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Autore: Silver Pard    11/01/2011    5 recensioni
Un’ombra vuota. Un idolo vacuo.
Tu la chiami tortura, ma in cuor tuo sai che è giustizia.
Genere: Generale, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Cloud Strife, Sephiroth, Un po' tutti, Zack Fair
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII, Advent Children
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Note della traduttrice che stavolta ci terrei leggeste: so già che molto probabilmente a leggere questa storia saremo io, la mia beta, il cane della mia beta se solo sapesse leggere e il mio cane se solo avessi un cane, e mi sta anche bene.
Lo capisco perché neanche l’originale ha avuto tanto seguito, ed è una delle storie (meta storie) più strane che abbia mai letto, contando quella in cui Cloud si masturba insieme a Tifa con la mano del cadavere di Aeris (non guardatemi così, non sono io a cercare queste storie, sono loro che trovano me. Vi ho mai raccontato di quella in cui Nanaki fa cadere in disgrazia Cosmo Canyon perché se ne sta tutto il giorno, e intendo tutto il giorno, nella soffitta di Bugenhagen ad affittarsi i filmetti porno e a giocare a poker su internet? I DON’T EVEN-).
All’inizio si fatica a seguire, a dispetto dello stile fluido, e tutta la cornice narrativa alla fine è un po’ un pretesto per parlare di FFVII, quindi è più che comprensibile l’accoglienza freddina che ha ricevuto e immagino riceverà. A volte ho quasi l’impressione che sia una collezione di essay travestita da fanfiction.
In questa lunga storia sostanzialmente non succede niente o quasi, eppure è incredibilmente ricca e ragionata, tappa i buchi più imbarazzanti della trama e delle caratterizzazioni di Advent Children con un certo successo, senza mai essere per questo arida e fredda. Contiene delle riflessioni e analisi veramente interessanti, approfondite e a tratti filosofiche sul gioco e sui personaggi, e pur non condividendo ogni singola riga e ogni singolo paragrafo e neppure quella che potrebbe essere considerata la visione d’insieme, ho trovato comunque bello poter leggere delle introspezioni così acute e talvolta spietate scritte da una penna intelligente. Spero lo stesso valga per voi, se ci arriverete.
Non fatevi spaventare dai paragrafi sui cuori e le chiavi, non è tutta così e dopo un po’ si capisce cosa diamine sta succedendo xD
Per la cronaca, l’ho tradotta (e neanche malissimo) quasi tre anni fa nel giro di una settimana. Non chiedetemi perché ci ho messo tanto a pubblicarla perché non lo so.
AH! Prima che la lettura possa diventare più complicata di quello che è: la storia è ambientata tra il gioco originale e Advent Children, e solo di questi due tiene conto.
Zack è uno dei protagonisti della storia, ma il modello di riferimento non è il personaggio per certi versi semplicistico di Crisis Core. Non che sia completamente diverso, eh, in fondo i tratti base derivano dallo stesso personaggio abbozzato nel gioco originale, però la differenza si nota :)
Fosse stato per me avrei aggiunto anche Tifa ai personaggi, ma non c’entrava e mi premeva di più sottolineare il fatto che questa è una storia che tocca almeno di sfuggita praticamente tutti i personaggi del gioco. Però anche se da questo capitolo non si direbbe, pure a lei viene data molta importanza, e le vengono dedicati paragrafi veramente strazianti.
Buona lettura.
(btw: longest. note. ever.)







(Cocito)





È cominciata nel sangue. Come tutto. Per te è cominciata con la tua città natale, per alcuni è cominciata con un neonato e sua madre che moriva con il sangue ancora umido sulle cosce, e forse per qualcun altro ancora che ne sappia qualcosa è cominciata con un reperto congelato ritrovato da scienziati senza buon senso. Sbagliato. Questa è una cosa antica, che va molto più indietro. Non ha niente a che vedere con te, con noi. Ma ci ha investito comunque, ci ha avvicinato tutti con un unico colpo di rete cosmico che ha intrecciato le vite di tanti estranei.

Ha tutto a che vedere con te, con noi.

Che fai? Vieni, perché viaggi, paghi le bollette, giochi, aspetti che il telefono squilli – perché ti comporti come se fosse un giorno qualsiasi? Questo è l’anniversario, unisciti alla mascherata, ti stiamo aspettando.

Seguici. Lasciati tutto alle spalle per un po’, non ti servirà. Cammina con noi come noi abbiamo camminato al tuo fianco; dimentica queste cose mortali che non hanno significato e ricorda.

Non andartene! Perché tanta amarezza? Perché nessun altro ne capisce il valore? Tutti dimenticano; è così che funziona – per te non è forse questa la prova della misericordia del tempo, invece del contrario? Tutti dimenticano. Tranne te, certo. Tu, che ti ritrovi con una testa guarita ma maledetta da un ricordo che riporta facilmente alla luce specifici eventi, crudele come la verità e reale quanto la morte.

Ricordi la sensazione delle fiamme nel giorno in cui il tuo mondo è stato spazzato via come un castello di carte da un soffio di vento, il loro vivissimo calore che ti solleticava la pelle? Ricordi i suoni, l’odore, il sapore, ricordi il rumore crepitante della carne umana che si carbonizzava intorno a te, le grida di quelli che si rifiutavano di spegnersi nel silenzio della notte, il sibilo smorzato di una lama e del sangue?

Ricordi la lama del bisturi, lo scintillio della luce intercettata dalla sua punta sottile, l’aspro terrore che evocava e che riuscivi ad assaporare sulla lingua? Ricordi la paura che la tua pelle fosse diventata vetro e che un respiro troppo profondo, troppo lungo, potesse infrangerti in mille pezzi, minuscole schegge di te troppo piccole per potersi riunire ma troppo grandi perché potessi disintegrarti nell’oblio?

Ricordi il suono dei proiettili che laceravano la carne, la vista del sangue che descriveva un arco in aria, le goccioline rosso carminio che ti bagnavano la faccia e ti s’infilavano negli occhi nebulosi drogati di Mako?

Ricordi quel suono, quello della spada che le penetrava nella carne? Il modo in cui le mani le cascarono ai fianchi, le dita che si sciolsero dal gesto di preghiera, la maniera in cui il fiocco le si sfilò dai capelli in assurda sincronia, e la Materia che cadde sull’altare, producendo a ogni rimbalzo un piccolo scampanellio musicale che ti ha dilaniato nel profondo?

Ricordi il viso di lui, mentre la tua, di spada, affondava, e poi ancora e ancora e ancora, il rumore rantolante, come di risucchio, di quando la estraevi dalla carne per rimmergerla subito dopo un’altra volta, solo un’altra volta ancora, il sangue delle arterie che ti schizzava in faccia e lo sguardo nei suoi occhi che si spalancavano per il – ah, no.

Tortura? No. In cuor tuo sai che è giustizia. In fondo tu sei quello fortunato. Tu sei ancora vivo.



Com’è essere morti? Provate a indovinare.



Mi conoscete, credo. Zack Fair, al vostro servizio. O voi siete al mio?

Ah, così mi conoscete davvero. Pronti? Andiamo a farci un giretto, dai. Ci sono migliaia di posti da visitare, centinaia di vite da esaminare, tante di quelle cose da rimpiangere.

Da dove iniziare?

Da qui. Dall’inizio della fine, o la fine dell’inizio, come potrebbe filosofeggiare Valentine. La mia morte. Le nostre morti.

Quando sono morto io, mi sono trasformato in uno specchio. Nell’istante in cui quel proiettile fatale mi attraversò il cranio mi tramutai in vetro e rimasi intrappolato dall’altra parte, un’immagine del tempo passato, di un’era ormai conclusa.
Vidi Cloud, lo vidi allungare una mano dentro lo specchio ed estrarne il mio cuore di cristallo. Si aprì il petto con una lunga chiave deforme che divenne un nome, e all’interno del torace il suo cuore fatto di mytrhil, e nebbia, e fulmini si accese di rabbia e tristezza.
Una piccolissima chiave formata da un’ala legata a una catena aprì il cuore di mythril e nebbia, e fu lì dentro che lui ripose il mio cuore, dove batté e gridò il mio nome mentre lui richiudeva tutto con la chiave con l’ala e sigillava di nuovo il petto con la chiave che era un nome.

