CAPITOLO QUATTORDICESIMO – SALVARE L’OMNIVERSO E ALTRI SPORT ESTREMI
Premessa:
L’autore ci tiene a rassicurare i suoi quattro lettori sul fatto che,
nonostante il titolo del capitolo, nessun personaggio di “Maximum Ride” verrà
utilizzato in questo crossover. Ci sono già
abbastanza Mary Sue in questa storia, una con le ali
è proprio l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno.
Nell’Universo ci sono un sacco di cose.
Per la maggior parte si tratta di fenomeni
interessanti e visivamente spettacolari ma non molto utili all’atto
pratico, come giganti rosse, pulsar o nane brune. I
buchi neri, se non altro, possono risultare efficaci
se ci si vuole liberare di qualcosa di scomodo… Sempre che il buco bianco
corrispondente non decida di aprirsi proprio davanti alla persona a cui si
stava tentando di nascondere il problema in questione (ed era successo almeno
una volta, a quanto si diceva).
Pianeti e satelliti invece sono molto meglio,
soprattutto perché c’è la possibilità che ospitino forme di vita intelligente, o quantomeno non troppo
stupida. Inoltre possono rivelarsi ottimi luoghi di
villeggiatura, come la ciurma della Crazy Diamond aveva imparato a proprie spese.
E poi, ogni tanto, ci sono anche delle astronavi.
Sigla d’apertura: Shugoshin, dei JAM Project
“Chissà come mai ci ha convocati tutti sul ponte di
comando…”, domandò Elena, dando voce a ciò che si
stavano chiedendo tutti. “Cioè, non so se
dobbiamo avere paura o che cosa, nell’interfono sembrava agitata e fin
troppo euforica…”.
“Quello non è indicativo”, rispose Pietro,
aggiustandosi l’uniforme grigia. “Haruhi
è sempre agitata e fin troppo
euforica”.
“Non hai tutti i torti nemmeno tu”.
“Piuttosto, perché abbiamo dovuto metterci di nuovo addosso questa roba?”, intervenne Riccardo, indicando
la propria divisa. “È brutta e pure scomoda… E Nagi non aveva mica detto che ci
avrebbe fatto dei costumi adatti a noi?”.
“Ma dai, sarebbe come andare sempre in
giro in cosplay”, si lamentò Marco.
“Anche perché se lasci fare a lei minimo minimo ci ritroviamo conciati come dei personaggi
scartati da qualche Dragon Quest”.
“Questo lo dici solo perché ti toccherebbe l’healer”, lo punzecchiò Pietro.
Marco abbassò la testa, sconfitto. “Vi prego, almeno voi lasciate perdere questa storia…”. Emise un
profondo sospiro. “Anche Piton mi ha detto che gli incantesimi in cui faccio meno schifo sono
quelli di cura, e una cosa del genere detta da lui è tipo il più
grande dei complimenti…”.
Come al solito in plancia
c’erano solo Haruhi e Kyon…
e una decina di Pikmin dei colori più vari,
seduti a gambe penzoloni sul bordo di uno dei quadri comandi e intenti a
parlottare nel loro linguaggio acuto e frusciante. Nell’udire il
quartetto entrare, si voltarono tutti verso la porta. “Alla
buon ora!”, li accolse Haruhi battendo
un piede per terra con aria irritata. “È passato un secolo da quando vi ho chiamati!”.
“Veramente sono passati sette minuti e
cinquantuno secondi”, ribatté Kyon. Lei
gli indirizzò uno sguardo omicida. “È inutile che mi guardi
così, è la verità”.
“Comunque
sia”, ricominciò lei, ancora un po’ seccata ma meno rispetto
a qualche secondo prima. “Dopo la noia profonda degli ultimi mesi
finalmente abbiamo scoperto qualcosa che valesse la
pena di essere trovato!”. La giovane donna era umorale come suo solito, e
nel corso della frase il suo tono da scazzato divenne
euforico. “Se tutto andrà come spero
potremo anche mettere da parte un bel po’ di soldi per una classe
S!”.
“Classe A”, la corresse
Kyon. Altra occhiata di puro disprezzo. “Ehi,
io una classe S non la piloto, te l’ho detto che
le manovre di parcheggio sono un casino”.
“Uff, stai sempre a
mettermi i bastoni fra le ruote!”.
“Puoi sempre trovarti un altro comandante, se
la cosa non ti sta a genio”.
Haruhi incrociò le braccia al petto e gettò
al suo sottoposto un’occhiata in tralice. “N-non
hai capito, stupido”, borbottò. “E comunque
in effetti non saprei che farmene di tutto quello spazio…”.
Uh, tsundere moment!, pensò Marco con un ghignetto
sul volto. È proprio vero che per
quanto lei sia incontenibile alla fine Kyon riesce a
domarla…
Già,
intervenne Pietro per via
telepatica. Pare che in questo caso la
forza inarrestabile sia stata sconfitta dall’oggetto inamovibile!
Pietro,
lieto che tu voglia fare due chiacchiere, ma non dovresti chiedere il permesso prima di leggere i pensieri altrui?
Oh, scusa,
coso… Ma se non vuoi che lo faccia dovresti evitare di sparaflasharli in giro.
Ehm…
ok, ci proverò.
Haruhi intanto sembrava essere tornata
all’eccitazione di un minuto prima. “Allora, siete pronti a vedere
con i vostri occhi la nostra futura fonte di quattrini?”, domandò,
per poi fissare i quattro terrestri come se si aspettasse la più
entusiastica delle risposte. Loro, dopo essersi guardati negli occhi a vicenda
con un po’ di perplessità, si limitarono ad annuire, cosa che comunque sembrò bastare alla ragazza. “Kyon, mostra loro l’immagine!”,
annunciò, puntando con aria plateale un indice verso lo schermo.
“Wow!”, esclamò Riccardo un paio
di secondi dopo. Poi guardò i tre amici, che parevano decisamente
meno colpiti, e si ricompose. “Cioè,
wow”, ripeté in tono dimesso.
“Tutto qua?”, domandò Haruhi, chiaramente scocciata. “Voialtri non avete
nulla da dire?”.
“Beh… è un’astronave,
no?”, replicò Elena facendo spallucce. “Non è che non
ne abbiamo viste, in questi ultimi mesi”.
“Senza contare che quella di B.B. e Raven era molto più
impressionante, aggiunse Pietro. “Questa pare un rottame, dubito che mi
azzarderei a viaggiarci sopra”.
Haruhi ricominciò a far ticchettare la scarpa sul
pavimento, stizzita. “È proprio questo il punto!”,
esclamò con il tono di chi ha appena realizzato
di aver dato perle ai porci. “Quella è una nave alla deriva, e se
riusciamo a recuperarla e a portarcela dietro fino a
El-Dorado ci potremo ricavare un mucchio di soldi, come vi ho già detto
più o meno novemila volte!”.
Marco fissò la nave con maggior attenzione;
la sua esperienza con i veicoli interplanetari era alquanto limitata, ma in effetti quello sullo schermo era un po’ diverso
dagli altri: laddove molte delle navi che aveva visto avevano forme bizzarre e
spesso niente affatto aerodinamiche, questa sembrava un missile, affusolata,
cilindrica e molto, molto lunga. Anche il colore dello
scafo differiva dal consueto: sembrava costituito da un metallo grigio molto
scuro, quasi nero, sul quale risplendevano strie luminose verde brillante
disposte in uno schema quasi regolare (le mancanti dovevano essersi spente a
causa della mancata manutenzione, ipotizzò Marco). “E quella… mh, è una
classe S?”, domandò, rivolto a nessuno in particolare.
