevo davvero capito…
Quel suo nascondersi aveva il sapore di rispetto, non voleva che anche il mio dolore, il dolore più grande che una figlia possa provare, diventasse una questione di gossip.
Gli corsi incontro gettando le valigie per l’aria.
Mi accolse in un abbraccio amorevole e quasi analgesico. Si tolse gli occhiali lasciando nei miei i suoi occhi carichi di un dolore quasi simbiotico, che colmi di pianto si bagnarono con le lacrime della mia sofferenza. 
  
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