Ma io non vidi nulla. Quando mi tolse il cuore, lo specchio esplose in centinaia di migliaia di schegge e diventò un’armatura, e in ogni piastra scorgevo il mio viso.

Quando mi risvegliai, ero parte di questa sottilissima esistenza, di questo luogo teso di ricordi e Lifestream, di questa semplice realtà tra la veglia e la Terra Promessa, la cosa più vicina alla vita che la morte consenta.

Sephiroth mi ha detto che quando è morto lui – la prima volta – stava affogando in un mare di lacrime. Aveva una catena di inchiostro e seta nera attorno alla caviglia sinistra che lo ancorava al basso e una catena d’oro e d’argento annodata al braccio destro che cantava con voci metalliche, e scalciando e dimenandosi per tornare in superficie trasformò il mare di lacrime in uno di sangue.
Il sangue divenne un ponte che oltrepassò fino a raggiungere una sponda bianca, dove le catene lo strattonarono in due direzioni differenti: una conduceva a un sentiero luminoso di fuoco purificatore, l’altra conduceva a un sentiero d’ombra e spine.
Scelse – o forse no, non saprei – il sentiero d’ombra e spine, annodandosi la catena che cantava attorno al corpo per non dimenticare, e camminò e camminò, lasciando dietro di sé lacrime di cristallo screziate di sangue a segnare il suo percorso fin quando i due sentieri non si combinarono nuovamente.
In una radura di rovi e fiamme incontrò un ragazzo con delle cicatrici sulle ginocchia che gridava e piangeva e lo supplicava di andare via, ma era il primo essere che Sephiroth vedesse da quella che sembrava un’eternità e lo abbracciò e non lo lasciò andare. Il ragazzo gli scivolò tra le dita come un sogno, e lui lo legò alla catena d’oro e d’argento che cantava, così che nessuno dei due potesse correre abbastanza lontano da lasciare indietro l’altro.

Quando si risvegliò, non aveva perso le catene come io avevo cessato di essere lo specchio, e non riusciva a rimanere immobile e a riposare perché entrambe lo strattonavano in due direzioni differenti; scelse la catena di inchiostro e seta tenendosi stretto a quella che cantava, senza riuscire a ricordare il perché.

Aeris mi ha detto che quando è morta lei, le erano spuntate sulla schiena due gigantesche ali bianche. Volò alta e lontano nel cielo, tanto lontano che il Pianeta divenne piccolo come una Materia che lei racchiuse tra le mani. Ci respirò forte dentro per colorarlo di un verde brillante e se lo portò al collo dove quello cantò in milioni di voci che la rimpicciolirono nella sua vecchia pelle, che si increspava e brillava come il Lifestream.
Le milioni di voci si unirono in un fiocco che la guidò lungo la nervatura di vene sottili del dorso di una foglia che divenne un labirinto al centro del quale, mi raccontò, vide la mia schiena, ma io scivolai nella mia ombra quando tentò di tendere le braccia verso di me e precipitammo sempre più in un cielo senza colore prima di atterrare in un campo di fiori bianchi e gialli.

Sono state queste le strade che abbiamo attraversato per arrivare all’altro lato della vita.



Nella chiesa i fiori germogliano ancora, e in mezzo a loro si celano minuscoli ricordi, piccole istantanee d’affetto – nastri e fiocchi scuciti, bigliettini arcuati e ingialliti dal tempo, parole illeggibili sbavate dalla pioggia e dalle stagioni che dichiarano che non la dimenticheranno mai, un fiore giallo avvizzito, schiacciato con cura e imprigionato nella plastica come una mosca nell’ambra. Lui continua a tornare qui. (—I criminali tornano sempre sul luogo del delitto, eh?

—Zitto, Zack, dice seccamente Aeris, dandomi una gomitata nelle costole.)

Questo è il posto in cui lui ci è più vicino, in particolar modo ad Aeris, tanto che quasi riesce a percepirla mentre gli gironzola accanto, quasi ascolta la sua voce con le orecchie. È Aeris che Cloud chiama, sono le conversazioni con Aeris che sente e ricorda, ma è Sephiroth che gli si apposta quasi sempre vicino alla spalla a scrutare ogni sua azione con odio o pietà o disinteresse o direttamente nessuna emozione, perché decifrare correttamente il suo volto è pressoché impossibile. (—Non lo odio, dice Sephiroth con semplicità. Rovina poi prontamente il momento redentore aggiungendo quasi sovrappensiero: —Non ora, perlomeno. Aeris e io ci guardiamo e decidiamo in silenzio e di comune accordo di fingere che l’ultima frase non sia mai stata pronunciata.

—Lui ti odia, gli rispondo io piano. —Tu l’hai distrutto.

Lui mi sorride come se non gli avessi appena detto che ha distrutto un uomo. —Lo so, assicura. —Ma si dà il caso che lui mi piaccia di più così.)

Potrebbe essere l’odio o la rabbia o la paura oppure semplicemente la memoria a indurre Cloud a pensare a Sephiroth e di conseguenza a chiamarlo tanto spesso; fatto sta che è una chiamata che lo attira con una tale forza che gli sarebbe letteralmente impossibile stargli lontano.

Non che conti molto, dato che a Sephiroth piace da morire perseguitarlo. Ha imparato che il suo tocco fa riaffiorare ricordi e incubi, brevi squarci di immagini in rapida successione che fanno agitare e tremare Cloud, e così, a tempo perso, gli sfiora il viso con le dita affusolate, e la spalla, la gola, il delicato lobo dell’orecchio, la nuca. Il suo tocco è un veleno che s’infiltra nella pelle, nel cuore, e nella mente di Cloud, gli corrode i pensieri con ricordi che è stanco di mettere sotto chiave.

(Sephiroth è più grande di noi, ma il piacere che trae da questa meschina crudeltà… Non è stato sempre così. La sua mente… diciamo solo che non tornerà mai più come prima.)

Ogni notte ci lascia per osservare Cloud mentre dorme, a volte furioso per un battito dato per scontato, altre solo ferito e disperato e stanco di non essere nulla. È soprattutto il non essere nulla che non riesce a sopportare, perché per moltissimo tempo è stato tutto per tantissime persone; non riesce ad accettare di essere dimenticato tanto facilmente. Per questo si avvinghia a Cloud, che non riesce ad abbandonarlo, e anche quando vorrebbe non può andarsene. Alla fine ha capito che i fili da burattino a burattinaio che li uniscono possono funzionare da entrambi i capi.

Perché sei tu quello che dovrebbe vivere? Perché tu?

Perché fin quando Cloud vivrà, Sephiroth rimarrà qui, a guardarlo fare ogni respiro.

(—Finalmente l’immortalità, dice Sephiroth in tono asciutto, un lampo di raro umorismo nero che pensavamo tutti perso con lui tanti anni fa.)

È passato un anno da quando Sephiroth è morto per la seconda volta, dalla caduta di Meteor, da quella che avrebbe potuto essere la fine del mondo. Un anno, ed è cambiato tutto e niente.



Per quanto riguarda Sephiroth… Fatemi cercare di spiegare.

No, se cercassi di spiegarlo potrei solo peggiorare le cose. Rischieremmo di confondere ancora di più le cose.

Da dove comincio? Bisogna fare una scelta, quando si muore. Ci sono tante Terre Promesse, tante di quelle vite dopo la morte e tanti di quei modi per arrivarci quante le persone che popolano il mondo, e ognuno decide la sua strada.