Kyon scosse la testa. “No, guardando solo alle
dimensioni è una classe A, ma per molto poco”,
scrollò le spalle in quello che sembrava un brivido. “Anche se è palese che quella nave non è uscita
da uno dei nostri cantieri”.
“Ed è proprio questo il motivo percui vale così tanto!”,
si intromise Haruhi, di nuovo raggiante.
“Quindi, in
pratica”, fece Riccardo. “Quella sarebbe un’astronave aliena?
Aliena aliena,
insomma”.
“Esatto. Molto probabilmente a bordo c’è qualche
tecnologia che potrebbe tornare utile agli scienziati della
Confederazione”, spiegò Kyon. “Purtroppo non credo ci sia qualche superstite,
altrimenti avrebbero inviato da tempo un segnale di soccorso”.
Elena emise un sospiro contrariato: era ovvio che stava per chiedere
proprio quello. “Credevo che tutti i pianeti che vengono
scoperti venissero inseriti nella Confederazione”, disse invece.
Haruhi
ricambiò con un mezzo ringhio di disappunto. “Purtroppo alcune
delle razze non umane non sono granché entusiaste della cosa… In effetti la stragrande maggioranza dei pianeti confederati
sono versioni alternative della Terra o comunque abitate da umani, essendo noi
la specie più diffusa dell’Omniverso”.
La ragazza alzò le spalle. “Molti si limitano a farsi i fatti
loro, e se rispettano gli accordi la cosa ci sta benissimo – con gli Yeerk e i Romulani abbiamo
stipulato dei trattati di pace, per dire – ma ci
sono alcune razze che ci sono apertamente ostili”.
“Quindi ci sono state delle
guerre?”, domandò Elena in tono secco. L’argomento non le
andava a genio, e si vedeva chiaramente.
“Beh, in un paio di occasioni abbiamo
proprio dovuto sterminarli… Ehi, è inutile che mi guardi
così, era una situazione alla ‘o noi, o loro’”,
spiegò Haruhi, dopo aver intercettato
l’occhiata infuriata e inorridita di Elena. “L’ultima volta
che
Marco aggrottò la fronte. “Forse ho capito chi potrebbero
essere… Cervello esposto, occhi a palla, espressione da ‘ne so molto più di te e te lo dimostro con la mia
pistola vaporizzante’?”.
“Esatto, proprio loro! Abbiamo dovuto eliminarli dopo che
avevano attaccato due Terre per puro divertimento. Ci sono
volute un centinaio di navi di classe A che trasmettevano ‘It’s all coming back to me’
dall’orbita di Marte… Poi c’era poltiglia verde ovunque, ma
se non altro nessuno ha dovuto ripulire”.
“Celine Dion
usata come arma di sterminio”, mormorò Marco. “Ora le ho
sentite davvero tutte”.
“L’ho sempre saputo che le sue canzoni nuocciono
gravemente alla salute”. Pietro annuì con aria convinta.
“Comunque sia”, riprese Haruhi. “Ora come ora la minaccia maggiore viene
dalla specie chiamata Zerg, non credo li
conosciate…”.
“Quelli di Starcraft!”,
esclamarono all’unisono Marco, Pietro e Riccardo.
Haruhi
li fissò con tanto d’occhi, poi scosse la
testa. “Sapevo che non dovevo sottovalutare voi nerd”,
borbottò in tono amaro.
“Ehm… una spiegazione per gli ignoranti?”,
domandò Elena con il braccio destro sollevato.
Pietro si schiarì la voce. “Sono una razza di parassiti
interplanetari che infettano altre specie e le assimilano, e possono spostarsi
nel vuoto interstellare viaggiando da un pianeta all’altro”.
“Hai presente i Borg?”,
intervenne Marco. “Il principio è più o
meno lo stesso”.
“Infatti ci sono… ehm, dei
cervelli giganti o qualcosa di simile, che controllano le singole
unità”, continuò Riccardo. “Come si
chiamavano?”.
“Cerebrate”, rispose Pietro.
“E poi c’è l’Overmind che è la mente-madre che coordina tutti i Cerebrate”.
“Ecco, sì. E se distruggi questa mente-madre puoi
ucciderli tutti, o comunque indebolirli”.
Elena rabbrividì. “E’ terribile. E
disgustoso”.
“Già”, le fece eco Haruhi.
“E quel che è peggio è che la loro
attuale regina è – o meglio, era – un essere umano”.
“Sarah Kerrigan, dico bene?”, disse Pietro.
“Esatto, proprio lei”.
“E insomma, quella nave là fuori potrebbe essere stata
attaccata da questi Zerg”, ricapitolò Elena mentre accennava al visore principale.
Questa volta fu Kyon a prendere la parola.
“Forse. La nave è danneggiata, ma non ci sono i classici segni di
bruciatura sullo scafo, quindi potrebbe essere rimasta
vittima di un attacco Zerg”.
“Perciò che facciamo?”,
domandò Marco. “Cioè, non si
può semplicemente agganciarla e portarcela dietro? Ce
l’avremo uno di quei raggi traenti montato a bordo, no?”.
Haruhi
sbuffò. “Se la cosa fosse stata così semplice
l’avremmo fatto da un bel pezzo, non ti sembra? Il problema è che
gli scudi deflettori a bordo di quel rottame funzionano ancora a meraviglia, e
per giunta sono particolarmente intensi; quindi niente teletrasporto,
niente raggi traenti, e credo che a meno di non aprire un canale stabile
dall’interno siano impossibili pure le comunicazioni in entrata”.
“E quindi?”.
“E quindi questo ci porta al motivo percui
vi ho chiamati qui”, rispose Haruhi.
“Voglio che andiate su quella nave e disattiviate il sistema di scudi,
così che possiamo agganciarla con un raggio traente. E nel caso ve lo
stiate chiedendo sì, è il primo ordine effettivo che vi do da quando siete stati arruolati dalla Confederazione”.
La ragazza sembrava tremendamente soddisfatta della decisione presa.
“Che?”, esclamò Pietro,
grattandosi i ricci neri. “Ma non hai appena detto
che potrebbero esserci degli Zerg, là
dentro?”.
Riccardo gli mollò una pacca sulla nuca. “Piantala di rovinarci sempre tutto il divertimento! E comunque il capitano ci ha dato un ordine, quindi è
nostro dovere rispettarlo. Giusto, capitano?”. I suoi occhi brillavano di
una gioia febbrile e parecchio inquietante.
E’ chiaro che non vede
l’ora di mettere mano alla spada e affettare qualsiasi cosa gli si pari
davanti…, pensò Marco, mentre deglutiva rumorosamente. Ho paura di quello che gli allenamenti di Zaraki possano avere fatto ai suoi
centri del pericolo e alla sua stabilità mentale…
“Ehi, perché mi hai picchiato?”, si lamentò
Pietro massaggiandosi il punto colpito. “Guarda che io non
stavo affatto dicendo ‘Meglio non andarci’.
Era solo che volevo essere sicuro della possibile pericolosità della
situazione”.
