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Autore: emmawh    04/01/2011    4 recensioni
Premetto che io AMO Johnny Depp. Questa è una rivisitazione della sua vita in dieci episodi-chiave visti con l'occhio pazzo dell'autrice e, dato che Johnny di autostima non ne possiede certo molta, ognuno di questi gli darà un motivo di odio per lui e di amore per noi. Se volete saperne di più su Johnny, anche sotto una versione romanzata, questa fan fiction è per voi.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: OOC | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Johnny
Sono un drogato
E in più mi faccio seghe mentali che nessuno si sognerebbe da lucido

    «A che punto sei con quei microfoni del cazzo, Phil?» domandò Sal, una birra in una mano e le bacchette della batteria nell’altra.
    «Guarda che qua c’è un casino coi fili, qualcuno ci ha ficcato il naso l’ultima volta?» replicò il tecnico, una smorfia di disappunto dipinta sul volto.
    Sogghignai. Stavo strimpellando la mia fidata chitarra spaparanzato su una delle poltroncine e osservavo i preparativi per il nostro concerto di quella sera.
    In realtà non riuscivo ancora a credere di aver davvero pubblicato un album con quei tre coglioni –Sal, Bill, Gibby, tralasciando me– e di stare per suonare nel locale che io possedevo per metà e che Sal amministrava. Ero sempre felice che quel bastardo mi stesse tra i piedi.
    «Cazzo, e muoviti! La serata inizia tra due fottutissime ore!».
    Va be’, magari non sempre.
    «E dai, Sal, fa quel che può! Tu, piuttosto, controlla la tua dannatissima batteria, che tanto si sai che fai cilecca di nuovo» gli gridai sorridendo, poggiando la chitarra da un lato.
    «Parla Keith Richards, qui» borbottò lui di rimando. «Secondo me faremo tutti una figura di merda, per come siamo conciati».
    «Per come sei conciato» osservai avvicinandomi a lui. «La puzza di alcool arriva fino all’ingresso» continuai, storcendo il naso.
   «Ah-ah, fai morire dalle risate» commentò ghignando. «Ma quello che dovrebbe arrivare sobrio fino a stasera sei tu. E, intendiamoci, con sobrio intendo pulito».

    «Una sniffata ogni tanto non può farmi così male» lo liquidai con una scrollata di spalle.
    «Ma sentilo, il divo di Hollywood! Con tutte le ragazzine che c’hai dietro, non ti serve mica la coca per sfogarti» rise, dandomi una pacca sulla spalla. Sapevo che scherzava perché aveva rinunciato a farmi smettere e non potevo biasimarlo.
    «Magari una volta, ma ora faccio ruoli importanti» dissi modificando la voce, in modo da assumere un tono ridondante e pomposo. «Sono stato nominato a un Golden Globe, che diamine. Non sono più quello che mostra il culo in televisione. Adesso faccio vedere gli attributi al cinema».
    Sal scoppiò a ridere, e io gli sorrisi. Ma, senza volerlo, avevo più ragione di quel che credessi. Mi allontanai e uscii a fumarmi una sigaretta.
    Il Sunset Boulevard brillava alla luce degli ultimi raggi rossicci e obliqui del sole al tramonto. I negozi di West Hollywood iniziavano a chiudere e l’aria era pervasa dal chiacchiericcio generale da fine acquisti. La saracinesca di qualche vetrina era già abbassata, nascondendo gioielli e vestiti alla notte.
    Mentre la cenere arroventata cadeva dolcemente ai miei piedi, cominciai a riflettere su quanto la mia vita fosse cambiata. Tim era stato di sicuro un toccasana, ma ritenevo di essere stato bravo: mi ero scelto dei film decenti da girare, li avevo girati bene, mi ero divertito. Mi piaceva cambiare e diventare qualcun altro, personaggi emarginati o strani, come in fondo ero io.
    Stavo vivendo meglio, e lo riconoscevo. Stavo iniziando a sentirmi bene.
    A contribuire a tutto questo, non potevo lasciare fuori i P –la band assurda dal nome assurdo che avevamo messo in piedi– e Winona, che era sempre al mio fianco.
    Ma non potevo negare di avere ancora dei problemi. Quelli che la gente chiama problemi, tipo fumare, bere… anche drogarsi, perché no.
    Ero sempre stato curioso: perché la gente crede che queste cose facciano male? Le avevo provate sulla mia pelle ed ero arrivato all’idea che l’alcool cambia in peggio le persone –per questo non avrei mai esagerato più di tanto–, che il fumo annerisce i polmoni –ma non avrei mai deciso di smettere– e che la droga…
    “La droga è un modo per avvelenarmi”, pensai, lasciando scivolare a terra la cicca e spegnendola distrattamente con la punta delle scarpe. “Smetterò mai di punirmi? Punirmi per cosa?”
    La mia famiglia era contenta per quello che stavo facendo, non troppo per quello che mi stava succedendo. Ma non avrei potuto smettere. Combattevo soltanto per non ritrovarmi con una scimmia sulla schiena.
    E con questo pensiero andavo avanti. O restavo fermo.
    Mentre gli ultimi raggi del sole si spegnevano sui marciapiedi, rientrai nel Viper Room.

