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Autore: Exelle    30/12/2010    4 recensioni
La vita di Severus Piton è monotona e solitaria.
Quella di Luna Lovegood, incomprensibilmente folle.
E se venissero raccontate nella stessa storia?
_Finalmente il capitolo sedici_
Genere: Commedia, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Lily Evans, Luna Lovegood, Severus Piton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Più contesti
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Capitolo Undici
Tra Sogno e baratto, Invito e Misfatto!


“Vorrei che fosse domenica” mugugnò Ron, cominciando a disegnare un bel paio di baffi a una delle streghe ritratte sul libro che stava tentando di leggere. Le streghe, tutte con in testa dei vistosi elmi vichinghi, cominciarono a insultarlo atone, indignate. Una di loro, si espresse con un gesto ben poco medievale, servendosi dell‘ingioiellato dito medio. Harry, vedendola, rise mentre Ron, offeso, chiudeva il libro facendolo sparire nella borsa.
“Perché domenica?” chiese Harry, tornando svogliatamente alla sua copia  di Storia Magica e affini, Vol. 5.
“Perché...”
“Perché così potrebbe dire Oh, ragazzi perché non è venerdì?
“Grazie Hermione. Continua a parlare per me, almeno sapranno che sono un anfebeta oltre che un portiere scarsone.”
“Analfabeta, Ron” disse la ragazza, senza alzare gli occhi dal paragrafo che stava divorando.
“Grozie, Arrghmione.”
“Andateci piano, per favore” disse Harry sbadigliando e mettendo a sua volta il libro in borsa. Era stufo di studiare, stufo di vichinghe in rivolta, parole, date e concetti.
Opinione non condivisa da Hermione.
“Harry, se finiamo il capitolo adesso, non avremo problemi con Ruf lunedì, avanti!”
Ron e Harry si guardarono, sbalorditi da tanta intraprendenza. “Ma abbiamo il week end per rimediare!”
Hermione sbuffò, preparandosi a riversare sui suoi amici un’altra delle sue prediche sulla coscienza e il buon senso. Lo sguardo dei due amici però, la invogliò a cambiare strategia.
“Come non detto. Ma non lamentatevi che poi passate i giorni liberi a mettervi in pari.”
“Hai detto qualcosa?” le chiese Ron con espressione distratta. Lui e Harry si erano alzati, cominciando a raccogliere borse e piume.
“Dove state andando?” disse Hermione sorpresa “Non...”
Ron le battè l‘astuccio di pelle sulla spalla, come se fosse stato una clava. “Ora di cena. Cibo, Ron fame. Ron vuole pollo.”
Harry scosse la testa, ma riuscì a cogliere l’attimo di distrazione di Hermione per chiuderle il libro e farglielo sparire di mano, nascondendolo sotto al divano.
“Harry!”
Il ragazzo alzò le mani, in un gesto di resa con un sorriso. “Ora di cena!”
Hermione storse la bocca, leggermente contrita, ma raccolse la sua borsa senza altre proteste. Harry le ridiede il libro, un po’ impolverato.
“Harry, però, ora che ci penso...”
Harry si voltò verso Ron, incuriosito.
“Potresti chiedere a Dobby di farci spedire il cibo qui” osservò il rosso allargando le braccia per indicare l’ampiezza, il calore e le soffici poltrone della Sala Comune.
Hermione gli scoccò un’occhiata disgustata.. “E tu saresti il difensore dei diritti della libertà?”
“Non ho mai detto di esserlo!”
“Lo sei diventato quando ti sei unito al C.R.E.P.A., Ron.”
Hermione storse il naso. “Sei comunque il tesoriere della società da più di un anno! Quasi due!”
“Buono a sapersi” replicò il ragazzo alzando le spalle, “Comunque...”
“Mangiare assieme a scuola è uno degli altri espedienti per aumentare il senso comunitario” replicò Hermione in tono amabile, ancor prima che Ron finisse di parlare. Sembrava una cespugliosa parodia di Silente.
“Oh, sì. Mi sento molto comunitario quando Goyle sventra il fagiano con il cucchiaio e Malfoy risucchia il brodo come uno scarico!”
Hermione lo guardò scioccata, poi suo malgrado, rise. “Ma non è vero!”
Ron rimase serissimo. “Questo perché in realtà non hai senso comunitario, Hermione. Se tu ce lo avessi lo sapresti, quindi non fare le prediche a noi, perché per una volta vogliamo che ci servano del cibo in Sala Comune.”
Harry scosse la testa, ridendo, mentre Hermione combatteva tra il mettere su un cipiglio offeso o ridere a sua volta.
Nessuno di loro parlò finchè il ritratto della Signora Grassa si richiuse dietro di loro. Avevano appena iniziato ad avviarsi per il corridoio quando Harry domandò.