Haruhi
fece spallucce. “Non vi mentirò, potrebbe
essere che dobbiate fare un po’ di disinfestazione, là dentro. Ma credo che voi sarete in grado di affrontare la situazione
senza problemi! E poi siete miei sottoposti, potrei
mai mandarvi allo sbaraglio e farvi rischiare la vita?”.
Conoscendoti, la risposta è:
assolutamente sì, pensò
Marco.
Elena si fece avanti. Sorrideva, e la sua espressione non era molto
diversa da quella di Riccardo. “Beh, nel caso almeno potremo prendere a
calci il sedere di qualche alieno cattivo!”.
Ecco, siamo fregati.
La navetta d’emergenza della Crazy Diamond era stata progettata al massimo
per tre persone e/o trecento chili (o così quantomeno recitava la placchetta di metallo posta
sopra il portello). Haruhi, però, aveva
decretato che fare due volte avanti e indietro sarebbe stato uno spreco di
tempo e di carburante; quindi aveva obbligato i sette membri della
“squadra di possibile disinfestazione” a togliere due dei sedili e
a stiparsi a bordo. Uno di quei sette era Zaraki, che
può o meno da solo occupava lo spazio delle tre
persone in questione.
“Come mai sei l’unica che può usare un
sedile?”, domandò Marco, che non era certo di chi fosse il
proprietario delle ginocchia che gli stavano martellando le
reni.
“Perché sono l’unica che
sappia pilotare una navetta”, rispose Yoichi in
tono pratico. “Quando fai la cacciatrice
di taglie, sono cose che devi sapere fare”.
“Quindi anche lei, Zaraki,
sa come si fa?”, domandò Pietro.
Lo shinigami emise un grugnito di
disappunto. “Ken-chan ci ha provato, una
volta!”, rispose per lui Yachiru. La bimba
tacque per qualche secondo, mentre il visino le si faceva
serio serio; era uno spettacolo quasi inquietante da
tanto era raro. “Non è finita bene, no no”.
Se il ricordo ha tolto il sorriso a una come lei dev’essere
stato davvero qualcosa di traumatico…,
pensò Marco.
“Manca ancora molto?”, mormorò Elena; era pallida e
aveva la fronte ricoperta di sudore. “Credo stia iniziando a mancarmi
l’aria…”.
“Tranquilla”, rispose la sua maestra. “Ci siamo
quasi. Devo solo penetrare il campo di forze e completare la manovra di aggancio…”. L’abitacolo iniziò a
vibrare violentemente, mentre dall’esterno dello scafo si levarono
stridii simili a quelli che produrrebbero degli artigli di adamantio su una lavagna, poi il suono di un oggetto
metallico che veniva sradicato a forza. Almeno una decina di oggetti,
in realtà.
“Ecco, dovremmo esserci!”, annunciò Yoichi, alzandosi di scatto e mollando la cloche come se
avesse cominciato a scottare all’improvviso. “Ma
credo che bisognerà riverniciare la fiancata della navetta”.
Memo: chiedere a Kyon
di insegnare a Yoichi a parcheggiare, pensò Marco, togliendosi le dita dalle
orecchie. Anzi, ancora
meglio, chiedere a Kyon di insegnare a qualcun altro
a pilotare. Dopo quattro o
cinque secondi, l’arcata dentale superiore smise di vibrargli.
“Evvai, non vedo l’ora di andare
a smazzare qualche alieno!”, esclamò
Riccardo lanciandosi verso il portello per quanto lo spazio limitato glielo consentisse, ma un gesto di Yoichi
lo bloccò.
“Fermo lì! Adesso che siamo dentro al
campo di forze della nave possiamo lanciare l’analisi
dell’aria interna. Dì, non vorrai mica aprire la porta e scoprire
che c’è stata una perdita o che il precedente equipaggio respirava
del cloro, eh?”. La donna pigiò un paio di tasti sul pannello di
controllo e attese per qualche secondo. “Ok,
sembra tutto a posto”, disse. “Ma!”,
esclamò subito dopo, notando che Riccardo già stava armeggiando
con la maniglia del portello. “Prima di uscire, dobbiamo discutere di un
paio di cose”. Yoichi scalò il sedile in
modo da troneggiare i presenti e non ridurre ancora di più il già
limitato spazio personale; la sua alta coda di capelli neri sfiorava il
soffitto metallico. “Prima di tutto, vedete di contenervi. Se davvero ci sono degli Zerg o gli dei soli
sanno che altro, su questa nave – e io spero vivamente di no –
ricordatevi comunque che stiamo navigando nel vuoto interstellare e che basta
un colpo abbastanza potente e mal piazzato per aprire una falla e condannarci a
morte. Mi rivolgo soprattutto a te, Zaraki,
considerando come sei abituato a combattere”.
Lo shinigami si rabbuiò, facendo
rabbrividire Marco di terrore: era come trovarsi di fronte a
un branco di elefanti infuriati lanciati alla carica, senza potersi spostare.
“Io non vengo a dire a te come combattere, donna”, ringhiò.
“Già, ma tu mi ascolterai comunque”,
gli tenne testa lei. “Non credo che il fatto che io sia stata scelta dal
capitano come capo della spedizione per te possa contare qualcosa,
conoscendoti; ma promettimi almeno che eviterai azioni che possano mettere in
pericolo la nostra incolumità”.
Riccardo fece schioccare la lingua; la sua irritazione era evidente.
“Il capitano Zaraki non lo farebbe comunque”, spiegò, a braccia conserte.
“C’è Yachiru, con noi, e lui non
potrebbe mai metterla in pericolo”.
“Già!”, intervenne la diretta interessata dalla
spalla dello shinigami. “Anche se non sembra affatto Ken-chan
è una brava persona!”.
Zaraki
sbuffò. “Zitti. Non ho bisogno che qualcuno parli al mio
posto”. Stranamente, però, sembrava soddisfatto.
“Possiamo andare, ora?”, domandò Riccardo; passato
il momento in cui aveva difeso il suo capitano, era di nuovo smanioso di
passare all’azione.
Yoichi
sospirò. “Ancora un attimo. Penso sia opportuno dividersi in due
squadre, per poter esplorare la nave in maniera più efficace; Ci siamo
agganciati più o meno al centro, quindi…”,
lo sguardo dell’arciera passò sul gruppetto. “Zaraki, Yachiru, Marco, Elena,
voi vi dirigerete verso la poppa; cercate qualsiasi indizio che possa fare luce
su quello che è successo all’equipaggio… e qualsiasi
eventuale superstite, anche se dubito che ce ne siano. Io, Pietro e Riccardo ci
dirigeremo a prua, così da spegnere
l’emettitore del campo di forza dal ponte di comando. Tutto
chiaro?”.
“Io volevo stare in gruppo con il capitano Zaraki!”,
protestò Riccardo.
Yoichi
gli lanciò uno sguardo di sbieco. “Lo so benissimo. Ed è
proprio il motivo percui ho
evitato di mettervi insieme; questa è una missione, non una gita di
piacere. Inoltre ho cercato di formare dei gruppi il più possibile
bilanciati, e se ti avessi messo con Zaraki non ci sarebbe nessuno con me in grado di maneggiare
un’arma da mischia; ti sembrava una scelta logica?”.
Riccardo emise un grugnito di disappunto ma
non disse altro.