Alcuni non vogliono stare qui, si uniscono al Lifestream e diventano parte di un nuovo tutto – l’erba, la terra, le nuove creature, ogni cosa, e una volta lasciato tutto ciò che sono stati non sanno mai di sentirne la mancanza. Altri trovano la loro Terra Promessa, altri ancora diventano quello che si potrebbe definire un “fantasma”; certe persone si addentrano in luoghi oscuri che pochi hanno il coraggio o la convinzione di raggiungere. E a volte non è nemmeno del tutto una nostra scelta, ma vostra, perché siete voi ad avere bisogno che la facciamo.

Per esempio: Aeris una volta mi ha raccontato di una bambina che aveva visto in strada, che guardava la propria madre. Ma la bambina era morta, e quello che ne rimaneva stritolò il cuore della madre in un pugno di ferro, le lacerò la gola facendole scappare un ansito che formò il nome di sua figlia. Sei venuta per me? chiese la madre nella propria testa, e Aeris avvertì la nostalgia che le divampava dentro, una marea che non si sarebbe mai prosciugata.

Ma un secondo dopo non riusciva più a vedere la bambina, e per quanto il cuore insistesse nel ripeterle che era ancora lì, la sua mente stava già accampando scuse – Non ho visto la mia bambina morta che mi aspettava a quell’angolo della strada. La mente ha ingannato i miei occhi, mia figlia è morta. I fantasmi non esistono. Non voglio vederla. È acqua passata.

Ci sono tante Terre Promesse quante le persone che popolano il mondo; dipende tutto dal punto di vista. Questo lo capite?

Permettetemi di essere schietto. Qualcosa è andato storto mentre Sephiroth compiva la sua traversata, quando si è incamminato sul sentiero che porta dalla vita a quello che si trova al di là della vita. Se non fosse stato per Jenova non credo che adesso sarebbe qui. Il Sephiroth che conoscevo io non avrebbe mai scelto questo posto; non era il tipo di persona che si lega invano al mondo dei viventi, che vuole trascorrere il resto del suo tempo a guardare ciò che non può cambiare. In lui è rimasto abbastanza di quello che era per capire che questo non è il luogo adatto a lui, ma non abbastanza per sapere dove esattamente avrebbe dovuto andare.

È per questo che imbracciò (imbraccia) le catene. Una catena era per Cloud, e se l’era forgiata da solo usando sensi di colpa, necessità di ancorarsi a qualcosa e una ciocca di capelli d’argento in modo da renderla parte di sé e da non poterla sciogliere neanche volendo. L’altra catena era opera di Jenova, ma se la strinse intorno di sua spontanea volontà. Lo legarono al regno dei vivi, ma in due modi completamente diversi, e perciò si è diviso in due.

Quello che mi piace chiamare Il Vero Sephiroth™ ogni tanto faceva la sua comparsa qui, un’apparizione sobria e solenne che non riusciva a stare in un posto solo per molto, intrappolato in questo luogo sospeso nel mezzo. Malgrado i suoi sforzi non riusciva ad andarsene, e appariva qua e là ma soprattutto dove e quando Cloud aveva più bisogno di lui.

L’immagine di Sephiroth, lo zimbello di quello che era stato, era di Jenova. Non era affar nostro – apparteneva al mondo dei vivi, ed era un problema loro. (E se credete a questo, potete credere a tutto.)

Pensavamo tutti… beh, io pensavo che quando il suo corpo fosse morto, lo spirito sarebbe tornato ad essere uno.

Ah, beato schifoso ottimismo. La seconda traversata di Sephiroth fu ancora più disastrosa della prima. Non so cosa sia successo, perché Sephiroth non è mai stato in grado di spiegarcelo, non ha mai avuto abbastanza coerenza, ma ciò che è venuto fuori dopo la fine non è né Il Vero Sephiroth™ né lo zimbello jenoviano.

È il più grande mistero di questa vita dopo la morte – dov’è Il Vero Sephiroth, quando ritornerà… O forse questa persona danneggiata che io e Aeris vediamo ogni giorno è il vero Sephiroth, la somma totale della sua devastante esperienza? E se il burattino di Jenova si fosse fuso con il Generale alla sua seconda (vera?) morte? E se la cosa rincoglionita che passo le mie giornate a compatire e temere fosse in realtà l’oggetto genuino?

Tanto tempo fa, Sephiroth aveva una mente brillante. Ora ha queste piccole scaglie fratturate di pensieri che non solo alle volte sono del tutto incompatibili tra loro, ma addirittura, quando in aperta contraddizione, lottano ferocemente come Turk rabbiosi che si contendono l’ultima tazza di caffè. Avendo tre idee distinte e separate praticamente su ogni cosa, oltrepassa la linea sottile tra i vari assortimenti belligeranti di pensiero come un ubriaco che fa il test del palloncino.

Una maniera contorta per dire che è completamente pazzo. Dategli cinque minuti e ve lo dimostrerà.

Quindi, adesso che lo sapete, dove andiamo?

L’inizio. O perlomeno quello che è stato il nostro inizio. Ma qual è stato il punto di partenza? A Wutai, dove ho visto un uomo-mostro radere al suolo un’intera nazione e gli sono diventato comunque amico? Quando ho incontrato Cloud, che sarebbe diventato il salvatore del mondo? Quando Sephiroth ha deciso che la piromania era il futuro? Quando sono morto e Cloud si è trasformato in qualcosa di diverso da Cloud? Quando ci siamo rincontrati tutti? Da dove volete che cominci? È tutto così confuso.

Che ne dite di questa – non ne parliamo affatto. Mica male?



Wutai è aspra e bellissima. Ricordo di aver pensato questo mentre ero lì. Wutai è aspra e bellissima, e lo insegna alla sua gente. Hanno un profondo rispetto per la loro terra, perché la terra è potente e loro non sono nulla di fronte a lei. Wutai insegna alla sua gente a essere orgogliosa, a essere aspra, a non arrendersi mai, perché altrimenti non si sopravvive. Wutai insegna a trovare il piacere nelle cose semplici – a trovare la bellezza nel temporaneo e la pace nell’eterno. Avevo una voglia incredibile di vedere le cose come la gente di Wutai, di capire.

Mi vergognavo a non conoscerla, e mi vergognavo al pensiero di quanto invidiassi il nemico. Ma chi se ne fotte, ero molto giovane. Sono ancora molto giovane.

Ero a Wutai da un mese, e stavamo di vedetta, io e un mio amico, e discutevamo bonariamente dell’inutilità dei nuovi posti di guardia, di quali teorie del complotto fossero tanto ridicole da poter essere vere, e di quella vecchia lagnanza militare che è la burocrazia. Lui era più grande di me, aveva almeno il doppio dei miei anni, e si era assunto la responsabilità di farmi quasi da precettore, di guardarmi le spalle (l’età minima per entrare nell’esercito dovrebbe essere quattordici, ma la guerra andava avanti da tanto tempo e ormai a nessuno importava particolarmente quanti anni avessi se sapevi impugnare una pistola).

Mi parlò un po’ di sua moglie che stava a Midgar, e del fatto che presto avrebbe avuto un congedo. Quando gli argomenti di conversazione si esaurirono, osservammo i nostri respiri cristallizzarsi in aria, e io alzai gli occhi alle stelle, così luminose e chiare, e inspirai l’aria fredda tanto profondamente che la gola mi bruciò al ritmo del cuore e mi fecero male i polmoni, e ogni respiro ricordava un rantolo rubato a un uomo morente.

« Stanotte nevicherà » disse il mio amico. Era a Wutai da molto tempo, quasi dall’inizio della guerra, e conosceva i segni premonitori di un inverno di Wutai. « Stanotte o domani. »

(Aveva ragione. Fu la nevicata più grande che avessi mai visto – Gongaga è circondata da alberi che ci riparano dai venti freddi del nord, e al di là delle foreste le pianure sono sconfinate e piane, il clima è temperato. La neve ricoprì il corpo del mio amico tanto che alla fine sembrava solo un bizzarro rialzamento della terra sottostante, riempì le ultime impronte della sua vita, colorò le macchie rosse di infido bianco. Quando gliela spazzai di dosso, la pelle gli era diventata blu e i suoi lineamenti erano orlati di brina. Le piastrine gli si erano incastrate nel torace, e quando le tenni sospese di fronte a tutti gli altri, strisce di carne congelata scivolarono giù come nastri.