“E comunque, chi sarebbe tanto matto da pretendere di farsi spedire la cena in camera, a Hogwarts?”


Severus Piton avrebbe potuto anche non svegliarsi più fino al mattino dopo, addormentato com’era sulla poltrona dal rigido schienale davanti alla finestra. Ma, naturalmente, sarebbe stato quasi un sacrilegio per un uomo attivo come lui.
Quando riaprì le sottili palpebre violacee e vide che il cielo biancastro era ormai tinto di viola e indaco, con qualche rara stella a punteggiare il cielo, avvertì un senso di vertigine. Si era giocato il suo giorno libero dormendo in una poltrona modello inquisizione, scribacchiando sciocchezze sui suoi ricordi, prima di cedere al sonno. Scostò le pergamene che lo circondavano, cercando un qualche riferimento temporale per la stanza.
Era già sera, maledizione. Guardò la pendola alla parete -un altro simpatico gioiellino d’arredamento in stile medievale-, sospirando. Le sette in punto, ora di cena.
Non aveva voglia di scendere in Sala Grande. Il mondo, quel giorno, gli stava più antipatico del solito. Non gli restava che chiedere qualcosa giù in cucina. Dopotutto, se lo meritava. Quel mattino si era sacrificato e aveva fatto la colazione in Sala Grande.
Si avvicinò con la schiena dolente alla scrivania, rischiando di incespicare sugli scalini del piccolo rialzo di pietra. Era incredibile come diventava goffo e impacciato, quando non doveva atterrire gli studenti o stare con qualcuno che non fosse lui.
Si domandava che fine avrebbe fatto la sua reputazione, se gli altri si fossero accorti di quanto il solenne e misterioso Severus Piton fosse incapace nella vita di tutti i giorni, nel fare le cose più banali. Anche nell’attraversare una stanza senza inciampare.
Quando non doveva giocare al mago oscuro, sulla linea tra bene e male, quando non doveva fare incantesimi, insegnare, preparare pozioni o uscirsene con qualche commento acido, andava tutto storto. In quel frangente oltretutto, era un guaio maggiore, con la testa sgombra da pensieri soffocanti e angosciosi.
Il senso di spossatezza aveva distrutto il suo aplomb gotico.
Raggiunse la scrivania e si chinò verso la fila dei cassetti in cerca di altra pergamena. Ne trovò un pezzo abbastanza grande e cominciò a scrivere con la piuma il suo nome. Quando dovette scegliere cosa mangiare però rimase perplesso. Solitamente le rare volte in cui si faceva portare la cena o il pranzo in ufficio -la colazione era un‘altra drammatica storia-, gli bastava scrivere il nome di ciò che aveva mangiato o ricordava di aver mangiato, il giorno precedente.
Severus Piton non dava importanza al cibo. La sua vita era talmente piatta e amara che non riusciva a distinguere i sapori, quindi perché affannarsi a pensare a cosa mangiare?
A lui andava bene tutto, purché fosse commestibile.
“Io opterei per delle patatine fritte. Anzi, facciamo Fish’n’Chips. Un po’ di colesterolo in pancia mette allegria.”
Severus alzò lo sguardo dal biglietto in cui aveva scritto il suo nome in caratteri neri e rattrappiti. Albus Silente, se ne stava sorridente davanti a lui, mentre fiamme verdi brillavano nel camino di pietra alle sue spalle. Il mago pareva altissimo, per via del nero cappotto che fasciava la sua figura. Contrariamente al suo solito, teneva gli occhiali a mezzaluna agganciati al taschino.
“Non mangio quella robaccia” borbottò Piton, stritolando la piuma che teneva tra le dita.
“Severus, se fosse per te, ti limiteresti a nutrirti con le radici di rapa nel tuo armadio dello scorte.”
Piton sentì il sangue affiorargli al volto, le labbra irrigidirsi. Tuttavia non disse nulla. Si limitò a scarabocchiare rape sul biglietto, anche se non aveva voglia di rape.
“Severus, stasera avrai un ospite a cena. Vuoi davvero condividere delle rape? Capisco che la tua possa sembrare l’attraente vita ritirata di un eremita, ma...”
“Un ospite?” chiese piano Piton incrociando le braccia e sollevando le sopracciglia, aaccigliato.
“Fammi indovinare Albus. Hai intenzione di spedirmi qui Luna Lovegood.”
Silente scoppiò in una gioiosa risata alla Santa Claus. “Mio caro Severus, non ti si può nascondere proprio nulla!”
Severus strinse le labbra, irritato per il sarcasmo che il suo principale sembrava usare solo con lui. Non poteva risparmiarselo per i suoi studenti?
“Non la voglio qui, né da nessun’altra parte nel raggio di quaranta metri dalla mia persona” replicò Piton, serio fino alla morte. Odiava essere messo nella condizione di fare noiose ramanzine al suo principale per cose così futili. Anche perchè sarebbe dovuto essere Silente l'ultracentenario a consigliare lui, non il contrario.