Secondo me si è presa dietro
Riccardo perché ha la spada facile e Pietro perché se non lo si tiene d’occhio rischia di far esplodere qualcosa
quando usa la magia, pensò
Marco, trattenendo a stento un ghigno. Oh,
cavolo, spero che Pietro non mi abbia sentito…
A dire il vero ti ho
sentito forte e chiaro, coso…, il tono
del messaggio telepatico dell’altro era sullo sconfortato andante. E anche se so benissimo che hai ragione, posso chiederti di evitare di
pensarlo a voce alta? Grazie.
Marco, comunque, non fece quasi in tempo a
sentirsi imbarazzato: Yoichi era riuscita a farsi
largo fino al portello e l’aveva socchiuso; dall’altro lato
entrò uno spiffero freddo, che fece rabbrividire i presenti e che
portò con sé un odore asettico ma un po’ stagnante, come
quello del laboratorio di uno scienziato pazzo. Marco si lasciò sfuggire
un singulto che era quasi un conato di vomito, mentre
qualcun altro emise un versetto acuto che nemmeno sembrava provenire da una
gola umana.
Per un attimo tutti si bloccarono. “Ok,
chi è stato?”, domandò Yoichi.
Era evidente che stava trattenendo a stendo una
risata. “Yachiru, per favore, dimmi che sei stata tu”.
La bambina scosse la testa. “Io non ho aperto bocca”.
“E allora chi…?”; proprio in quel momento, un ometto
blu con una foglia sulla testa si inerpicò su
per la schiena di Riccardo e si appollaiò sulla sua spalla.
“Ehi, è uno dei Pikmin!”,
esclamò Elena, intenerita. “Deve averci seguito!”.
“Sì, l’avevamo capito un po’
tutti…”, si fece scappare di bocca Marco.
La ragazza gli lanciò un’occhiata omicida.
“Ehm… Che facciamo? Lo riportiamo
indietro?”, domandò Pietro.
Yoichi
sbuffò. “Non dire sciocchezze! Lo lasceremo qui
sulla navetta, è ovvio”.
Riccardo lo guardò. “E
perché non posso portarmelo dietro? Non credo che tu abbia qualcosa in
contrario, giusto?”.
La creaturina lo fissò con i grandi
occhi rotondi, poi alzò le spallucce emettendo uno squittio che sembrava
significare: “Bah, la cosa non mi dispiace”.
Secondo te qual è il senso di
questa decisione improvvisa?, domandò telepaticamente Marco a Pietro.
Mi sembra ovvio! Vuole imitare in
tutto e per tutto il suo idolo, no?
Beh, ma Zaraki ha Yachiru, non uno sgorbietto blu che squittisce…
Credo che non ci sia molto mercato
per le bimbe pucciose che accettino di farti da
mascotte, sai?
“Va bene, portatelo dietro”, capitolò
l’arciera. “Però ora andiamo, qui
dentro inizia davvero a mancare l’aria…”. E
finalmente aprì del tutto il portello.
I corridoi della nave risuonavano di nuovo di
passi. Il rumore dell’eco che i piedi degli invasori producevano sul
metallo sembravano lo stridio di un violino male accordato. L’impressione
era simile a quella che si ha quando si entra in una
casa stregata: anche se tutto appare tranquillo, si procede con cautela e
reverente timore, per evitare che ciò che riposa
nell’intercapedine delle pareti – qualunque cosa sia – possa
risvegliarsi.
L’aspetto più inquietante della faccenda era che non
sembrava esservi alcuna traccia del precedente equipaggio. Non solo quelle
della loro eventuale dipartita per mano degli Zerg:
non c’era alcuna traccia di loro e
basta, come se avessero saputo in anticipo che sarebbero stati attaccati e
fossero riusciti a mettere in salvo se stessi e le proprie cose.
Qualcuno ogni tanto tentava di fare conversazione, ma dopo un paio di
frasi stentate ripiombava il silenzio, rotto solo dallo scalpiccio dei passi;
perfino Yachiru, di solito tanto
ciarliera, se ne stava appollaiata sulla spalla di Zaraki
senza dire una parola.
Nessuno di loro voleva svegliare il fantasma che dimorava in quella
casa stregata.
Ma
ovviamente era troppo tardi.
Nella plancia di comando, nella sala motori e
in tutti gli altri locali abbastanza grandi da contenerne, le larve di Zerg erano uscite dalla stasi in cui erano rimaste immerse
fino a che le vibrazioni provocate dal maldestro attracco della navetta non le
avevano risvegliate. Alcune di loro avevano già iniziato a chiudersi nei
loro bozzoli pulsanti e palpitanti come organi
esposti.
Presto ne sarebbero uscite.
“E’ inquietante, vero?”, domandò Marco. Aveva
già fatto la stessa domanda qualche minuto prima
senza ottenere grossi risultati.
“Già”, rispose Elena.
Nella quiete che seguì il rumore dei passi
bussò alle orecchie di Marco con intensità intollerabile. “D-dunque…”, tentò di nuovo. “Che dobbiamo fare
esattamente? Arriviamo fino in fondo, o che…”.
“Zitto”. Il ringhio di Zaraki fu
così feroce che Marco si ritrovò appiattito contro la parete
ancora prima di realizzare di essersi mosso.
“C-chiedo scusa”,
balbettò. “M-ma credevo
che…”.
“Ken-chan ha detto
‘zitto’”, intervenne Yachiru.
“Quando Ken-chan fa
così, dovresti dargli retta”.
I quattro svoltarono a destra, in un lungo corridoio fiancheggiato da
innumerevoli porte, molto probabilmente le cabine dell’equipaggio; Marco
procedeva a viso basso, rosso per la vergogna fino alle orecchie.
“C’è qualcosa di strano”, esordì Zaraki. “E’ per quello che ti ho detto di
tacere”.
L’altro si sentì un poco più leggero. “Ah, ok, credevo che…”.
“Non ti ho detto che puoi rimetterti a
parlare”.
“Oh”.
“E che cosa ci sarebbe che non va?”, domandò Elena,
a cui in effetti non era stato posto alcun divieto.
Zaraki
scrollò le spalle. “Lo sapremo quando
l’avremo trovato”.
“E poi?”
“Che domanda idiota! Lo ammazziamo, è ovvio”.
“Ah”.
Il silenzio calò di nuovo sui quattro, mentre percorrevano il
corridoio deserto. Camminavano lentamente, fermandosi ad ogni coppia di porte e
tendendo le orecchie per cogliere qualsiasi rumore potesse
provenire da dentro le stanze. Alcune paratie, poi, erano spalancate,
permettendo di dare un’occhiata
all’interno il tempo sufficiente per rendersi conto che in quegli anonimi
alloggi tutti identici non c’era proprio niente.
Ok, siamo
arrivati ad un’altra svolta,
pensò con un brivido Marco quando si fu
lasciato alle spalle le ultime due porte. Ora
gireremo l’angolo e ci ritroveremo davanti un’intera parata di Zerg. Oppure due gemelline
sporche di sangue che si tengono per mano e ci chiedono di giocare con loro per
sempre. Oppure…
Marco girò l’angolo.
Nulla.
Solo un altro corridoio, più breve di quello che si erano
appena lasciati dietro, ma identico ad esso in ogni
altro particolare. Completamente vuoto, com'era ovvio.