    Ormai era quasi tutto pronto, c’era già un po’ di gente in fila e tutti noi avevamo una gran voglia di festeggiare alla grande l’arrivo di Halloween. Sal era leggermente più sobrio e dava grandi manate affettuose al tecnico che aveva insultato poco prima, con sua grande paura.
    «Ehi, Jo, con cosa vuoi cominciare?» mi domandò Gibby, regolando l’asta del microfono.
    «Dite voi, io sono a corto d’idee» gli sorrisi, appoggiandomi al palco a braccia conserte.
    «Mi sa che non sei abbastanza lucido per aprire la serata in modo decente, come si addice a un grande attore» mi fece il verso Sal, prendendo posto alla batteria.
    «Senti chi parla» lo apostrofai sogghignando.
    «Io sinceramente non saprei. Che ne dite di “Oklahoma”?» domandò Bill, accarezzando il suo basso.
    «Io pensavo a “Michael Stipe”» disse Gibby, grattandosi una guancia.
    «Perché sono citato io, vero?» chiese una voce beffarda alle nostre spalle.
    Mi girai e mi ritrovai davanti il viso sorridente di River Phoenix, con accanto Michael Balzary, conosciuto al mondo come Flea.    «Non ti vogliamo tanto bene da farti questo onore» gli risposi di rimando, e lo abbracciai con un sorriso.
    «Ehi, amico, come va? Era da un po’ che non ci vedevamo!» lo salutò Gibby dal palco.
    «Solite cose, lavoro, donne, un paio di piste» rispose con noncuranza Flea, agitando una mano.
    «Carino da parte tua, Michael… Me ne ricorderò quando farò il discorso al tuo funerale».
    «Se ci arriverai» rise Flea, avvicinandosi a lui. «Se continui a portare queste addosso» aggiunse tirando fuori dalla tasca della sua giacca una bustina di coca «non credo che tu abbia molte probabilità di riuscita».
    «Sempre di più delle tue» rise Sal, facendogli un cenno con la testa.
    «Che maleducati, non abbiamo neanche salutato» commentò River, alzando la mano e sventolandola. «Sarò felice di vedere la vostra performance, mi siete mancati, ragazzi».
    «E Samantha dov’è?» domandai a River, incuriosito dalla sua assenza.
    «Arriverà più tardi con i miei fratelli» rispose lui, riprendendosi la coca da Michael con un pizzicotto stizzito sul dorso della sua mano. Flea ridacchiò. «Rain e Joaquin hanno maturato un insospettabile affetto per quella ragazza».
    «Tutti sono concordi sulla sua simpatia» commentai sorridendo.
    «Più che altro è una gran bella…» tentò di dire Sal sghignazzando, ma Flea lo interruppe.
    «Non cominciare o River ti sbatterà un pugno su quel brutto muso che ti ritrovi» ghignò.
    Era bello ritrovarci insieme, in quello che era il mio locale –almeno in parte– a scherzare in quel modo, ma anche piuttosto strano. Ancora una volta confermai l’idea che mi stavo facendo della mia vita: per quanto andasse bene, non mi sarei mai sentito adeguato. Ero davvero un attore? Non ero neanche riuscito a fare il chitarrista, nonostante ci avessi provato; allora come avrei potuto essere un attore, se era l’ultimo dei miei pensieri? Era divertente, ma era quello che avrei voluto fare fino alla fine dei miei giorni?
    Quel senso di frustrazione riguardo a tutto ciò che vivevo mi portava a rifugiarmi nei posti sbagliati, forse con le persone sbagliate. Ma, per quanto ci pensassi, non riuscivo a trovare niente di sbagliato nello stare con gente che ha problemi simili ai tuoi, e che per questo non ti giudica per quello che fai.
    Flea era il più grande bassista che avessi mai conosciuto, ma anche uno dei più grandi drogati che avessi mai conosciuto. Questo cambiava qualcosa riguardo al suo talento? No, mi ripetevo. Ma riguardo alla sua persona?
    Avevo semplicemente paura di rispondere. Perché in fondo, quando ti circondi di gente con problemi simili ai tuoi, se ritieni che i loro siano problemi allora devi ammettere che lo sono anche i tuoi, ed era l’ultima cosa che volevo.
    «Che dici, Jo, ci facciamo una pista in compagnia?» mi domandò River sorridendo.
    «Non so, poco prima di suonare…» tentai, un po’ riluttante, strappato dai miei pensieri che, guarda caso, andavano proprio in quella direzione.
    «Andiamo, una sola sniffata! Giusto per divertirci un po’» rincarò Flea.
    Lo guardai, rimuginando tra me e me. «Va bene» capitolai alla fine.
    «Jo, non fare cazzate» mi ammonì Sal, mentre mi allontanavo con loro.
    Lo speravo anch’io.