“Sinceramente parlando Silente, non credi di essere un po’ azzardato? Il Profeta ti da’ del matto e tu lo assecondi elaborando giochetti a spese degli altri? Tu stesso hai tracciato dei confini, quando sono stato assunto. Ci sono gli insegnanti e ci sono gli alunni. Questa è Hogwarts. Una scuola.”
Silente scosse la testa. “Severus...”
Piton appoggiò lentamente i pugni sul tavolo, le nocche sbiancate, il cipiglio deciso. “Anche tu ti stai attenendo a questa regola. Forse credi che mi sia sfuggito, ma ho notato che, a quanto pare, il signor Potter non è più tra le tue priorità...”
Lo sguardo di Silente si indurì e Severus comprese di aver parlato un po’ troppo, errore imperdonabile. Doveva piantarla di essere così, così... emotivo.
“Non voglio discutere di Harry Potter con te, Severus. E per quanto la mia idea di affidarti Luna Lovegood ti pesi, confesso che forse non mi sono spiegato bene.”
Silente tornò a un espressione bonaria, gli occhi cerulei di nuovo gentili.
“Luna Lovegood deve parlare con qualcuno che non la tratti da matta.”
“Oh, certo. Io sono perfetto in questo caso” sbottò Piton. Silente lo ignorò.
“Severus. Non te lo ripeterò un’altra volta. Cerca di comprendere.”
“Comprendere cosa esattamente, Albus? Che da spia sono diventato un potenziale...”
Silente si accarezzò la lunga barba. “Ti prego. Non metterla in questi termini. Confesso di averti presentato la faccenda Lovegood, come un ridicolo espediente per creare una situazione che possa essere accattivante per un pubblico di lettori di Fan fiction, con quei lunedì e quei pomeriggi a cadenza precisa... Che oltretutto non hai ancora rispettato, ma...”
Piton sostituì la sua espressione incattivita con una interrogativa.
“Fan Fic...?”
Silente era ormai perso a contemplare i suoi pensieri, iniziando a vagheggiare con parole che a  Piton apparivano minacciose e oscure.
“Finirò tacciato di clichè nei blog e nei forum...” Silente si accorse dello sguardo smarrito dell'uomo e si riscosse, riprendendo a parlargli.
“Reminescenze Babbane, Severus, non angustiarti. E per una volta di più, abbi fiducia in me. Ora ti saluto, la cena sta cominciando e ho il sospetto che Filius mi ruberà i canditi se ritardo anche solo di un attimo. Buon appetito.”
Severus battè il piede per terra, scese gli scalini con il mantello nero ondeggiante e seguì Silente vicino al camino. Il vecchio mago era già tra le fiamme verdi, quando Piton chiese:
“A che ora arriverà Luna Lovegood?”
“Decidi tu, professor Piton. Sarai tu stesso a invitarla!” gorgheggiò il Preside con un sorrisetto soddisfatto.
Silente sparì in un lampo verde, prima che Severus potesse dire alcunchè. Il pozionista tornò alla scrivania, tamburellando i polpastrelli ingialliti gli uni contro gli altri. Quando abbassò lo sguardo sulla superficie di legno opaco, vide che il biglietto con le sue ordinazioni -Rape- era sparito.
Severus sbuffò, un tantino affranto. Aveva davvero pensato di scamparla?
Sciocco, sciocco Piton. Sì allontanò dalla scrivania, dirigendosi a larghe falcate verso il camino. Silente voleva che lui offrisse una cena a Luna Lovegood? Perfetto, l’avrebbe fatto con la stessa professionalità con cui svolgeva i compiti dell’Ordine.
Così, il vecchio Preside non si sarebbe lamentato e lui si sarebbe tolto un peso. Afferrò dalla ciotola sbeccata sulla mensola di marmo, una manciata di polvere scintillante che sparse sulle ceneri grigie. Fiamme smeraldo guizzarono rapide e si aprirono per far posto a Piton e al suo mantello. Dove andare a recuperare Luna Lovegood?
“Sala Grande” borbottò doppiamente affranto.


“Non lo mangi?”
“No, prendilo tu.”
“Ron!”
“Eddai, R’Mione, ha detto che o’n mangia, que è l’prob’ema?”
“Il fatto che tu sia un ingordo, Ron..”
Ginny spinse il piatto verso il fratello, sorridendo a Hermione. “Tranquilla, va bene così. Non ho molta fame stasera.”
Ron agguantò felice il piatto di Ginny, cominciando a manggiare le patate al burro con largo entusiasmo, lanciando occhiate soddisfatte a Hermione. La ragazza, indispettita, preferì dedicarsi ad altro. Si girò verso Harry, che sedeva alla sua destra e, in tono cospiratore, sussurrò: “Ti sei ricordato del giro di galeoni?”