Però così
è anche peggio, si disse il
ragazzo, mentre l’oppressione nel suo stomaco invece di evaporare si
faceva sempre più densa e stopposa. Se ci fosse stato davvero qualcosa –
qualsiasi cosa – almeno sapremmo che questa nave è pericolosa e
potremmo trovare un modo per risolvere il problema. Ma come facciamo
ad affrontare il nulla? Non è
qualcosa contro cui le zanpakuto
possano fare qualcosa. Né le frecce di Elena,
peraltro, né… In un gesto istintivo Marco portò una
mano alla cintura, dove alloggiavano la sua bacchetta magica e due pugnali.
Sfiorare l’impugnatura delle armi fu come accarezzare il ventre molliccio
del serpente, e per qualche istante un pallido spettro di Bielorussia
aleggiò dietro lo schermo delle sue palpebre chiuse. Ci saranno sangue e
dolore, lo ammonì l’apparizione. E non soltanto tuoi.
Oh, per favore, si disse lui, riaprendo gli occhi e scuotendo la
testa per scacciare ogni traccia dell’inquietante ragazza. Sono già abbastanza terrorizzato di
mio, ci manca solo che quella tizia e la mia mente si coalizzino
contro di me…
Qualcuno gli sfiorò la spalla, facendolo sobbalzare.
“Marco, tutto a posto?”, gli domandò Elena.
“S-sì… Mi sono solo
lasciato suggestionare un po’…”, rispose lui abbozzando un
debole sorriso. Alzò gli occhi e notò che Zaraki
– contrariamente al suo comportamento di poco prima – si stava
dirigendo con sicurezza verso una porta.
Yachiru
si voltò verso di loro e bisbigliò: “Qui dentro!”.
Zaraki
fissava la paratia come un enorme felino che attende
il momento propizio per assalire la prossima vittima, il lungo naso affilato
teso e vibrante e le narici dilatate. “Qui dentro”, ripeté
in un sussurro roco.
Marco annusò l’aria un paio di volte, ma non riconobbe
nessun odore particolare. Tranquillo,
significa solo che sei una persona normale, lo rassicurò
il suo cervello.
In effetti, però, anche lui riusciva a percepire qualcosa di
sospetto: per la precisione le sue orecchie avevano
iniziato a captare un monotono, basso ronzio provenire da oltre la porta,
mescolato a qualcos’altro… un gorgoglio, forse?
“Tu”, gli si rivolse Zaraki,
senza nemmeno voltarsi. “Aprila”.
“Eh-oh?”, rispose Marco, colto
alla sprovvista. “E perché io?”.
Lo shinigami digrignò i denti.
“Perché ho promesso a quella donna che mi
sarei trattenuto, ecco perché”.
Wow, vederlo sottomesso in questa
maniera non è davvero qualcosa che capiti tutti i giorni, pensò Marco divertito
mentre estraeva la bacchetta dalla cintura. La puntò verso la
porta – il tremito delle sue mani tradiva un certo nervosismo – ed
era sul punto di lanciare l’incantesimo quando
qualcosa gli riverberò nella mente in maniera confusa e perturbata; non
riuscì a capire con chiarezza cosa fosse, ma gli diede l’idea di
un messaggio di SOS lanciato da una voce familiare ma quasi del tutto sommerso
da scariche statiche. Oh, al diavolo, pensò.
Devo davvero piantarla di farmi
suggestionare dal mio stesso cervello. Agitò la bacchetta in un
ampio gesto – e per la tensione rischiò di tirare una gomitata nel
fianco a Elena – e disse “Alohomora!”.
La sezione di parete scivolò pigramente sui binari, rivelando
una spettrale e soffusa luce ambrata; Zaraki
balzò nella stanza con la zanpakuto sguainata,
ma evidentemente non trovò ciò che si aspettava – leggasi:
qualcuno da ridurre a listelle – perché
si affacciò con aria delusa un paio di secondi dopo. “Potete
entrare”, borbottò. “Ci sono solo tre tizi dentro degli
affari che paiono usciti dal laboratorio di Kurotsuchi…”.
Elena e Marco mossero un passo nella stanza, perplessi: si trattava di
un locale più grande rispetto a quelli del
precedente corridoio, dalle pareti tappezzate di macchinari (la maggior parte
dei quali spenti), e un fastidioso e insistente gocciolio proveniente da un
angolo.
Ma
furono i cilindri – o quantomeno il loro contenuto – a congelare
sul posto i due ragazzi; erano tre, alti circa tre metri e larghi la
metà, riempiti con un liquido arancione chiaro che sembrava Fanta annacquata. In ognuno di essi
galleggiava una persona, raccolta in posizione fetale e all’apparenza
priva di coscienza: un giovane dai corti capelli grigi con le spalle coperte da
scaglie color antracite, una fanciulla dalla lunga chioma nera, tranne per
un’unica ciocca bianca, che le galleggiava intorno come una medusa di
catrame, e un uomo alto e muscoloso dal volto gentile la cui corporatura poteva
rivaleggiare con quella di Zaraki.
Erano anche completamente nudi, ma non fu questo a sconvolgere i due.
“Guarda, Ken-chan, gli si vede
tutto!”, squittì Yachiru puntando un
indice verso i tre; poi sembrò accorgersi che Marco e
Elena erano rimasti pietrificati sulla soglia. “Ehi, voi? Che vi prende? Non state bene?”.
Marco, gli occhi fissi sui cilindri, sembrò finalmente trovare
la forza di aprire la bocca. “Ele, li vedi… li vedi anche tu, vero?”.
“Uh-uh”, rispose lei, il volto
impassibile ma gli occhi spalancati.
“Insomma, si può sapere che cazzo
vi prende?”, borbottò Zaraki,
guardandoli con aria accigliata.
“Noi sappiamo chi sono queste tre persone”, spiegò
Marco con un filo di voce.
“E lo sappiamo
perché…”, continuò Elena. “Perché
siamo stati noi a crearli”.
L’esplorazione del gruppo di prua era stata decisamente
più movimentata. I tre infatti – o
quattro, volendo contare anche il Pikmin adottato da
Riccardo – incontrarono la prima traccia della presenza Zerg a soli dieci minuti dallo sbarco.
“Oh, Dio”. Pietro era sbiancato e sembrava sul punto di
dover rimettere anche la colazione di un paio di giorni prima. “Quella
è…”.
Davanti al gruppetto si stendeva per oltre tre metri quello che
sembrava essere il risultato di uno scontro frontale fra un carico di trippa e
uno di vernice verde: pezzi di carne, grumi rappresi di sangue e altri fluidi
erano sparsi sul pavimento, sulle pareti e perfino sul soffitto, da cui
gocciolavano con piccoli tonfi vischiosi.
“Sono le spoglie di una crisalide Zerg,
già”, fece eco Yoichi, estraendo con
calma la sua arma dalla faretra; non sembrava spaventata e neppure
particolarmente tesa, ma il suo viso aveva perso qualche tono di colore.
“Qualunque cosa ne sia uscita l’ha fatto da pochi minuti, a
giudicare da tutto questo schifo”.
Come se non aspettassero altro che quelle parole, i miserevoli resti
di mutazione aliena iniziarono a raggrinzirsi e
evaporare. “Ecco, guardate: fra poco della crisalide non resterà
alcuna traccia”.
“Per fortuna”, aggiunse Pietro. “Non credo che sarei riuscito a passare lì in…”.
Accadde in un attimo. Tutto ciò che lo preannunciò fu un
lieve ticchettio, praticamente inudibile…
Poi l’idralisca balzò da dietro
l’angolo in un tumulto di artigli e zanne e atterrò davanti a
Pietro e a Yoichi, il muso inumano distorto in un
ghigno famelico.