    Si era riunita un po’ di gente in sala ed erano arrivati anche Samantha, Rain e Joaquin. Flea aveva retto abbastanza bene, ma River stava iniziando a preoccuparmi: era pallido e barcollava.
    «Accompagnalo dai suoi» mi disse Sal in tono di comando, ma suonò più come una preghiera.
    Annuii, sorreggendolo fino al loro divanetto. Vi si accasciò con pesantezza, sbuffando. «Ragazzi, ma qui fa caldo o sono io?» si lamentò, allentandosi il colletto della camicia.
    «Rivie, ti senti bene?» domandò Samantha, preoccupata, accarezzandogli il viso.
    «Non proprio, ho un po’ di nausea» commentò, massaggiandosi lo stomaco con una smorfia.
    «Aspetta, ti vado a prendere un po’ d’acqua» si offrì Joaquin, alzandosi. «Il bar è aperto?»
    «Di’ che ti ho mandato io, Jimmy non farà storie» gli risposi, guardandolo andare. Mi sentivo terribilmente in colpa per quello che avevamo fatto, ma ormai l’avevamo fatto, e non potevo più fermarmi.
    «Jo, quando dovrebbe iniziare la serata?» mi chiese River borbottando.
    «Circa… tre minuti fa» sorrisi a fatica, dando un’occhiata all’orologio.
    «Vai, su! Io sono in buona compagnia» mi esortò, facendo cenno di spicciarmi con la mano. Poi aggiunse, vedendo che non mi muovevo, «E dai! Mi incazzo come una bestia se non mi suonate “Michael Stipe”, giuro».
    Ero ancora dubbioso, ma decisi di accontentarlo. «Va bene» acconsentii malvolentieri, e mi alzai, dirigendomi verso il palco. I clienti, notandomi, si rallegrarono e iniziarono a battere le mani.
    Feci cenno a Gibby di spostarsi e lui mi cedette il posto davanti l’asta del microfono. Sorrisi alla sala, sfoderando le mie doti nascoste –molto nascoste– di attore. «Benvenuti al Viper Room, signori e signore. Apriamo degnamente la serata con un po’ di pessima musica» risatine generali «e quindi con la band che vanta della mia presenza come chitarrista, i P!». Applausi.
    Avevo i crampi allo stomaco per la preoccupazione. Con le luci in faccia intravedevo a malapena il tavolo dei Phoenix e non riuscivo a capire se River fosse ancora cosciente. Avevo voglia di farmi un altro po’ di coca per rilassarmi, e mi odiavo per questo. Decisi che avrei dovuto fare pace con me stesso prima o poi, e che prima avessi iniziato meglio sarebbe stato, e, che cazzo, avrei iniziato in quel preciso momento. «Voglio farvi una confessione. Ho aperto il Viper Room per una sola ragione: volevo frequentare un bar degno di questo nome. Un posto per della buona musica e dei buoni gruppi dal vivo. Un posto dove, se avessi voluto bere qualcosa con gli amici, non saremmo stati