Ci furono tante di quelle battaglie in quel periodo che la lettera di condoglianze fu spedita solo sei mesi dopo.)

Ma tanto non lo stavo ascoltando. Stavo pensando al fatto che non avevo mai elogiato la cucina di mia madre, a quanto avrei dovuto farlo. Stavo pensando al bambino-generale con i capelli d’argento, a come sarebbero diventati di puro bianco se incorniciati dalla neve, e ai suoi freddi occhi verdi, e al fatto che ormai non era più un bambino e probabilmente non lo era mai stato.

Mi stavo dando dell’imbecille perché mi piaceva lo stesso, anche dopo aver visto ciò che aveva fatto ai prigionieri di guerra, e perché tentavo di essere suo amico, perché ero diventato un soldato per vedere se era davvero come era apparso in televisione tanti anni prima. Aveva avuto quattordici, quindici anni (poco più che un bambino! Mia madre aveva pianto, anche se all’epoca aveva quasi il doppio degli anni miei, ma bastarono i pochi secondi di un video traballante che lo ritraeva sul campo di battaglia per arrestare le sue lacrime). Stavo pensando a quanto mi fosse sembrato composto ed elegante anche allora, quando era in bilico sulla linea indistinta tra l’adolescenza e la maturità, e invidiavo la facilità con cui era riuscito ad attraversarla ora che io stesso avevo raggiunto quel periodo goffo.

Stavo pensando alla battaglia che ci sarebbe sicuramente stata il giorno dopo, e mi chiedevo se sarebbe stato l’ultimo.

Sentivo che morire avrebbe potuto piacermi, perché in quel momento la gola mi stava uccidendo, e stavo pensando a quanto Wutai fosse simile alla sua gente, o forse a quanto avesse imparato da lei la sua gente – a essere aspri e bellissimi, morte o vittoria, sempre, senza mezzi termini.

« Mi arrendo » sbottò il mio amico fingendosi irritato. « Non pensare troppo, testa di riccio, potresti danneggiare qualche rotella. » Si allontanò e mi salutò con la mano, e annotai mentalmente di scusarmi il giorno successivo per averlo trascurato da pessimo amico, quando ne avessi avuto il tempo, non appena l’avessi rivisto.

Ogni tanto lo cerco, quando Aeris va nei suoi campi e Sephiroth fa la sentinella a Cloud e gli picchietta le dita sulla fronte mentre elabora metodi per ucciderlo, ma il Lifestream è vasto, e perché mai al mio amico dovrebbe essere capitato quello che è successo a me?

Forse se n’è andato. Forse il suo spirito si è già buttato tutto alle spalle, è divenuto parte di qualcosa di nuovo, parte dell’erba, dei fiori, dell’acqua e delle creature che nascono ogni giorno. Non lo so. Credo di sì.

Ma così ho qualcosa da fare. Così posso non pensare alla stanchezza negli occhi di Aeris quando di notte abbraccia Tifa e le dice di non piangere. Così posso non pensare al ghigno beffardo di Sephiroth quando guarda le masse cieche che gremiscono le strade. Così posso non pensare al mio odio per i pellegrinaggi di Cloud a quel pezzo di terra spoglia dove ha conficcato la mia spada, intaccata dalla ruggine e vecchia, una cosa che non ha più niente a che vedere con la lama che custodivo gelosamente.

(E a volte vorrei chiedere, chi cazzo ti credi di essere per tenerci ancorati qui?)



Se vuoi sopravvivere agli orrori della guerra devi ridere, giocare, baciare ragazze carine, e fare anche di più se loro te lo permettono.

Non ti tieni i tuoi sentimenti stretti al petto, ammantandoti nell’immagine del soldato perfetto, incapace di avvicinarsi agli altri, incapace di condividere, mentre li seppellisci sempre più giù per fingere che non siano mai esistiti.

Non ti carichi al massimo come un giocattolo, perché prima o poi esploderai.

Ah, Nibelheim.

(Fuoco, fuoco ovunque, e non uno strizzacervelli nei paraggi manco a pagarlo oro.)



Nibelheim la ricordo così. Mi sanguinava il labbro, l’avevo morso fino a romperlo quando ero uscito dal maniero e avevo visto quello che aveva fatto il mio migliore amico. Sentivo il calore delle fiamme sulla pelle, superava persino gli stivali. Scorsi Cloud fuori dalla sua vecchia casa, e ricordo di averci guardato dentro e, senza volerlo, di aver visto sua madre – non poteva essere nessun altro, con quei capelli – fissarmi con degli occhi vuoti e accusatori. Era ricoperta di sangue, e il suo vestito prese fuoco mentre ancora la guardavo, vidi le fiamme ammantare lei, la sua pelle, il suo viso, il suo viso-

Ricordo che Cloud pronunciava un nome (Se…phi…roth…) a scatti, a pezzi, come se fosse composto da schegge d’ossa che doveva sputare per non strozzarsi. Ricordo di essermi chiesto perché fosse lì, visto che era rimasto a guardia dell’entrata del seminterrato da quando Sephiroth si era rinchiuso lì sotto.

Forse aveva visto la follia negli occhi di Sephiroth mentre lasciava il seminterrato ed era corso avanti per cercare di raggiungere sua madre prima di lui? Aveva strisciato obbediente dietro di lui per poi rimanere inorridito a guardarlo mentre ammazzava la prima persona che gli aveva chiesto se stesse bene? Aveva abbandonato il suo posto per andare a far visita a sua madre, perché tanto Sephiroth era lì già da una settimana e non dava cenno di muoversi e se anche fosse sparito per qualche ora nessuno vi avrebbe fatto caso? Lei lo stava circondando di premure quando Sephiroth si era precipitato in città col fuoco negli occhi e la Masamune tra le mani? Ma in quel caso come ci era finito, lì fuori?

Non l’ho mai chiesto. Non si ricevono tutte le risposte venendo qui. Tutto il presente è a nostra disposizione, ma il passato ci è precluso, e il futuro ci è oscuro come a tutti gli esseri viventi.

Mi inginocchiai accanto a lui, e fui grato del fatto che non sembrasse vedermi, che continuasse a chiamare il nome di Sephiroth soffocando su quelle sillabe di ossa, perché altrimenti avrei dovuto dirgli, « Tua madre è morta. » Ma forse già lo sapeva, e mi odiai quando sperai che fosse vero, che l’avesse visto succedere, solo perché significava che non avrei dovuto dirglielo io. Poi intravidi Sephiroth tra una cortina di fuoco.

Ricordo che lasciai Cloud lì e lo inseguii, troppo carico di furia e odio per fare qualsiasi altra cosa. Ero arrogante, ed ero uno stupido.

Ricordo di aver guardato Sephiroth in faccia e di aver pensato (…………oh, dio, sono morto) che non avevo mai assistito a nulla di più raccapricciante. Ero stato suo amico da abbastanza tempo da poter dimenticare una cosa che non credevo avrei mai potuto scordare – che quell’uomo non era come me, come tutti gli altri, che era qualcosa che andava molto oltre noi. Avevo dimenticato il Sephiroth che avevo visto sul campo di battaglia, avevo dimenticato che questo era lo stesso uomo che aveva sterminato l’esercito di Wutai come un uragano, come un mietitore che taglia innumerevoli spighe di grano con una falce affilata – perché col tempo ero arrivato a credere di non aver motivo di temerlo, che non mi sarei mai trovato nella situazione di dover affrontare la stessa cosa.