“Aa… aa…”.
Pietro era completamente paralizzato. Adesso
mi uccide, adessomiuccideadessomiuccideadessomiuccide.
I suoi pensieri erano un fiume, ma la corrente era troppo forte per poterlo
controllare. Gli sembrava che le interiora fossero diventate di
plastica, fredde e inerti. Con la coda dell’occhio vide Yoichi afferrare una freccia dalla sua faretra e
incoccarla, ma gli sembrava che la donna si muovesse come dentro ad una bolla
d’acqua, troppo lenta per poterli salvare.
L’idralisca sollevò
una delle sue braccia, una mortale lama ossea, pronta a colpire… poi la
sua testa rotolò sul pavimento, troncata di netto.
“Meno male che non mi ha notato!”, esclamò Riccardo
rinfoderando la spada mentre il corpo
dell’alieno, dopo un ultimo spasmo, si accasciava a terra. Dalla spalla
del ragazzo il Pikmin blu fissava la scena con tanto
d’occhi. “Anche se pensavo che sarebbe stato più difficile
ucciderne una, nel videogioco ci volevano non so
quanti proiettili…”.
“Beh, per essere la tua prima idralisca
abbattuta te la sei cavata alla grande!”. Yoichi
abbassò l’arco, la freccia ancora incoccata: sembrava padrona
della situazione, e sicuramente sarebbe riuscita a scagliare in tempo il suo dardo… ma si vedeva che era sollevata. “Non pesnavo che Zaraki potesse
insegnare qualcosa a qualcuno… E’ evidente che mi sbagliavo”.
“Massì, non è stato
niente di che”, minimizzò Riccardo, che
però un po’ era arrossito. “Ho solo fatto quello che
di solito faccio quando mi alleno, e…
ehi!”. Pietro era appena balzato in avanti e lo aveva stretto in un
abbraccio. “Si può sapere che cazzo ti
prende tutto d’un tratto?”.
“Grazie, coso”, borbottò Pietro, la faccia contro
la spalla dell’amico. “Senza di te a quest’ora
sarei morto”.
“D’accordo, ma ora staccati!”, rispose Riccardo,
riuscendo alla fine nell’intento di scrollarselo di dosso. “E l’ho già detto, non è stata
chissà che impresa. La prossima volta che ne incontriamo uno,
perché non ci pensi tu a sistemarlo? Ormai con la tua magia te la
dovresti cavare bene, no?”.
L’occasione per Pietro di farsi valere, in effetti, si
presentò meno di trenta secondi dopo, quando il gruppetto ebbe girato
l’angolo e vide due zergling che come velociraptor violacei trotterellavano verso di loro,
attirati forse dal sangue del loro simile.
“Vai, ora!”, gridò Riccardo, riestraendo
l’arma per buona misura.
“Sì!”, esclamò Pietro, facendosi avanti e
descrivendo con la bacchetta un arco abbastanza grande
da comprendere entrambi gli alieni. “Petrificus Totalus!”.
“Facciamo una cosa”, disse Riccardo qualche secondo dopo,
ripulendosi la poltiglia verde dalla faccia con il dorso della mano. “La
prossima volta che ti dico: ‘Occupatene tu’, fai finta che io non abbia detto niente. E
soprattutto non puntarmi addosso quell’affare!”.
“Ma non è stata colpa
mia!”, protestò Pietro, completamente ricoperto di fluidi corporei
e frammenti di carne bruciata degli zergling.
“Io volevo bloccarli, non farli esplodere! Sono sicuro che è
‘sta dannata bacchetta la colpevole, avrà un difetto di
fabbricazione o che so io…”.
“Beh, quantomeno ci hai liberato di loro in maniera
efficace”. Yoichi era
riuscita a ripararsi dietro l’angolo, e i danni al suo vestiario erano
stati minimi. “Però davvero, Pietro, non
andartene in giro puntando quella cosa contro la gente”.
Il diretto interessato aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse e scosse la testa, reinfilandosi
la bacchetta in tasca. “Beh, almeno ora sappiamo che questa nave è
invasa da alieni antropofagi”, osservò alla fine in tono piatto.
“Qualcuno ha qualche idea su come dovremmo regolarci in merito?”.
“Prima di tutto entriamo qui dentro”, disse Yoichi, spingendo i due terrestri dentro una stanzetta e
facendosi scivolare la porta alle spalle. Si concesse un
leggero sospiro di sollievo, poi tornò rivolgersi ai membri del
suo gruppetto. “D’accordo, ammetto che per essere stata la vostra
prima uccisione ve la siete cavata bene. Tranne, beh, per quella piccola storia
dell’esplosione…”. Pietro abbassò di nuovo lo sguardo.
“Ma nel corso degli ultimi anni ho visto non
sapete quanta gente morire durante il loro primo scontro con gli Zerg”. La donna si lasciò sfuggire un sorriso malinconico. “In fondo,
c’è solo una cosa che dovete ricordarvi: voi siete uno, loro sono
migliaia; se anche ne uccidete uno, ne possono sempre arrivare altri; ma se
morite voi, è game over. Quindi insomma, se farete
attenzione e non vi lascerete prendere dall’euforia andrà tutto
bene”.
Qualche attimo di silenzio.
“Tutto qua?”, domandò Riccardo. Aveva ancora i
capelli incrostati dalla robaccia verde fuoriuscita dagli zergling.
“Nel senso, è finito il discorso?”.
Yoichi
sembrò sorpresa. “Ehm… Sì. Non sono granché
con le parole di incoraggiamento, vero?”.
Pietro le batté una mano sulla schiena. “Nah, te la sei cavata bene. E quantomeno non hai tirato in ballo certi clichè tipo la forza
dell’amicizia o che dobbiamo credere in noi stessi per ottenere quello
che vogliamo!”.
“Comunque direi che è il caso di
darci una mossa, no?”, intervenne Riccardo. “Più aspettiamo,
più c’è la possibilità che qualcun altro di quegli stronzi salti fuori”.
Una volta che furono all’esterno della stanza, però, i
tre non incontrarono nessuno Zerg per almeno un
quarto d’ora di cammino.
“Forse erano rimasti solo quei tre”, osservò Pietro
dopo l’ennesima svolta priva di eventi. “Voglio dire, può benissimo essere, no? In fondo non
sappiamo da quanto tempo questa nave è stata attaccata”.
Yoichi
annuì. “Sì, può essere. Anche
se sarebbe strano, visto che le larve possono rimanere in stasi per anni e una
volta che ne sono uscite ci mettono pochi minuti a svilupparsi”.
Il corridoio aveva raggiunto uno slargo, in fondo al quale si apriva
un doppio portello. “Ecco, lì dentro c’è di sicuro la
plancia di comando”, disse l’arciera. “Con un po’ di
fortuna fra cinque minuti avremo disattivato il campo di forze e saremo di
nuovo al sicuro sulla Crazy Diamond”.
“Peccato, speravo che ci sarebbe stato qualche combattimento in
più”, disse Riccardo, tamburellando con le dita sull’elsa
della spada. Il Pikmin sulla sua spalla, come
percependo la sua delusione, emise a sua volta un
acuto mugolio di disappunto.