vittime di ridicoli beat martellanti messi su da uno stupido dj. O dove non ci fosse quel sentimento di rabbia che t’invade quando subisci il cattivo gusto degli altri. Un posto dove non ti senti insultato dall’accoglienza di musica noiosa e detestabile dalla quale non riesci a scappare, anche in bar che si dicono “adeguati”». Feci una pausa per respirare. «Cercavo un posto dove scappare».
    Quando ebbi concluso il mio personale sfogo, i crampi si allentarono e mi sentii molto meglio. Era solo parte di ciò che provavo, ma per allora poteva bastare. E di sicuro bastava ai presenti, che dopo qualche secondo accolsero il mio discorsetto con un altro applauso. «E ora, senza annoiarvi troppo a lungo, cominciamo con una canzone che dedichiamo al nostro amico River, che Dio ti benedica! A voi i P con “Michael Stipe”!».
    Presi la chitarra e cominciai a suonare, mentre le note lavavano via le mie preoccupazioni per un po’. Sal se la stava cavando alla batteria, nonostante l’elevato tasso alcolico nel suo sangue, e Gibby cantava alla grande come suo solito. Ma quando arrivarono quelle famigerate parole, i crampi tornarono più forti di prima.
    «“… ma non abbiamo mai avuto un ruolo, dei nostri cuori non un pezzo solo, non Michael, River Phoenix, o Flea, o me…”». Mi voltai al tavolo e River non c’era.
    Vidi improvvisamente la sua faccia pallida e malaticcia fissarmi dal nulla con uno sguardo accusatore e non ci vidi più. Mollai la chitarra e saltai giù dal palco, mentre le corde finivano a vibrare a vuoto producendo stridori elettronici.
    «Johnny! Dove cazzo stai andando?» urlò Sal, mentre correva dietro di me.
    Spalancai la porta e mi ritrovai in strada all’aria fredda di fine ottobre. Davanti a me, sul marciapiedi opposto, River Phoenix era riverso a terra mentre Rain lo scuoteva, Samantha piangeva silenziosa in ginocchio accanto a lui e Joaquin parlava al cellulare con aria disperata.
    Rimasi paralizzato. Il mio cervello registrò qualcosa quando Sal si fermò accanto a me ed emise un rantolo di orrore, imitato subito da Gibby che evidentemente ci aveva inseguiti. Ma compresi davvero cosa stava accadendo quando Rain cominciò a fargli una respirazione bocca a bocca.
    Mi accasciai contro il muro, osservando con occhi spalancati quello che ormai era River, ma non lo era più. Sapevo perché era morto stecchito a terra, eppure non volevo accettarlo. Quindi rimasi immobile lì, senza sapere che fare. Sentii il palmo caldo di Sal posarsi sulla mia spalla mentre la gente usciva a guardare.
    L’ambulanza se lo portò via poco dopo.