“Per l’E.S.?” rispose Harry, preso di soprassalto mentre addentava il suo roast-beef.
“Shh!” lo riprese Hermione. “Non...”
“Tranquilli, la stregaccia non c’è” disse Harry, indicando con un cenno del capo, la tavola degli insegnanti. “Avrà avuto qualcosa di più divertente da fare.”
"Sbaciucchiare gatti e foto di Caramell?" suggerì Ron.
“Punire Luna” affermò Ginny in tono lugubre.
“Cosa?” chiese Harry, interessato. Ginny arrossì “Ecco, io..”
La ragazza raccontò velocemente il diverbio del giorno prima, durante Pozioni. Accennò vagamente a quello che aveva detto Piton, spiegò di Luna e del fatto che la Umbridge l’avesse punita, con tono dispiaciuto.
“...E io non ho detto niente, ma avrei dovuto, accidenti. Solo che in quel momento ce l’avevo con Luna, perché..”
“Perché, se fosse stata zitta, non sarebbe successo niente” concluse Hermione in tono pratico.
Ron le lanciò un occhiata perplessa: “Dai, Hermione. Sappiamo che Luna è così. Poteva capitare a chiunque, comunque...”
Hermione corrugò la fronte: “Sarà, ma Luna avrebbe dovuto accorgersi che con la Umbridge vicino...”
Harry però, era di tutt’altro parere e interessato a un altro particolare della storia.
“E il rospo? Come ci è finito nel tuo calderone?”
I ragazzi lo guardarono incuriositi. Ginny scosse la testa.
“Io questo non lo so. Cioè... Credevo... L’ho preso io stessa dalle mani di Bower. E poi era nel calderone...”
Ron domandò, cominciando a versarsi della maionese nel piatto. “Luna aveva il suo rospo?”
“Sì, credo...”
“Secondo me Luna l’ha sezionato per farti un favore, ma si è dimenticata di dirtelo. Tutto qui” tagliò corto Hermione, “Stiamo facendo di un problema sciocco una questione importante. Ginny, posso darti una mano io se Piton ti ha dato un compito in più...”
Ron e Harry guardarono indignati l’amica: “Perché lei sì e noi no?”
“Perché, a quanto pare, anche Santa Granger vi ritiene due indubbie zucche vuote” affermò una voce gelida alle loro spalle.
“Tipica presunzione da Sotutto, vero Granger?”
Il viso di Hermione diventò color fragola come le orecchie di Ron. Harry fece per alzarsi in piedi ma Ginny gli afferrò il braccio.
Piton lo guardò, gli occhi neri traboccanti di derisione. “Calmo, Potter. Non sono qui per punire te, a meno che tu non mi dia l’occasione.”
“E allora che ci è venuto a fare? A spiarci mentre mangiamo? A togliermi punti perché tengo male la forchetta?” rispose Harry, con un tono di voce più alto. Non si curò degli altri Grifondoro che avevano smesso di mangiare e iniziavano a seguire la scena, interessati dal quel diversivo serale.
“Per quanto la prospettiva di punire il tuo galateo sia intrigante Potter, non sono qui per te” disse, mellifluo, “Weasley.”
Ron alzò lo sguardo dal piatto giallo di maionese, le orecchie come semafori: “Che ho fatto?”
Piton inarcò un sopracciglio infastidito, la pelle malaticcia alla luce della foresta di candele. “Non tu, Weasley. L’altra Weasley.”
Ginny lasciò il braccio di Harry, posando i suoi occhi fermi su Piton.
“Volevo informarti che sei esentata dal consegnare il tema di punizione. A quanto pare, questa volta, la tua pozione era Accettabile.”
Ginny annuì una volta sola, lentamente. Non ringraziò. Harry lanciò uno sguardo perplesso a Piton. La situazione era abbastanza strana da sembrare opera di una visione stile Voldemort. Ron e Hermione, guardarono a loro volta Piton, incuriositi.
“Ha finito?” domandò Harry sgarbatamente.
“Sì, Potter” replicò Piton. “Felice pasto a tutti voi” disse l‘insegnante, con l’aria di chi spera tutt’altro, allontanandosi nel corridoio tra i tavoli.
“Piton ti ha esentato da un compito?” mormorò Ron a mezzabocca.
“Piton ci spia mentre mangiamo?” domandò Hermione.
“Piton mi ha dato Accettabile?” esclamò sorpresa Ginny.
Harry si aggiustò gli occhiali sul naso, soppesando un involtino di panna e prosciutto e di fronte alle facce allibite dei tre amici, mormorò in un tono molto pratico e non da lui:
“A quanto pare...”


Maledizione!  
Era l’unica parola che agitava i pensieri di Piton mentre si affrettava a tornare alla Sala d’Ingresso, per tornare al caminetto del circuito metropolvere di Hogwarts. Quanto era stato tonto?