Ricordo… che il suo sangue sulla Buster Sword era quasi nero. Era la prima volta in assoluto che vedevo Sephiroth sanguinare, e guardai il suo sangue colare sulla lama della Buster e pensai… pensai (non sta succedendo) che fosse finita un’era, che fosse arrivata la fine del mondo. Vidi il Grande Sephiroth sanguinare per mano di un soldatino qualunque. Lo vidi come – veramente, e per la prima volta, non perché mi piaceva ed era mio amico – un uomo normale. Subito dopo intervennero la mia arroganza e il mio orgoglio, perché vederlo ferito da Cloud, un ragazzo normale, niente di speciale, un soldato semplice della ShinRa (un lupo che aveva finto di essere un cane)… Quasi volevo…

No, è una bugia: io volevo che buttasse via Cloud come un giocattolo, volevo che scagliasse lui contro il muro tanto forte da lasciarci un’ammaccatura, perché com’era possibile che io non fossi riuscito a fare niente e Cloud tutto? Com’era possibile che per lui fosse stato tanto facile scacciarmi via come un insetto fastidioso… ma così difficile anche solo parlare dopo che Cloud gli aveva assestato un colpo come si deve? Com’era possibile che per Cloud fosse stato così maledettamente facile riuscire dove io avevo fallito?

(—Ciò di cui tu non tieni conto, Fair, mi interrompe Sephiroth nel tono più glaciale che gli abbia mai sentito usare, da lucido o da pazzo, se per via del ricordo o per quello che ho detto non lo so, —È che quella che incendiai era la città di Cloud Strife, non la tua. Naturalmente, desiderava la mia fine molto più di te. Per non parlare del fatto che lui è stato intelligente. Lui non mi ha lanciato un avvertimento. Non c’entra niente la Mako o la non Mako.)

È per questo che… ho detto a Cloud di ucciderlo. Io volevo… Cloud… volevo… vederti fallire.

Ho rimpianto quell’istante di orgoglio perverso per il resto della mia vita e oltre, ma questo non cambia nulla, non cambia il fatto che quando vidi Cloud inchiodato sulla Masamune come una farfalla, una parte di me, la parte SOLDIER che era abituata a essere considerata superiore alla gente comune ed era arrivata a credere alle montature giornalistiche, quella parte di me disse .

(—Se non fosse per la mancanza di alternative, mi disse molto pacatamente Il Vero Sephiroth™ con voce funerea quando glielo raccontai, e ricordo ancora la vergogna schiacciante che provai e i suoi occhi che mi studiarono come se vedessero solo sporco, come se vedessero una cosa che gli avrebbe fatto schifo toccare anche solo con lo stivale —Non ti rivolgerei più la parola.

Non me la presi nemmeno, perché quando ci penso, sono io che non voglio più parlare con me stesso.)

Ricordo la faccia di Zangan, corrosa dall’apprensione e dalla determinazione, ricordo di averlo visto oltrepassare Cloud come se non esistesse e raccogliere Tifa tra le braccia prima di uscire di corsa. Ricordo di aver maledetto il suo nome nella mia mente per diverse settimane di seguito per averci abbandonato lì.

Così ricordo la fine del mio mondo.

Parliamo un po’ di Zangan per un momento, proviamo a vederla dai suoi occhi.

Sei un maestro di arti marziali, sei bravo, sei formidabile. Hai cento ventotto studenti in tutto il mondo, da Midgar a Wutai. Quando Sephiroth perde qualche rotella di troppo cerchi di aiutare la gente del villaggio, e questa è cosa buona e giusta (tranne che verrebbe da chiedersi, ma per quale vita li hai salvati? Sono diventati i Mantelli Neri, dopotutto). Tu non lo insegui – tu, un lottatore con tanti anni ed esperienza alle spalle, l’unica persona in paese con una vera possibilità.

(E ti dai del guerriero, vecchio? Sei rimasto a guardare e hai cercato di aiutare gli abitanti del posto solo in un secondo momento… E poi, dopo che un SOLDIER ha tentato, dopo che la tua pupilla di quindici anni e un sedicenne con una preparazione non superiore a quella di un qualsiasi altro soldato semplice della ShinRa hanno tentato, tu abbandoni quella gente come se d’improvviso valessero meno di zero e vieni da noi.

Avevi paura? Hai visto come tranciava uomini, donne, bambini con colpi pigri e semplici di quella lunga spada? Sei rimasto incantato dalla facilità con cui riduceva la gente in carcasse? Ti sei detto che non era la paura ma la prudenza a immobilizzarti mani e piedi?)

Entri nel reattore. Ci sono tre persone. Un ragazzo che non conosci, una ragazza che invece conosci molto bene e un SOLDIER a cui hai detto di uccidere Sephiroth (beh, di sicuro questa storia mi ha insegnato il prezzo dell’arroganza).

Tre persone. Il ragazzo è il più vicino, il ragazzo che ha fatto ciò che tu non hai potuto, quello che tu – un maestro di atri marziali, con allievi da Midgar a Wutai – avresti dovuto fare. Tu questo non lo sai, certo – non c’eri. È gravemente ferito, magari sta morendo.

Forse eri invidioso di questo ragazzo? Dell’impresa di forza che tu non eri riuscito a compiere? O forse era semplicemente colpa del modo in cui stava disteso per terra, accartocciato come un burattino a cui sono stati tagliati i fili, e la parte guerriera del tuo cervello ha visto come stava, ha visto il sangue e il pallore della sua pelle e ti ha detto, non vivrà, mentre la parte umana ti ha detto, non conosco questo ragazzo.

Poco più avanti c’è una ragazza, una ragazza che hai allenato e a cui ti sei affezionato aperta come un tacchino.

È stato solo quello a salvarla dal fato che attendeva gli altri superstiti di Nibelheim? Che era la tua pupilla? Le tue emozioni hanno prevalso sul tuo buon senso, quando ci è stato insegnato di non permetterglielo mai? L’aveva squarciata con un colpo senza nemmeno pensarci; avevo visto la sua pelle, la sua carne scorticarsi e schiudersi come un fiore rosso per rivelare le ossa – hai veramente pensato che lei sarebbe sopravvissuta? Dov’era la parte guerriera del tuo cervello in quel momento?

(Ogni tanto mi chiedo se lui non avesse voluto che lei vivesse. Avevo visto la Masamune passare le ossa da parte a parte come se fossero burro. L’avevo visto squartare persone come un cazzo di artista. Se voleva che qualcuno morisse, quello moriva. O forse era tutto un gioco: se muori, beh, a me sta bene; se hai abbastanza forza da costringerti a vivere, probabilmente te lo meriti. Forse stava giocando con il suo burattino anche allora, e osservava le sue reazioni come si studia un ratto di laboratorio.

Forse semplicemente non gliene fregava un cazzo.)

Il più lontano è l’uomo, anche lui gravemente ferito, ma infuso di Mako che si occuperà in fretta di quelle ferite.

(Mi sarei ripreso. Una questione di giorni, una settimana, io mi sarei ripreso. Cazzo, se mi avessero dato un paio d’ore o una Restore – che figura di merda se Cloud fosse riuscito a fare qualcosa più di me, un maledetto SOLDIER Prima Classe eccetera. Avrei potuto rimettermi. Io avrei potuto rimettermi.)

Hai cinque minuti, forse meno.

Come si fa a decidere, in una situazione del genere, chi bisogna salvare?

Lo sapeva a cosa ci stava abbandonando? Ipotizzando di no, era talmente consumato dal pensiero della sua allieva prediletta che non riuscì a risparmiare nessuno di noi? La scaricò a Midgar non appena arrivato lì. Perché non è tornato indietro, anche solo per lavarsi la coscienza?

Ma non tornò.

(Sono ingiusto? Beh, che cazzo vi aspettavate? La colpa deve andare da qualche parte, e non posso accollarmela tutta io.)

Non pensiate che non volessi bene a Cloud. Sono morto per lui, una di quelle cose di cui tutti parlano ma in pochi fanno davvero. Sono morto per lui e non è stato un errore – non avrei mai potuto fare altrimenti, per quanto egoista mi possa sentire ogni tanto. E okay, desiderarlo impalato su una spada non fu esattamente da animo nobile, ma non crediate che non mi sarei rimangiato quel pensiero se avessi potuto. Non crediate che non mi sia maledetto all’infinito per aver ceduto a un egoismo così umano.

Non crediate che stia qui a sperare che Cloud stia male. Non crediate che non rifarei tutto se potessi.