*



*

    Sulla porta nera del Viper Room era appeso un cartello da ormai due settimane: “Con grande rispetto e affetto a River e alla sua famiglia, il Viper Room è temporaneamente chiuso. Le nostre più sentite condoglianze a tutta la sua famiglia, ai suoi amici e a chi aveva di più caro. Ci mancherà”.
    Parole del cazzo per un incidente del cazzo che non sarebbe mai dovuto succedere. Era questo che pensavo, più o meno, mentre la cenere della mia sigaretta veniva trascinata via dalla lieve brezza che soffiava gentile su una spiaggia sperduta della Costa Ovest.
    Il sole lambiva l’orizzonte, colorando di rosso l’acqua che accarezzava la riva. Io e Sal eravamo seduti a piedi nudi a fumare, una bottiglia vuota e un’altra semipiena di birra abbandonate accanto a noi. Eravamo entrambi ancora scossi da quello che era successo. Lo saremmo stati chissà per quanto tempo ancora.
    Un gabbiano gridò stridulo in lontananza. L’auto di Sal era parcheggiata sulla strada poco più sopra di noi. Senza parlare, avevamo vagabondato fin lì e avevamo intenzione di restarci per tutta la notte. Ma non potevo continuare a tacere, sapevamo entrambi che avevo molto da dire.
    E quindi cominciai.
    «Voglio guarire, Sal» sospirai debolmente. «Guarire davvero». Non mi girai verso di lui, né lui verso di me. Sentii che stava prendendo la bottiglia. «Mi sono girato e ho guardato la mia vita. E non il mio lavoro, ma la mia vita, Sal. E, dovute eccezioni a parte, è solo un mucchio di stronzate, fatte con la compagnia sbagliata». Rimasi in silenzio per un attimo, poi mi voltai. Fissava il sole che calava lentamente nell’oceano. «Credi che potrò?».
    Non so quanto tempo passò dalla fine della domanda. Arrivai a pensare che si fosse persa nella brezza, come la cenere della sigaretta o lo stridore dei gabbiani. Poi però rispose. «Jo, tu puoi fare quello che vuoi» mi disse. «Ma veramente. Sei un tipo in gamba, sai, lo sei sempre stato. Per questo sei sempre stato più… vulnerabile, forse, perché questo è davvero un mondo di merda. Per me quello che devi fare non è guarire, ma è crescere. Ma davvero, per me dovresti farlo –devi farlo, se no va tutto a puttane, Jo–, ma lo farai solo se lo vuoi fare, perché ti conosco e nessuno ti può comandare. Ma davvero, Jo, fallo». Si girò a fissarmi negli occhi, un riflesso rosseggiante a conferire intensità al suo sguardo.  «Fallo per me».
    Non avevo bisogno di parlare per fargli capire che quella volta l’avrei fatto, fatto sul serio. Avrei smesso di… essere fatto. Ma l’avrei fatto, se mi si permette il gioco di parole.
    Non so quanto a lungo restammo lì, a passarci la bottiglia di birra, a goderci la brezza, a guardare il sole tuffarsi nell’acqua. Le stelle erano già alte quando ricominciammo a parlare.
    «Credi che se lo meritasse?» domandai, dando voce a un mio dubbio.
    «Diciamo che per me se l’è cercata. Non puoi farlo senza conoscere le conseguenze, e mi sa che lui e Flea e centomila altri non le conoscono e lo fanno lo stesso, chissà perché».
    «Già, chissà perché…» rimuginai. La bottiglia di birra era ormai vuota, gettata accanto all’altra. «Quindi la droga non compromette la persona. Non so se mi spiego».
    «Per me drogarsi è una stronzata come bere, ma chi sono io per giudicare, amico» sorrise. Sorrisi anch’io. «Le stronzate si fanno, non puoi evitarlo. Però puoi smettere di farle, se davvero vuoi. Non so se mi spiego» sorrise di nuovo.
    Lo guardai, poi mi lasciai scivolare disteso sulla sabbia fredda. Chiusi gli occhi e sbuffai. «Due settimane di merda» borbottai.
    «Molte di più» mi corresse Sal, raggiungendomi. Si sistemò le braccia dietro la testa a mo’ di cuscino. Ci fu un attimo di silenzio, poi un’esitazione. Infine mi disse «Jo… posso sapere quando? Quando… hai deciso? Perché? Per non morire anche tu? Non dico che sia un brutto motivo, ma davvero non è alla tua altezza e…».
    «In realtà ci pensavo da un po’, avevi ragione tu» confermai, aprendo gli occhi a guardare le stelle. «Ho pensato: “Ehi, amico, questa è la tua vita. La tua schifosissima vita. Se non per te, per chi ti vuole bene. Andiamo, forse un giorno sarai padre, nessuno vuole un padre drogato, no?”. E poi c’è stato River. E poi ci siete voi».
    «… Noi?» ripeté cauto Sal.
    «Voi. Tu, Winona… anche Tim. E poi c’è la mia famiglia, mia sorella, mia madre… Voi, cazzo, voi che mi volete bene». Sal rimase in silenzio. Io scoppiai a ridere. «Ok, dopo questa stangata melensa possiamo anche tornarcene a casa».
    «No, dai… sul serio, Jo, noi ti vogliamo bene. Ma non sarà facile, lo sai, vero? Sarà lunga, e dolorosa, e compagnia bella».
    «Lo so fin troppo bene. Però, dai» gli sorrisi «in qualche modo ce la farò».
    Sal mi sorrise di rimando. «Oh, questo è sicuro».
    «Tu piuttosto, quando smetterai di bere come un camionista assetato? Hanno scoperto un’alternativa all’alcool, mi pare si chiami… acqua, no?» ridacchiai, per buttarla sullo scherzo.
    «Fanculo».