Si era dimenticato che quella sera la Lovegood era in punizione con la Umbridge, grazie anche e soprattutto, al fatto di non averle affibbiato un bel compito per aver messo in cattiva luce la Weasley. Se l’avesse punita prima lui, ora non si sarebbe dovuto affannare a cercarla in giro.
E Silente non ti avrebbe detto di invitarla a cena, suggerì la sua voce interiore.
Severus Piton si bloccò al centro dell’ingresso, dritto come un fuso. Vecchio furbastro!
Quello doveva essere un altro espediente dei suoi, escogitato proprio per andare a salvare quella bionda disgraziata con gli occhi a pallone. E lui, Bam!
C’era cascato. Di nuovo.
Severus lanciò un occhiata al grande caminetto a lato dell‘ingresso. Sarebbe stato sgarbato infilarsi nel camino di una collega senza essere richiesto.
Anche se era quello di quella befana ministeriale.
Piton sbuffò, incattivito. Si voltò verso lo scalone e cominciò a salire, allontanandosi dal brusio della Sala Grande, verso i piani più bui del castello.
Passando vicino alle finestre gli sfuggì un’ occhiata verso l’orologio. Quasi le otto.
Quanto duravano le punizioni degli altri insegnanti?
Severus aveva sempre saputo di detenere il record per quelle più lunghe e fantasiose, ma quella Umbridge aveva un cipiglio perfido da formidabile avversario...
Cosa poteva aver escogitato contro Luna Lovegood? Personalmente, come aveva già potuto appurare, non ci provava alcun gusto nel punire i soggetti come Luna.
Era troppo... Severus non lo sapeva. Ma quella ragazzina era priva della caparbietà, della vanità o dell’incapacità, doti che spettavano solo a quelli della risma di Potter o del pavido Paciock. Il suo sistema punitivo funzionava in modo molto sottile. Non si basava solo sulle preferenze, come appariva ai più, visto il suo continuo privilegiare la casa di Serpeverde e non tanto sulle antipatie. Difatti, Potter era  un eccezione e l’unico motivo per cui Piton si accaniva contro i suoi amici, era semplicemente perché, probabilmente e in quel frangente, se lo meritavano.
Severus Piton odiava i difetti esasperati che caratterizzavano le persone. O almeno, quelli che lui credeva di vedere in loro. Non tollerava l’arroganza intellettuale della Granger, le manfrine di Lavanda Brown e della ragazzine in generale. Anche la dabbenaggine di Weasley e Paciock, il continuo prendersi gioco di tutto dei gemelli -sempre Weasley erano, dopotutto-, tanto per fare degli esempi, erano motivo sufficienti per togliere punti. Esistevano soggetti simili anche a Corvonero e Tassorosso e Severus Piton, il fiero paladino anti-vizi era pronto ad affibbiare loro la giusta punizione.
E Luna Lovegood non ne era esente, ma i suoi difetti nuocevano più a lei che a chi le stava intorno.
Anche se a volte quel parlare a sproposito.. Suggerì la solita voce interiore.
Piton scosse la testa. Il difetto di Luna Lovegood era quello di essere una stramba, emarginata in base alle regole stabilite da gente che, per molti aspetti, era più anormale di lei. Ed era per quello che Severus preferiva ignorarla, piuttosto che confrontarsi. Perché nonostante fosse cresciuto, fosse ferito nell’animo e si fosse costruito una bella corazza di inquetudini e sarcasmo, fondamentalmente, era sempre un emarginato.
Si afferrò il braccio sinistro, là dove il teschio e la serpe marchiavano la pelle. Si nascose tra le ombre di una delle alcove del corridoio. Anche quando aveva cercato di fare parte di un gruppo, aveva solo partecipato a massacri d’innocenti, vissuto nel terrore e fatto uccidere la sua amata. L’unica cosa buona che era riuscito a fare, era stata quella di diventare un pochino più furbo e ad imparare di farsi i fatti suoi.
Per il resto, la sua vita era un cumulo di cenere.
Un fallimento su tutta la linea.
Severus si appoggiò al muro, guardando fuori dai vetri e dai complessi disegni a filo di piombo che li ornavano. In quel momento desiderava morire. Sarebbe stato così semplice.
Fine dei problemi, fine dei tormenti. La sua anima si sarebbe fatta una bella passeggiata all’inferno e, forse, sarebbe riuscita a scaldarsi un po’ tra quelle fiamme roventi.
“Pensi davvero che staresti meglio laggiù piuttosto che qui, Sev?”
Severus alzò gli occhi neri dal pavimento di pietra. Le torce che fino a poco prima l’avevano illuminato si erano spente e l’odore dell’olio che le imbeveva, aleggiava tra le ombre bluastre. Fissò il punto da cui aveva udito provenire la voce e non ne fu affatto sorpreso quando ne emerse una figura familiare.