Ma non crediate nemmeno che io sia una sorta di santo. Ero solo un ragazzo normale, che si è incasinato in cose che andavano oltre la sua comprensione, e ha fatto il meglio che poteva.

Come osate giudicarmi?

(Se…phi…roth…) sentii biascicare a Cloud tra le lacrime, tra l’odio e la rabbia. Piccole sillabe di ossa.



Quella fu la fine della mia vita. Tutto ciò che seguì ne fu solo l’immagine residua.



A quattordici anni, Cloud Strife era piccolo, ossuto e pallidino, e ricordo di aver pensato che avesse gli occhi non diluiti dalla Mako più chiari e azzurri che avessi mai visto. Aveva spirito, all’epoca; era come un puledro da domare, e gli si leggeva negli occhi che combatteva ogni grado dell’addomesticamento.

L’addestramento SOLDIER fece ciò per cui era stato ideato e lo percosse, lo ruppe, lo riavviò, levigò gli spigoli; lo trasformò nell’ennesimo, minuscolo bullone della maestosa macchina ShinRa, e lui imparò la sua lezione. Non si faceva coinvolgere nelle risse. Non rispondeva in modo sfrontato agli ufficiali. Non sollevava polveroni. Scivolava sulle pareti con tanta efficienza che è un mistero che i Turk non abbiano capito quale diamante grezzo gli si aggirasse sotto il naso e non l’abbiano preso al volo. Era un lupacchiotto feroce mascherato da cagnolino, e a vederlo ero soltanto io.

(—Io l’ho visto, mormora Sephiroth, a voce tanto bassa che quasi penso sia stata solo la mia immaginazione. Non sono tanto incline a credergli. Sono anni che è ossessionato dal pensiero di ammazzare Cloud; una cosa del genere deve per forza fare scherzi alla memoria. Non sto dicendo che Sephiroth non riconosca che ci sia qualcosa di speciale in Cloud – dev’esserci, perché sia riuscito a ucciderlo da modesto soldato ordinario. Ma dubito che all’epoca l’avesse già intuito.)

Non sapeva neanche cosa fosse la paura, era troppo concentrato sul suo obiettivo per badare a molto altro. Aveva quello che ha Reno, quello che ogni bravo Turk o SOLDIER possiede – ogni volta che lo buttavi a terra, lui si rialzava subito. Qualunque cosa gli capitasse, lui continuava per la sua via, anche strisciando, se necessario. Una determinazione del genere è rara.

Il che rende tutto quello che gli è successo uno spreco ancora più grande e stupido. Il modo migliore con cui posso descrivere questa cosa è… un bambino. Un bambino che riceve un nuovo giocattolo, uno di quei giocattoli nuovi, robotici e molto costosi, e lo sbatte ripetutamente contro il muro finché il giocattolo non si rompe in migliaia di componenti elettroniche. E poi il bambino lo riassembla, ma sottosopra, e il risultato è un qualcosa che non ha alcuna somiglianza con l’originale. Poi il bambino parla di questo rimpiazzo come se fosse qualcosa di superiore, perché l’ha ricostruito lui con le sue mani.

Uno spreco. Stupido. Spregevole.

Il laboratorio… Lì dentro, il mondo era formato da mura di vetro, verde brillante e grida. No. Non parliamo di quello. Posso parlare di quello che avvenne dopo, se chiudo gli occhi e faccio finta che sia successo a qualcun altro. Posso parlarvi di quello che accadde a Cloud, se non penso a ciò che ha significato davvero. Posso parlarvi di queste cose con tutta la schiettezza di cui sono capace, ma non chiedetemi di rientrare in quel posto.

La Grande Fuga… Sì, di quella posso raccontarvi qualcosa.

Nel laboratorio… nel laboratorio, Cloud parlava costantemente. All’inizio. Ma mai a me; era come se per lui io facessi parte di un qualcosa di meno reale, come se io fossi l’allucinazione, io e il laboratorio, le mura di vetro, il tanfo di Mako e i toni misurati degli assistenti di laboratorio. L’unica cosa reale era la voce che nessun altro poteva udire.

Chiamava il nome di Sephiroth, e imprecava e ringhiava come un lupo ammattito, mentre altre volte si sedeva e canticchiava a bocca chiusa qualche canzone molto carina che sicuramente mi sarebbe piaciuta se le circostanze non fossero state quelle che erano, e ogni tanto blaterava delle stronzate seriamente strane. Speravo che dell’ultima peculiarità fossero responsabili le droghe che continuavano a pompargli nelle vene, perché l’alternativa era troppo brutta e dolorosa.

La spina, per un sentiero di guai e dolore » disse una volta Cloud dopo, non so, forse tre mesi? Un bel po’, comunque. Insomma, a un certo punto se ne esce con questa cosa, da un momento all’altro e senza apparente motivo, e poi si ferma e ascolta. Non si mosse, esattamente, non tolse la fronte dal vetro; non muoveva neanche un muscolo, ma non muoveva un muscolo in un modo che faceva pensare stesse parlando con qualcuno e quel qualcuno stesse rispondendo. Poi rise, una risata molto delicata, un po’ come una piuma macchiata di sangue che si libra nell’aria: persa e patetica.

« Il ghiaccio, per un sentiero di sofferenza e solitudine. Bugiardo » bisbigliò in risposta all’interlocutore invisibile, ma in quel tono che ti fa pensare a dei vecchi amici o a due freschi innamorati, con grande affetto, come se fosse vero che l’altra persona stava mentendo e lo sapessero entrambi, ma lui non volesse ferire i suoi sentimenti.

« Il bue selvatico, per il coraggio e la forza. Non credo – uh, tu sì? Ma parti prevenuto, non è così? »

« Smettila » gli dissi. « Cloud, smettila. »

« La torcia di pino, scoprirai un segreto. Figo, no? Vuoi sapere il segreto quando lo scopro? Se vuoi te lo dirò. Ma anche tu devi dirmi un segreto, perché altrimenti non è equo, capito? »

Smettilasmettilasmettilatiprego

« La pietra, delusione ti attende. Io l’avevo detto che prevedere il futuro con le rune era stupido, più deluso di così non posso diventare. Parliamo di qualcos’altro. … Ehi, Sephiroth? »

Perché non parlavi con me? Tu eri mio amico; perché non parlavi con me?)

Poi si zittì del tutto. Rimasi in attesa per mesi e mesi, perché a volte Cloud sprofondava tantissimo in se stesso e gli era difficile trovare il modo di risalire. Aspettai fino al giorno in cui qualcosa comparve nella testa di Cloud: si affacciò e scrisse in lettere di Wutai sul vetro che era diventato il limite del nostro mondo, e non riuscii più a fingere.

Usciamo di qui.

Ero pronto. Ma anche Hojo era pronto.

A volte mi chiedo se Hojo non avesse macchinato qualcosa per la nostra fuga. Con la mia morte e la sopravvivenza di Cloud, e la Riunione che si avviò quando Cloud venne rinchiuso nella torre ShinRa, ci sono volte che mi chiedo se quel viscido bastardo non avesse pianificato tutto.

Poi provo a non chiedermi nulla perché mi si stringe il cuore, mi si serra lo stomaco e mi pungono gli occhi. Come potrebbe esistere qualcuno – qualcuno di così sadico, crudele, fottutamente mostruoso-

Oddio, Cloud.

Ah, Sephiroth. Sephiroth.

Dio. Solo… Dio.

(proiettili e dolore, e lascialo perdere, questo qui è uno spreco di proiettili, e i miei ultimi pensieri furono pieni di sollievo, perché per Cloud sarebbe andato tutto bene, se la sarebbe cavata, e che diamine ne potevo sapere, e se l’avessi saputo forse avrei preso il pugnale che nascondevo nello stivale e gli avrei mozzato la gola.)