    Lei era lì, splendida, e dormicchiava con una manina appoggiata sul seno della madre. Alzava e abbassava piano il petto minuscolo coperto da una tutina rosa al ritmo del suo lieve e quasi impercettibile respiro.
    Era una visione che mi metteva una tale pace. Trattenevo il fiato per riuscire a sentirla. Vanessa mi sorrideva. «È un amore, vero?» mi chiese, sussurrando per non svegliarla.
    «Oh, sì» sospirai. «È bellissima».
    «Sono gelosa» ridacchiò, posandole un bacino sulla punta del naso.
    «Tu sei sempre gelosa, non mi preoccupo più» sogghignai.
    «Ah-ah, spiritosissimo» commentò con una smorfia.
    Non riuscivo a spostare lo sguardo da quella piccolissima creatura che era mia figlia, mia figlia, diamine. Mia e di Vanessa, quella gran donna che mi faceva compagnia nelle notti di luna piena già da un bel po’.
    Quella gran donna che, in quel momento, mi scrutava con un cipiglio severo e un po’ preoccupato. «Johnny, noi dobbiamo parlare. Non crederai mica che ora io tollererò…».
    «Non devi neanche dirlo, avevo già deciso da me» la fermai con un sorriso. Sentivo che era ancora nervosa, quindi alzai lo sguardo e lo incatenai al suo. «L’avevo ridotta da molto, lo sai, lo sai bene. Ma adesso mai più. E riduco anche il bere, sul serio. Solo vino. Sarebbe un peccato non bere vino, vista la scorta che abbiamo» sorrisi.
    Vanessa mi fissava ancora dubbiosa. «Posso fidarmi, Jo? Ora sei un padre. Nessuno vuole un padre drogato».
    Il mio sorriso si allargò, ricordando una notte in spiaggia con delle bottiglie vuote di birra, un gran dolore nel cuore e un grande amico al fianco. Mi sentivo stranamente bene, come non mi sentivo da tempo. Come, forse, non mi ero mai sentito. Era come se avessi cominciato a vivere solo in quel momento. «Puoi fidarti. E puoi buttarmi fuori di casa se trovi una sola prova che ho sgarrato».
    Vanessa mi squadrò per bene, inclinando leggermente la testa da un lato. Poi mi sorrise anche lei, convinta. «Se dici così, allora mi fiderò» decretò. «È praticamente impossibile resisterti. Questo l’ha preso da te» aggiunse, accennando alla bimba. A nostra figlia.
    «Come la chiamiamo?» domandai, accarezzandole la testolina.
    «Nomi di fiori, mi sono sempre piaciuti».
    «Allora Sunflower», sorrisi, «girasole. Oppure Gladiolus o Sword-Lily, gladiolo».
    «Intendo nomi normali di fiori» mi riprese Vanessa, stizzita.
    «Tipo? Marguerite, mia cara?» risi, prendendola in giro.
    «No, uffa!» s’imbronciò. «Pensavo tipo a Rose, o cose così. Ma anche quello che hai detto prima… com’era, Sordily…».
    «Sword-Lily? Vuoi davvero chiamarla Gladiolo?» domandai sorpreso.
    «No, mi piaceva Lily! Potremmo tipo chiamarla Lily come primo nome e Rose come secondo…».
    «No, avevamo deciso Melody come secondo» la corressi.
    «Va bene, allora che ne dici di Lily-Rose? Lily-Rose Melody».
    «Lily-Rose Melody Depp…» dissi lentamente, assaporandolo. «Mi piace, sì».
    «No, Lily-Rose Melody Paradis» rise Vanessa.
    «Neanche per sogno!» risi anch’io. «È una famiglia a stampo patriarcale».
    Litigammo ancora per un po’ e poi finimmo abbracciati. Una famiglia vera. E stavo bene.
    Finalmente guarito.