Lily Evans avanzò verso di lui. Era talmente reale che sulle lastre di pietra si udiva  il rumore dei suoi passi regolari. Si avvicinò e si sedette al lato opposto dell’alcova di pietra, di fronte a Severus, dove solo la luce azzurrina che entrava dalle finestre li illuminava. Mentre lo faceva, si aggiustò la gonna a pieghe sulle ginocchia.
“Stai per dirmi di andare via, Sev?” mormorò con un sorriso dolce.
Piton cercò di guardare oltre la figura di lei, parlando piano. “Sai che non lo farò.”
Lily ridacchiò. “Sì, lo sospettavo. Ma c’è una prima volta per tutto. Forse prima o poi lo farai.”
“Forse” ribattè Severus, la voce fioca. Si sentiva debole, infinitamente. Come se d’un tratto fosse finito in un posto molto caldo o molto freddo, perdendo la sensibilità degli arti, mentre il suo cuore batteva a mille miglia lontano da lui, sotto una campana di vetro.
Lily fece un’espressione scontenta. “Non ti piace più chiaccherare con me, Sev?”
Piton scosse la testa, si sentiva confus  e lucido allo stesso tempo, e le banalità irritanti di quella Lily non lo aiutavano.
“Smettila di fare giochetti da spirito con me, Lily. Non volevi essere più disturbata da me. Non più.”
Lily appoggiò il capo alla parete, pensierosa. “Ho detto tante cose, Sev.”
Questa volta Piton la fissò, sempre mantenendosi guardingo. “Davvero? Come quelle all’orologio?”
Lily inclinò il capo, trafiggendolo con i gelidi smeraldi che aveva per occhi. Non c’erano stelle nel gelido cielo di novembre, eppure a Severus parve di vederne a migliaia, riflesse in quella iridi.
Vuoi sentirti dire che sono reale, Severus Piton?”
Severus non rispose. Girava tutto attorno a quella domanda, dopotutto. Era il fuoco attorno a cui si consumavano le sue speranze. Rispondere sarebbe stato un sacrilegio, perchè avrebbe potuto distruggerle. E lui non era pronto. Lui non lo voleva.
 Lily lo guardò, ancora più bella, ancora più beffarda. Nessun dubbio su chi fosse la più forte, lì, in quel momento. Su chi detenesse il potere e il controllo.
“Hai portato la mia anima nella notte, Severus” cominciò, come cantando. “Possano le stelle guidarmi...”
Severus si sporse verso di lei, staccandosi dalla dura pietra del muro a cui si appoggiava. Si tese verso di lei, la voce ridotta a un filo, a una flebile supplica.
“Che cosa vuoi dire, Lily? Io posso...”
Lei scosse la testa, i lunghi capelli come nastri di raso, la camicia linda e brillante nella luce acquamarina.
“No, Sev. No. Non puoi avere il ruolo del salvatore e del carnefice, non contemporaneamente.”
Prima che potesse rendersene conto lui stesso, Severus afferrò le spalle di Lily e la tirò verso di sé. In quel momento non si preoccupò di essere vecchio, brutto e probabilmente, pazzo. In quel momento si sentiva bene, come se per un istante tutto il male, il dolore, l’odio e l’ossessione fossero implosi, lasciando solo un vuoto dove riusciva ad esistere, senza colpe e senza rimorsi.
Erano quindici anni che non abbracciava qualcuno.
Il viso di lei contro la sua spalla, Lily immobile tra le sue braccia ossute. Profumava di gigli, un profumo che la vera Lily non aveva mai avuto.
Severus non ci badò. Pregò solo che quell’istante fosse vero e per un istante, il suo cervello lo accontentò, smettendo di fare congetture, concedendogli di cadere in quel dolce oblio, rosso e gelido. Lontano eppure familiare. Il suo abisso.
Se ne avesse avuto il coraggio, forse, sarebbe riuscito anche a piangere. Lì, abbracciato a Lily...Ma  una Lily che non solo era morta, ma anche falsa, dati i quindici anni che dimostrava. Una Lily che apparteneva più al regno dei morti che a quello dei vivi.
E, dato che i morti non  piangono perché si sono ormai rassegnati, i vivi devono regolarsi di conseguenza.
La ragazza si liberò dalla stretta, allontanando le braccia ossute lentamente, ma con fermezza.
“Invecchiare ti ha reso sentimentale, Sev?”
Piton si guardò le mani, contemplandone ogni segno, cicatrice, tendini e ossa. Aveva fatto qualcosa che per lui, abituato alle cose definitive e inalterabili del mondo, sarebbe stato impossibile da fare, per quanto desiderata.
“Non sono vecchio” sussurrò stupidamente, ben conscio del suo viso segnato, della pelle malaticcia, dello sguardo cupo. Delle conche viola nelle orbite, dei capelli flosci.