“Se vuoi, la prossima volta ti porto
con me ad un raid su uno dei pianeti infestati”, propose Yoichi con una strizzatina
d’occhio. “Però ti avverto, non
sarà una passeggiata”.
Stavolta fu Riccardo ad abbassare gli occhi, anche se solo per un
attimo. “Mah, penso si possa anche fare…”.
Pietro fissò il momento di imbarazzo
dell’amico con un sogghigno, poi intervenne. “Forza, cosa stiamo
aspettando? Prima entriamo qui dentro, prima potremo…”.
Mentre parlava si era avvicinato al pannello e aveva premuto il pulsante per
l’apertura; le porte scivolarono sui binari con un lieve sibilo, che però fu sufficiente per far voltare tutti gli Zerg assiepati nella sala. Dovevano essere almeno un
centinaio: non soltanto zergling e idralische, ma anche dei contaminatori e perfino una
regina.
“Oh, merda”,
si lasciò sfuggire Pietro. Come se non si aspettassero altro, decine e decine di fauci si spalancarono in un gorgoglio
ultraterreno, prima che i loro proprietari si lanciassero all’attacco.
“Pietro, chiudi quella cazzo di porta!”,
gridò Riccardo. Yoichi, però, era
scattata in avanti ancora prima che il ragazzo finisse di parlare e aveva
premuto il pulsante; i primi zergling si schiantarono
contro il pannello, riuscendo a deformarlo.
Pietro si voltò verso gli altri due, il volto privato di
qualsiasi colore. “C-che facciamo?”,
domandò con un filo di voce.
“Corriamo!”, rispose l’arciera. Meno di venti
secondi dopo, i tre – lanciati alla massima velocità consentita
dalle loro gambe e dal terrore – sentirono il suono del portello che veniva sfondato e di un’enorme massa di corpi lanciata
alla carica. Yoichi estrasse da una delle tasche dello hakama un piccolo congegno
quadrato e lo premette, facendolo illuminare e borbottare in tono monotono.
“Ho aspettato fin’ora, ma direi che è il momento di chiedere rinforzi,
eh?”, mormorò ansante, facendo del suo meglio per sorridere ai
suoi sottoposti.
Marco, ti prego. Pietro non sapeva quale fosse
la portata della sua telepatia, ma non era certo nella situazione di rinunciare
solo per quello. Se riesci a sentirmi, pianta tutto quello che
stai facendo e raggiungimi subito con gli altri! Noi siamo in grave pericolo!
“In che senso, li avete creati voi?”, domandò Zaraki; sembrava che gli fosse difficile afferrare il
concetto.
“Ecco, vedi”, spiegò Elena, avvicinandosi ai
cilindri. “Lui si chiama Shin, la ragazza
è Miyu e l’omone è Senkou. E se mi chiedi come faccio
a saperlo, beh… li ho disegnati io”.
“Già, è stato quando
c’eravamo fissati di realizzare un manga tutto nostro”, intervenne
Marco. “Anche se non siamo mai passati ai fatti, visto che ognuno di noi
aveva idee diverse sulla trama e quindi non se n’è fatto
più niente… Ma, beh, a quanto pare
è stato sufficiente per renderli reali”. Il ragazzo tacque per
qualche secondo, gli occhi fissi sui tre individui in stasi. “Cazzo, non ci credo… Quindi quello che ci ha detto
Silente, tutta quella roba sulla realtà del consenso… Wow”.
Elena intanto si era avvicinata al macchinario a cui erano collegati i
tre cilindri. “Marco, dai un taglio al monologo e vieni a darmi una
mano”, disse, un’espressione concentrata sul volto.
“E tu che vuoi fare?”, si intromise
Zaraki.
“Farli uscire, ovvio”.
Lo shinigami emise un ringhio di disappunto.
Elena, nell’udire quel suono, si accigliò, per poi
voltarsi e fronteggiare Zaraki. La ragazza era quasi di mezzo metro più bassa dell’altro, ma in quel
momento – quantomeno a Marco, che fissava la scena a bocca spalancata
– non sembrava in alcun modo meno intimidatoria. “Senti un
po’, se hai qualcosa da dire fallo e basta, ok?
Ma che ti sia chiara una cosa: anche se dovessero volermici
giorni per tirarli fuori da lì, io senza di
loro non me ne vado. Chiaro? E sono sicuro che Marco
la pensa allo stesso modo”.
Il diretto interessato annuì debolmente, ancora a bocca aperta.
Non che avrei mai avuto il coraggio di
dirglielo, comunque.
Zaraki
aprì la bocca per ribattere, ma Yachiru fu
più rapida. “E’ vero, Ken-chan. Anche noi faremmo lo stesso”, disse, in tono serio.
L’uomo sembrò riflettere su quelle
parole, poi annuì. “Hai ragione”, rispose. “Non
si lasciano indietro i propri commilitoni”.
“Allora, visto che sono stata brava, voglio un premio!”,
esclamò la bambina, annuendo convinta.
Zaraki
sospirò. “E va bene… volevo dartelo dopo la missione, ma
già che ci siamo…”, e da una delle pieghe dello
haori estrasse un enorme lecca-lecca azzurro
che Yachiru iniziò a ciucciare con gusto.
“Ok, credo di avere capito come
funziona”, fece Marco. “Premendo questo pulsante dovemmo poter
svuotare le capsule dal liquido”.
“Wow, come l’hai capito?”, domandò Elena in
tono ammirato, avvicinandosi a guardare. “Ah, vabbé,
bella forza, ci sono i disegnini”.
“Ehi, mica ho detto che è stato
difficile”. Il dito di Marco indugiò sul bottone. “Che faccio, lo premo?”.
“Vai. E speriamo che vada bene”.
Marco si aspettava un processo lento e graduale, ma dopo che ebbe
schiacciato il pulsante il liquido arancione venne
assorbito dal basso in meno di cinque secondi, lasciandosi alle spalle solo un
rumore di risucchio, come un vecchietto senza dentiera che sorbisca del brodo.
Un attimo dopo, Senkou spalancò
i grandi occhi dorati. “Ehm…”, mormorò, il corpo
rattrappito dentro il cilindro e la voce attutita dal vetro. “Posso
chiedervi di spiegarmi come sono finito qua dentro?”.
Prima che qualcuno potesse rispondere, il
cilindro di sinistra andò in mille pezzi e Shin
ne balzò fuori, guardandosi intorno con aria irritata. “Spero che
non siate stati voi a chiudermi lì”, borbottò, fissando
Marco e Elena con sguardo torvo.
La ragazza distolse gli occhi e li puntò verso il soffitto, la
pelle del suo viso rossa quasi quanto i suoi capelli.
“C-copriti con qualcosa!”, esclamò
con voce spezzata.
Shin
abbassò lo sguardo sul proprio corpo. “Oh”, fece, in tono di
noncurante sorpresa.
“Ehi!”. Miyu, invece, sembrava
ben conscia di ciò che stava mettendo in mostra, ma questo non le
impediva di urlare a pieni polmoni. “Qualcuno mi faccia uscire!”.
“Dio, quanto sei rumorosa!”, la
rimbeccò Shin. “E
non ho capito perché non esci da sola, sei abbastanza forte da spaccarne
mille, di quei cosi”. Si voltò verso Senkou.
“Pure tu, si può sapere che stai aspettando?”.
“Volevo evitare di romperlo…”, rispose l’altro
in tono umile.
“Già, mica siamo tutti dei barbari lunatici come te,
sai?”, gli fece eco Miyu.