*



*

    Johnny guarì veramente e totalmente dopo la nascita di sua figlia, ma fu una lenta ripresa da quando River Phoenix morì.
    A suo dire, aveva rovinato la sua vita ed era ora di responsabilizzarsi. Ma finalmente si era rimesso e, dandosi un’occhiata alle spalle, comprese che tutto quello che aveva passato aveva contribuito a costruire la sua felicità.
    Aveva una famiglia, degli amici cari, un gran bel lavoro, la musica.
    E smise per sempre di stare male.

*

    Salve!
    Scuserete come sempre il mio terribile ritardo, ma davvero, questo episodio ha richiesto uno sforzo psicologico maggiore per affrontare al meglio il più grande problema di Johnny, la droga.
    Credo che drogarsi sia stata solo la manifestazione del suo disagio interiore e ho provato a renderla come me la immagino. Leggendo i suoi commenti sulla droga, credo di aver inteso questa trasformazione come una crescita, come ho fatto dire a Sal. Noterete che questo capitolo è piuttosto pesante e per questo gli ho dato un taglio leggermente differente, per alleggerirlo alla fine.
    Il resoconto della morte di River Phoenix e della vicenda generale del Viper Room l’ho trovato su mysite.verizon.net. Non sono sicura che lui si sia drogato con River quella notte, ma mi serviva ai fini della trama psicologica. Il discorso di presentazione ai P è in realtà preso da un’intervista, ma mi piaceva tanto che l’ho inserito.
    Anche il cartello alla porta del Viper Room è vero, l’ho trovato, come sempre, su Wikipedia. Le traduzioni dall’inglese sono mie, quindi perdonatemi se ci sono errori, citateli e li correggerò.
    Le foto le ho trovate su johnnydeppfan.com, perdonatemi se non ho messo il Viper Room ma non ne ho trovata una con Johnny.
    Avrete notato che ci sono meno parolacce. Johnny cresce e matura, e il suo linguaggio ne è un sintomo.
    Credo davvero che il fatto che abbia smesso di drogarsi significhi che sia cresciuto, cresciuto davvero. E non solo grazie e lui, ma a tutti quelli che gli sono stati vicini in quel duro periodo di transizione. E dedico questo capitolo a tutti loro.
    Ultime note: non sono una fan della coppia Johnny/Vanessa, ma non si può negare che Johnny sia felice con lei, e tanto mi basta. Come se io avessi voce in capitolo.
    Non sono sicura che il nome di Lily-Rose sia stato deciso così, ma mi sembrava un modo simpatico, che mostrasse anche la mia non proprio simpatia per Vanessa.
    Voglio dirvi un altro enorme GRAZIE, perché se non fosse stato per voi e i vostri continui insulti e incoraggiamenti non avrei mai iniziato a scriverlo, forse.
    Risponderò a tutti tramite posta, giusto per non appesantire ancora questo capitolo. Il prossimo sarà più allegro e frizzante e tenterò di scriverlo dal punto di vista di Johnny per non inquinarlo con la mia non proprio simpatia verso la coprotagonista. E ho già detto tutto.
A presto, Emmawh
  
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