Non aveva nemmeno quarant’anni ed era un relitto umano.
“Vero. Sei marcio. Marcio e inutile.” mormorò Lily con voce sincera e gentile. Era davvero convinta che nelle sue parole ci fosse del buono.
I suoi occhi smeraldo divennero più scuri, si liquefarono nelle pupille lucenti.
“Che cosa sei?” domandò Piton, fingendo di non averla sentita, avvicinando una mano al viso di Lily. Si sentiva disperato e tentato. E infinitamente sciocco.
“Un mostro, Severus” gli occhi di lei divennero del tutto bui. Le orbite sembrarono vuote, come quelle delle Lily alla lezione di Pozioni. Come quelle di un teschio.
Severus non batté ciglio e non ritrasse la mano. “E ti ho creato io, immagino.”
“Che acume!” ridacchiò Lily, scuotendo il capo, ora sinceramente divertita.
Severus tornò ad appoggiarsi alla nuda pietra dietro di lui. L’oscurità della notte si era fatta più tenue, rischiarata dall’alone giallastro della luna. Era una scena strana, quella che i suoi raggi illuminavano.
Una scena che molti anni prima sarebbe stata alquanto familiare a vedersi, era diventata pericolosa e onirica, costruita sul sottile confine tra realtà e follia.
“L’ultima volta.. Mi hai detto che eri un ricordo, un ricordo tra gli altri...” mormorò Piton debolmente. Non sapeva come riprendere il discorso. Eppure, le parole confuse che Lily, la Lily dell’orologio,- e la stessa di adesso non v'era dubbio-, gli aveva detto, continuavano a punzecchiargli l’anima con spilli velenosi. Sevrus Piton si rese conto di ricordarle a malapena. Erano state tanto terribili che le aveva rimosse del tutto, e ora, ora non sapeva se pentirsi o ritenersi fortunato.
Lily si tese verso di lui e alcune ciocche scarlatte le scivolarono lungo il viso, nascondendo parte del viso, del collo bianchissimo e della camicia leggera che indossava. Severus vide che il taglietto che aveva sulla guancia era ancora lì, benché meno evidente.
“Ti interessa davvero quello che ho detto l’altra volta, Sev?” sussurrò Lily sbattendo le ciglia, continuando a sorridere come se fosse la persona più entusiasta, libera e felice del mondo. “Ti interessa davvero?”
No, non voglio sapere, non lo voglio più sentire, disse il cervello di Severus, ma Severus rimase zitto.
Lily allargò il suo sorriso. Troppo. Lo tese talmente tanto che il suo viso sembrò contorcersi in una beffarda espressione da marionetta e mentre questo accadeva, gli occhi verdi riemersero dalle ombre tornando a scintillare. Poi lei allungò un braccio verso di lui, come un artiglio. Rapida e con una stretta salda, troppo salda, gli afferrò il braccio, proprio dove il marchio nero riposava, nascosto dalla stoffa nera della manica.
Severus si ritrovò il viso di Lily talmente vicino che riusciva solo a contemplarne gli smeraldi che lo animavano e d’un tratto, ricordò ogni parola, ogni sillaba, ogni espressione di disprezzo. La voce di lei s'infilò urlando nella sua testa.
Hai preferito immolare la mia famiglia all’altare della tua stupidità e del tuo egoismo.
Io sono un ricordo Severus Piton, un ricordo bloccato nel tempo e nella tua sudicia memoria.

Gli occhi di Lily si strinsero a fessure, ma Severus li vide brillare divertiti, mentre lo costringeva a ricordare e sentire, una per una, quelle parole amare che lei gli aveva detto alla torre dell’orologio.
 Avrei davvero preferito un luogo più confortevole … l’altare dorato su cui mi hai posto nei tuoi pensieri è così orribile!
Severus si rese conto di essere incapace di reagire, mentre la sua mente confusa sentiva riemergere le parole dell‘allucinazione. Quando aveva ripensato alle parole della conversazione all‘orologio, in quei giorni, si era limitato ad etichettarle come ‘orribili e non da Lily’ ma ora, lei gliele stava facendo risuonare nella testa, perché non voleva, lei non voleva affatto che lui le dimenticasse o le classificasse. Non voleva che lui riuscisse a ignorarle.
Come temevo, mi hai fatto uccidere, ma sei solo un piccolo inetto, incapace di fare le cose da solo. Sei una delusione, Sev...
Voleva ucciderlo davvero probabilmente, ma Severus non cercò di liberarsi dalla sua stretta. Non cercò di combattere. Rimase immobile a fissare gli occhi di lei, mentre la  voce argentina riecheggiava nella sua testa, sentendosi vigliacco, indebolendosi, schiacciato dall‘ossessione che da anni covava segreta e gelosa nella sua anima nera.