“E comunque non preoccuparti, Shin, credo di avere trovato il pulsante per
l’apertura dei cilindri…”, aggiunse Marco. Un paio di secondi
dopo le due capsule rimaste scivolarono silenziose verso l’alto,
liberando Miyu e Senkou.
“Oh, meno male!”, fece la ragazza. “Non ne potevo più
di stare là den…”.
“Come sai il mio nome?”. La voce di Shin
risuonò tagliente come un pugnale nell’orecchio di Marco, e
zittì tutti i presenti. Il volto del ragazzo, di solito annoiato,
sfoggiava ora un’espressione minacciosa, gli occhi grigi stretti a
fessura. “Io non ti conosco di certo, ma è evidente che tu conosci
me”.
Stranamente, Marco si scoprì molto meno spaventato di quanto
avrebbe dovuto. Dev’essere perché lo conosco, appunto, e
so che non passerebbe alle vie di fatto per così poco, pensò, lucido. In
fondo l’ho creato io. “Certo che ti conosco”, rispose
perciò con la massima tranquillità. “Così come
conosco anche Senkou e Miyu”.
I due, impegnati nella ricerca frenetica – e fino a quel momento inutile
– di qualcosa per coprirsi, sobbalzarono nel sentirsi nominare. “E
il motivo percui vi conosco – anzi, vi
conosciamo”, e indirizzò uno sguardo a
Elena, che sorrise e salutò con un cenno del capo. “E’
che…”.
Con un tempismo da film di serie B, Zaraki
– rientrato in modalità predatore –
interruppe la spiegazione. “Glielo dirai dopo. Sembra che ora abbiamo
compagnia”.
Sul gruppo calò il silenzio, e tutti poterono sentirli; acuti
scricchiolii spezzati, proprio oltre la porta chiusa.
Haruhi
fissava il monitor con aria preoccupata. “Kyon,
novità?”.
Il comandante scrollò le spalle. “Non più di quante ne avevo prima. Purtroppo gli strumenti parlano
chiaro: la gravità della luna del pianeta intorno cui
stiamo orbitando sta attraendo la nave… e lo schianto avverrà fra
due ore e diciassette minuti, a meno che là dentro non riescano a
disattivare il campo di forze”.
Haruhi
si mordicchiò nervosamente l’unghia del pollice. “Merda, cosa possiamo fare? Ci hanno inviato un segnale di
soccorso, ma non possiamo raggiungerli, visto che abbiamo
una sola navetta. E manco possiamo rispondere
loro!”. Gli occhi della ragazza si dilatarono. “Però
aspetta… Non possiamo agganciarci con
“Perché è
infattibile”, replicò pratico Kyon.
“La navetta si è potuta agganciare perché è
penetrata completamente nel campo di forze, ma noi siamo troppo grandi per riuscirci. Se i nostri scudi
reggessero rimbalzeremmo via dopo qualche secondo; in caso contrario…
credo che finiremmo tagliati in due”.
“Oh”, rispose lei. Le parole del sottoposto sembravano averla scossa parecchio. “Cazzo, perché siamo stati così idioti da non
accorgerci subito che la nave era in traitettoria di
collisione?”, mormorò in tono frustrato, continuando a martoriarsi
il pollice.
“Non è colpa tua”, rispose Kyon.
“Cioè, in teoria sì, visto che sei
il capitano, ma nemmeno gli strumenti di bordo avevano captato il pericolo fino
a poco fa”.
“Bah, è inutile cercare scuse. La colpa è mia
anche in pratica, visto che sono stata io a ordinare
loro di andare su quella dannatissima nave”. Qualcuno bussò alla
porta della plancia. “Avanti!”, gridò il capitano in tono
stizzito.
Hayate,
con aria un po’ intimidita, fece il suo ingesso
nella sala. “Ehm… Suzumiya-san, ho
sentito che ha un problema…”. Il ragazzo lanciò
un’occhiata a Kyon, poi continuò,
in tono un po’ più basso. “In realtà l’ha
sentito tutta la nave”. E in effetti dietro il
maggiordomo si era assiepato l’intero equipaggio, compreso anche qualche Pikmin, forse preoccupati per l’assenza di uno dei
loro.
Haruhi
lanciò un’occhiata di fuoco al comandante, il quale non
reagì per qualche secondo e poi finse sorpresa. Malissimo. “Oh,
che sbadato. Devo essermi appoggiato per
errore al pulsante dell’interfono”.
“Comunque”, continuò Hayate, per evitare che il capitano andasse a strangolare
il diretto sottoposto. “Forse ho una soluzione per riuscire a salvare
tutti quanti e a recuperare la nave prima che si schianti”.
Haruhi
fissò il ragazzo con aria molto poco convinta;
poi, un paio di secondi dopo, l’incredulità lasciò il posto
alla comprensione. “Aspetta, mi stai dicendo che
vorresti chiamare…”.
Il maggiordomo si lasciò sfuggire un
piccolo sorriso. “L’ho già fatto, in effetti. Saranno qui
fra venti minuti al massimo”. L’espressione sul suo volto si fece
un po’ più rilassata. “Ovviamente applicheremo le solite
tariffe”.
Haruhi
ricambiò il sorriso, le braccia incrociate sul petto.
“Ovviamente!”, rispose. “D’altronde, farei qualsiasi
cosa, pur di salvare i miei sottoposti!”.
MIYU: Chi sono
i misteriosi individui convocati da Hayate?
Riusciranno i nostri eroi a sopravvivere nell’astronave piena di Zerg? E Miyu,
Senkou e Shin troveranno
dei vestiti? Lo scoprirete nel prossimo capitolo!
SHIN: Si può sapere che
è tutta questa verve? Ti ricordo che stiamo rischiando la vita.
MIYU: Questo non vuol dire che nessuno debba occuparsi delle anticipazioni!
SENKOU: Il quindicesimo capitolo di
“Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle”, si intitola “La luna è severa maestra, parte
prima”. Buona lettura!
MIYU: No, volevo farlo io!
SHIN: Tu l’hai già fatto
la volta scorsa, giusto? E allora accontentati.
Mmh… Rieccomi qua! Alla fine un mese e mezzo è passato
davvero, chiedo scusa!XD
Comunque,
finalmente con i prossimi capitoli anche Marco e gli altri faranno qualcosa in
battaglia! Beh, soprattutto gli altri; Marco, poveretto… Insomma,
vedrete!
Ne approfitto
intanto per fare gli auguri di Natale ai miei lettori anche se un po’ in
ritardo, nonché gli auguri di Capodanno, questi ultimi con qualche
giorno d’anticipo!
E ora, le risposte
alle recensioni!
Per Morens: Zaraki
lo si vedrà un po’ in azione nei prossimi
capitoli, infatti! Cioè, si vedrà qualcosina, ma più si proseguirà con la
storia più anche lui avrà cose da fare (che nel suo caso equivale
a: nemici da ridurre in poltiglia)!
Per Anonimo: I pugnali che fendono alla realtà purtroppo sono
merce rara… Quantomeno, alla Lidl non si
trovano!
Non so alla Conad.
Il motore a gatto imburrato sarebbe un’idea, in effetti! Però è qualcosa di un po’
più… prosaico, diciamo. Spero di non deluderti.XD
E con
questo anche per stavolta ho finito! Vi aspetto nel prossimo capitolo!
Davide