All’epoca non mi insospettii neanche vagamente – c’erano grossi casini nel presente di cui preoccuparmi, come per esempio tirare Cloud fuori di lì, come scappare, e tanto piacere che c’erano molte meno guardie di quanto mi aspettassi, tanto pateticamente inutili per essere gente che in teoria ci sorvegliava da cinque maledetti anni e

Dio. Dio, vidi il cielo per la prima volta dopo cinque anni. C’erano solo nuvole – un grigio noiosissimo – e il sole combatteva con le unghie e con i denti per mostrarsi di tanto in tanto, rischiarando tutto per qualche secondo di merda ogni dieci minuti o giù di lì, il tipo di tempo che avevo sempre detestato perché non si capisce mai dove voglia andare a parare, ma Dio, era bellissimo.

Era così schifosamente bello e io ero così felice che appoggiai Cloud a terra per qualche istante e sollevai la testa, guardando come un matto la meraviglia che ci sovrastava, volteggiando ininterrottamente a braccia spalancate come se avessi potuto abbracciare tutto il mondo. Poi caddi e rimasi sdraiato lì, a fissare il cielo.

Stetti in quella posizione per dieci secondi interi prima di alzarmi, mettere Cloud in piedi e trascinarmelo dietro mentre lui emetteva versetti piagnucolosi privi di senso. A parte il fatto che io desideravo a morte che continuasse, perché erano le prime cose che non fossero urla che Cloud si lasciasse scappare da mesi.

E così eccoci lì, finalmente liberi, con Cloud che sbavava come mio nonno – lui era malato di demenza senile, o perlomeno lo era a ogni raduno di famiglia, perché nessuno darebbe mai uno schiaffo a un vecchietto che non ha abbastanza cervello da evitare commenti estremamente fuori luogo, giusto? – io che tremavo e Nibelheim a circondarci, e per un attimo mi sentii così disperato che una parte di me voleva mollare tutto e sdraiarsi di nuovo a scandagliare il cielo fino a che i bastardi in camice bianco e divise blu non fossero venuti a riportarci dentro.

Chissà cosa sarebbe successo se l’avessi fatto davvero.

Nibelheim. Se non fosse stato per vincoli di tempo e per il bisogno di andarcene il più lontano possibile l’avrei incendiata di nuovo, perché costruire il duplicato esatto di un’intera città proprio sopra quei cazzo di tetti d’ardesia non mi diceva nulla di buono.

Proprio nulla.

Se avessi saputo del futuro che stavo riservando a Cloud, chissà se avrei ceduto all’impulso di stringergli le mani al collo e strangolarlo. Se avessi saputo ciò che lo aspettava, l’avrei fatto?

Credo… credo che avrei potuto farlo.

Il giorno in cui sono morto, mi dissi che non contavano più il dolore, la sofferenza, il tempo perduto e tutti gli esperimenti, il sangue e la tracotanza, ne sarebbe valsa la pena se solo Cloud fosse sopravvissuto. Ci credevo davvero. Ma se avessi saputo quale sarebbe stata la vita per cui lo stavo salvando, l’avrei ucciso. Al diavolo i sensi di colpa e il destino, io l’avrei ucciso.

Non è passato molto tempo da quando sono morto – non abbastanza da dimenticare com’era stare stesi sull’erba appena tagliata, da dimenticare il meglio delle albe o il sapore di una birra fredda (e non se ne parla, naturalmente, ma è una questione di principio – che c’è, vi siete fatti convincere da Seph che non ho principi?) o il profumo della pelle di Aeris…

Ho perso tutto volontariamente. Il sorriso che Aeris mi avrebbe regalato per salutarmi, il sapore dei piatti di mia madre, l’euforia di una bella lite – ogni momento prezioso che avrei potuto avere o avevo vissuto senza riconoscere come tale mi furono strappati in pochi secondi con la sensazione dei proiettili che mi perforavano la carne e del sangue che mi si raggrumava sulla pelle, ma io ero disposto a perdere tutto quanto, a perdere la battaglia più importante della mia vita, a patto che il mio amico, l’ultimo amico che mi fosse rimasto, potesse vivere.

(Ora vi dico un segreto, sì? Una cosa tra me e voi. Non sono poi tanto altruista. Ci sono giorni che preferirei fosse toccata a Cloud. Chiunque dica che non l’avrebbe mai pensato mente.

Me lo ripeto in quei giorni in cui penso a Cloud, penso a tutta la sofferenza che Sephiroth gli ha inflitto, a tutti i cerchi di fuoco in cui ha dovuto saltare, a quanto fosse dilaniato. Ci sono persino giorni in cui potrei ammettere che la ragione è semplicemente che volevo tanto essere io a uccidere Sephiroth – me lo meritavo, lui se lo meritava – o che avrei preferito morire sulla lama di un SOLDIER. E ci sarebbe un margine di verità nelle mie parole. Tutte le migliori bugie ce l’hanno.

Ma non dirò mai a nessuno che ci sono momenti in cui mi viene da dire, avrebbe dovuto succedere a me, io avrei dovuto vivere. Io ero il SOLDIER; io ero la forza, la spada, lo scudo. Io avrei dovuto vivere.

Però non è andata così, io sono qui e lui è lì, e non gli chiedo, perché la tua vita era più degna di essere preservata della mia? e non mi domando quanto tempo in più avrei vissuto se l’avessi abbandonato, perché non riuscirei a sopportare la risposta.)

Così mentre Cloud viveva vivevo anch’io, seguendo i suoi passi come una seconda ombra (O forse una terza o una quarta. Ho il sospetto che ci collezioni, sapete. Di certo non fa nulla per sbarazzarsi di noi) e osservandolo. Osservandolo mentre con i sensi di colpa ergeva uno spazio dentro di sé in cui farmi stare, un vuoto così ampio e profondo che avrebbe potuto entrarci chiunque tranne il mio migliore amico. Sapevo che stava scavando troppo; che le pareti erano sottili e si sarebbero crepate e sbriciolate, che avrebbero franato, che il soffitto sarebbe piombato sulla sua povera testa confusa, ma volevo vivere – la vita significava ancora qualcosa per me (avevo ventitré anni, maledizione, e nessuno, qualunque cazzo di lavoro faccia, vuole morire a ventitré anni) – e allora restai, e gli permisi di nascondersi dietro di me come un bambino che non conoscevo.

Il mio amico non era altro che un vuoto, una cavità in cui spingeva ricordi disperati, i pensieri degli altri e vite diverse, come se Cloud Strife non fosse abbastanza. (Chi cazzo gli ha messo in testa questa cosa? Pensava che sarei morto per il primo che passava?

—Il sacrificio porta con sé fin troppi svantaggi, commenta Sephiroth con voce strascicata in una perfetta imitazione di Reno. —Ed è per questo che faccio in modo che siano gli altri a sacrificarsi per me. Posso tollerare le loro morti molto meglio di quanto loro reagirebbero alla mia.)

Lo vidi sfasciarsi e capii che alla fine non ne era valsa la pena. Sarebbe stato meglio per lui se fosse morto. (Ma ogni volta che viene da noi lo rispediamo indietro – scusa amico, non è ancora la tua ora, non è mai la tua ora)

Sarebbe stato meglio per lui se fosse morto, ma Cloud Strife era – è – mio amico. Gli amici non si piantano mai in asso. Mai. Non amici come noi, che abbiamo vissuto l’uno per l’altro nei giorni in cui la morte sarebbe stata il miglior dono che potessimo ricevere. Io non mi trovo qui perché devo; sono qui perché l’ho scelto. Perché certe cose mi fanno pensare, ehi, forse può farcela. Forse c’è un motivo se il mio compare è sopravvissuto; non è per via di una bizza capricciosa del fato che lui sia l’unico in grado di sconfiggere Seph.

Metà delle volte, capisco che sto mentendo.

Ma l’altra metà… Vedo il volto di Sephiroth, lo vedo entrare nei sogni di Cloud e allora so. Vedo il suo sorriso e vedo il segno della catena attorno al suo braccio e so che lui sa.

(Tu, non ha mai detto. Tu e nessun altro. Se io fossi ancora vivo, il privilegio sarebbe mio?)