 ...Voglio che tu mi lasci in pace Severus Piton. Non volevo essere disturbata da te in vita, né tantomeno da morta.
Ci fu un’ultima stretta, che dal braccio gli percorse il resto del corpo. Poi Lily ritirò la mano, il sorriso scomparso e il volto serio.
Severus si afflosciò contro la parete, respirando piano, abbattuto.
“Quello che gli amici si dicono, non va dimenticato” disse piano Lily, guardando il cielo bluastro fuori dai vetri piombati. Poi si girò di nuovo verso di lui, sorridendo appena.
“Fortunatamente per te, ci sono io, Sev a ricordartelo.”
“Che immancabile fortuna” gemette Piton debolmente. Lui per primo si stupì per il tono fioco della sua voce.
Era mai possibile che... Lei, la sua presenza... lo indebolisse?
Lily lo squadrò, squadrandolo: “Siamo diventati sbruffoni, Sev? Sarcastici?”
Lily si avvicinò di nuovo e quasi accennò ad abbracciarlo. La luce della finestra, screziava di viola i fili carminio dei suoi capelli rendendo la sua figura mistica e irreale. Lily parlò in un sibilo, talmente lieve che la persino la polvere che cadeva l’avrebbe coperto. Ma Severus Piton, spalle al muro, circondato da quella figura di ragazza lo udì distintamente.
“Adesso mi chiamerai Mezzosangue, Sev?”
Severus si sentì gelare, ricordando quel giorno sulla riva. Era un giorno caldo e fatto di pace, o almeno lo aveva creduto all’inizio.. Era stato il giorno in cui tutto era cambiato.
“O mi ruberai qualcos’altro?”
“Non lo farei, non lo farei mai.. Mai più... Niente...” sibilò Piton a fatica. Sembrava che qualcosa gli fasciasse il petto, come costretto fra bende di ferro che gli rendevano difficile parlare, respirare. E c’era quel profumo di gigli e i capelli di lei che gli sfioravano lo zigomo ossuto...
“Vorrei crederti... Lo vorrei tanto...” rispose lei, dolcemente in un sussurro.
“Perché?...” iniziò a dire Severus, prima di rendersi conto che la sua bocca non emetteva più alcun suono. Sentì il viso di Lily contrarsi accanto al suo. Stava sorridendo.
“Perché lo faccio, Severus Piton?”
Lily si scostò un momento da lui e afferrò di nuovo il braccio sinistro di Severus. Nonostante la manica fosse stretta, riuscì a mettere a nudo l’intero avambraccio e il  Marchio Nero. Sembrava essere appena stato impresso sulla pelle, tanto era nero e lucido.
Lily lo rimirò a occhi socchiusi e Severus seguì lo sguardo di lei, percorrerne ogni forma, studiandolo nell‘anima.
“Perché tu hai barattato la mia vita per la tua, Severus Piton. E, adesso...”
Lily gli fece scivolare le braccia attorno al collo di Piton, guardandolo come se fosse stato la miglior cosa che le fosse capitata fino a quel momento. Almeno in apparenza.
“… Io ricambierò il favore e correggerò le cose.”
Severus non si accorse di avere il respiro mozzo, né di come brividi di piacere e tormento gli squassassero il corpo ossuto. E, soprattutto, non si accorse di quanto fosse grottesca la situazione. Disdicevole, a voler essere cauti.
Severus sentì le palpebre appesantirsi, il corpo di Lily accanto al suo, consistente, vivo. Il suono del suo cuore. Era ancora seduto sulla pietra gelida, bloccato, ma l’unica cosa che sentiva era il peso di lei, le braccia attorno alle sue spalle e per Merlino Farlocco, quanto era stanco...
Severus chiuse gli occhi. Non c’era niente che non andava. Poteva stare benissimo lì, in un corridoio deserto. Nascosto in una nicchia di pietra, abbracciato ad uno spettro di carne e sangue. Stare lì a riposare, a dimenticare ogni cosa, ogni dovere.
Dimenticarsi di vivere, combattere, mangiare...
Mangiare..
Severus ricordò e infine arrivò la voce, quella voce che non era di Malfoy, né quella della sua coscienza, né quella della sua perfidia. Quella voce che sembrava tanto quella del suo Principale, tanto era divertita e ottimista.
Io opterei per delle patatine fritte. Anzi, facciamo Fish’n’Chips. Un po’ di colesterolo in pancia mette allegria.
E corri a prendere Luna Lovegood, tontolone di un Severus.



What's Up!
Come sempre grazie a voi, lettori e commentatori del Dono!
Spero di avervi divertito e affascinato in questo penultimo giorno del 2010!
Ci rivediamo nel prossimo anno (72 ore circa, forse un po' di più perchè avrò un dopo sbornia alla Mundungus) con un nuovo capitolo.
Salutissimi Vivissimi.
Exelle


  
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