Quando io e Sephiroth ci rincontrammo in questo posto, cercai di strangolarlo. Non la cosa più furba da fare nell’aldilà all’uomo che aveva provato ad ammazzarmi l’ultima volta che ci eravamo visti. Ma che altro potevo fare? Lui era la ragione per cui al mio mondo si erano sfaldate le giunture, era la ragione per cui Cloud aveva passato cinque anni della sua vita tra grida e deliri, la ragione per cui io ero morto su un dirupo fuori Midgar; cosa credevate che avrei fatto, che l’avrei abbracciato?

In ogni caso, dopo fu quasi come ai vecchi tempi. Quasi. Lui non era morto e non apparteneva a quel luogo, e non c’era modo di controllare quando o dove sarebbe apparso. Ma a quei tempi, diviso in due, quando c’era, era Sephiroth.

Nelle sue rare visite, gareggiavamo silenziosamente per l’opportunità di parlare con Cloud, sperando entrambi fino all’ultimo che toccasse a uno dei due sorprenderlo in quei brevi periodi di lucidità in cui poteva sentirci e rispondere. Io ero avvantaggiato – dopotutto era dietro di me che si nascondeva, e senza saperlo pensava a me a ogni gesto. Sephiroth non poteva mai restare per molto, ed era pacato e conciso ogni volta che riusciva a rimanere abbastanza tempo da poter parlare.

Nel complesso, lo vidi all’incirca due ore durante la “Crisi” e imparai più cose allora su di lui che durante tutta la nostra amicizia.

Era più fermo, determinato e costante possibile, conduceva Cloud meglio che poteva lungo le strade migliori senza che lui se ne accorgesse, come le migliori guide. Era la sua maniera di scontare i suoi debiti, mi sipegò Aeris quando arrivò qui, soddisfatta, come se l’enorme pezzo di un puzzle che stava cercando di completare da anni si fosse appena incastrato al suo posto.

Riusciva addirittura a prendere il controllo, certe volte, e sapeva cosa andava fatto. Si auto-influenzò, obbligò lo zimbello di se stesso ad ascoltare e a reagire a ciò che ordinava, in modo che quello – che non era esattamente lui… capite cosa intendo, sì? La… l’immagine, l’imitazione da quattro soldi che era rimasta di lui – finisse per spogliare Cloud della sua armatura, sbucciando strati di memoria per arrivare a quel ragazzo di sedici anni che l’aveva ucciso e che non aveva conosciuto la lama di un bisturi; strattonava Cloud verso la chiave dell’enigma cercando al tempo stesso di ucciderlo.

Perfer et obdura; dolor hic tibi proderit olim. Poli, poli, di umbuendo, ricordo che una volta mormorò all’orecchio di Cloud, tessendogli uno scudo con parole antiche. Dovetti chiedere a Aeris il loro significato.

Pazienta e sopporta; un giorno questo dolore ti sarà utile. Lentamente, lentamente, ci arriveremo.

Il problema era che togliergli la sua protezione significò un periodo molto lungo (per una persona viva, intendo) durante il quale Cloud rimase con noi e si rifiutò di tornare indietro, impotente e confuso.

Bisogna essere feriti per guarire, mi spiegò Aeris quando lo maledissi per la condizione di Cloud, usando appellativi che dubito Highwind stesso abbia mai sentito.

—Aiutalo, scoppiai alla fine. —Tu l’hai distrutto, e ora tu lo aggiusti, cazzo, maledizione a te! (Nessuno conoscerà mai la disperazione come me in quel momento.) —Ti prego, Seph, fallo per me.

Il cipiglio sul suo viso esprimeva con molta chiarezza ciò per cui non avrebbe sprecato un respiro: cosa vuoi che m’importi di te, sei stato una rottura di coglioni dall’istante che ti ho incontrato.

—Bene, allora fallo per Cloud.

Lentamente, lentamente, ci arriveremo.

Era la tattica sbagliata, sottintendere che gliene fregasse qualcosa. —Perché dovrebbe importarmi qualcosa di un piccolo, patetico essere umano, disse, canzonando se stesso, la voce talmente roca perché era tanto che non la usava che era impossibile accorgersi delle normali sfumature del suo umorismo asciutto e a stento discernibile.

—Forse perché sei ossessionato da quel piccolo, patetico essere umano da cinque anni, insistetti, impaziente. —So che eri nel laboratorio, aggiunsi.

Gli angoli della sua bocca si tesero dal disappunto; inarcò sdegnoso un sopracciglio inquisitorio.

—Per le corna di Ifrit, borbottai. —Pensavi seriamente che non avrei capito che stava succedendo qualcosa quando il mio migliore amico si è messo a parlare con l’aria rarefatta dandole il tuo nome?

Fece una smorfia quasi contrita prima di incrociare le braccia e mettersi comodo. (—È stata colpa mia, mi spiegò flemmatico l’ultima volta che lo vidi. —Nessuno avrebbe dovuto finire lì dentro, non tu e soprattutto non lui, che non era nemmeno – era solo un fante. Era giusto così, capisci? Se fossi riuscito a dargli qualcosa a cui aggrapparsi, per spingerlo a vivere, fosse stato pure soltanto odio, era giusto. Era l’unico modo per poter anche solo cominciare a chiedere perdono.)

—Fallo per te, suggerì gentilmente Aeris. Ci voltammo entrambi verso di lei. Lui aprì la bocca, se per risponderle o per chiederle chiarimenti non saprei, perché poi sparì in un batter d’occhio.

—Merda, sbottai. —Dev’esserci un modo per farlo rimanere qui per più di cinque minuti.

—Solo la morte vera, replicò Aeris, intrecciando le mani. —E forse nemmeno quella. Non preoccuparti, Zack. Se non può farlo lui, possiamo noi.

—Stronzate, imprecai, nascondendo la testa tra le mani.

—Possiamo, ripeté lei risolutamente, gli occhi che ardevano. —E a Sephiroth è rimasto abbastanza orgoglio da non poter sopportare la vista dell’immagine di se stesso che commette tali atrocità.

—Sei una tale manipolatrice, sospirai con un ghigno stanco. —Per forza che i Turk ti volevano.

Lei sorrise raggiante in risposta, e fece uno di quei suoi bellissimi movimenti ondeggianti che mi facevano sempre venir voglia di baciarla fino a che l’aria non ci avesse ricordato di essere una necessità, e non un’opzione. —Starà bene, mi garantì fermamente.

—Quello che non ti uccide ti fortifica, eh?

—Già già. Mi sorrise dolcemente, e mi dimenticai completamente di Cloud per qualche ora.



Pazienta e sopporta; un giorno questo dolore ti sarà utile. Lentamente, lentamente, ci arriveremo.

Questo siamo. Proprio qui. Non siamo un gioco.







NdA: Sconclusionata, inutile e confusa. Senza contare che rubacchia allegramente idee da ogni dove. Se siete arrivati fin qui, mi inchino a voi e vi offro dei dolci.

NdT: … Non statela a sentire, giuro che alla fine si capisce. E dà pure un senso ad AC, volendo ;D
Spero vi piaccia questo Zack un po’ tanto amareggiato e un po’ meno cucciolotto. Io l’ho adorato sin dal primo istante. Ovviamente. xD
Come i fan più accaniti sicuramente noteranno, questa storia è piena zeppa di frasi prese dal gioco. In mancanza di una traduzione ufficiale ho dovuto proporre la mia, ma spero che il collegamento sia comunque abbastanza immediato. Quelle più oscure cercherò di segnalarle quando possibile (ovvero quando me ne accorgo io stessa xD).
A presto con il prossimo (primo?) capitolo. In cui succede qualcosa. (Maybe.)

PS: sto giocando con i codici e l’impaginazione. E avete notato che ho cambiato virgolette dei dialoghi? I KNOW RIGHT? Danno un taglio diverso anche se sono solo e soltanto per i dialoghi, mi ci devo ancora abituare ;_; Diciamo che ho fatto un tentativo per questa fic, poi si vedrà.
   
 
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