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Autore: BigMistake    11/01/2011    1 recensioni
Dal prologo:«Sapete Colas, mia madre mi diceva sempre di aver paura dei vivi non dei morti!» le labbra truccate si distorsero in un sorriso sadico. «Non temo i fantasmi!»
Ispirato al musical cinematografico del 2004: Mentre si consuma il dramma del Fantasma dell'Opera la Parigi del 1870 sta cambiando. Gli ideali della Rivoluzione sembrano essersi dispersi, i ceti medi vanno via via scomparendo mentre la borghesia ed i nobili si preoccupano solo delle proprie tasche. Gli assetti della società mutano in maniera drastica, vecchie fazioni amiche si trovano su fronti diammetralmente opposti. La Guerra incombe sulla Francia con la sua scia di morti innocenti e corpi straziati, viziando il giudizio del popolo sull'Imperatore e decretandone il declino. Nell'ombra i vecchi giochi di potere e politica continuano a muovere i fili dei propri burattini. Questo è lo scenario mentre l'Opera Garnier è al rogo. Qualcuno osserva la scena, attende risposte da tempo. Ci sono mostri mascherati da Angeli, Angeli caduti che cercano di rialzarsi, ali strappate... Ed al Fantasma dell'Opera non resterà che adeguarsi al mondo che l'aveva rifiutato ...
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christine Daaé, Erik/The Phantom, Madame Giry, Nuovo personaggio, Raoul De Chagny
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lumière Noire - Deux anges tombés'
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CHAPITRE DOUZE: Etonner, provoquer. Faire silence.

   

Chiunque parlasse in quel momento con sé portava notizie nefande dal mondo politico: il conflitto che imperversava a ridosso della Francia stava dando esiti del tutto inauspicabili. Raccontavano di una triste Signora, la Francia abbandonata e sola in una guerra in cui le altre potenze europee non avevano alcuna intenzione d’intingere le proprie mani, nemmeno i cugini Italiani, troppo occupati a unificare piccole porzioni di un Paese costruito a tasselli. L’Imperatore aveva agito troppo precocemente, fiduciando nelle vecchie amicizie ed alleanza date per certe anche in quell'occasione guidando invece il suo impero all'imminente suicidio diplomatico. Assieme ad esso le sconfitte si erano succedute ad una ad una, cadendo come foglie morte sui campi di battaglia. Le truppe erano quasi allo stremo ed i confini minacciati dalla stessa confusione che albergava nella corte mentre il popolo dimostrava la sua esasperazione, con i suoi giovani morti inutilmente al fronte come stendardo.

Napoleone III non aveva ereditato una nazione forte dai suoi illustri natali ma anche un visionario nazionalismo e una cieca voglia di rafforzare il suo di potere, ideologia troppo simile più celebre zio ed invece d'imparare dai suoi errori finì per compirne altri del tutto simili.

L’impero crollava, la mal gestione regnava sovrana facendo scempio degli ideali nati con Rivoluzione del 1798. Gli ideali di cui i francesi andavano orgogliosi, gli ideali  che avevano da sempre rappresentato la fierezza di un popolo pagata più volte con il sangue ottenendo la giusta libertà, gli ideali che aveva letteralmente decapitato l’oppressione e che stavano per essere del tutto calpestati ed ignorati, si avviavano alla riconquista del loro posto nel cuore del popolo.

E la Commune di Parigi era l’ultimo baluardo di un nuovo sentimento chiamato Patria.

Ma a Philippe di tutti i discorsi appena affrontati, era arrivato appena il concetto base a cui aveva il più delle volte annuito. Non gli interessava se non altro che portare a conclusione il continuo ciarlare di quell’uomo, o meglio, dell’effige imperiale che teneva orgogliosamente appuntata sul petto. Il suo pensiero, il suo corpo persino, era tutto proiettato ad altro, ai suoi progetti che rischiavano di sfumare in quel raro pomeriggio soleggiato.

Constance lo stava sicuramente aspettando, puntuale come suo solito. Sicuramente lo avrebbe accolto con uno dei suoi sorrisi raggianti capaci di scaldarlo, gli avrebbe donato un bacio leggerissimo e detto di non preoccuparsi.

Comprensiva.

Era lui a non comprendere perché non avesse ancora terminato quell’incontro sterile e privo ormai di qualsiasi significato. Non lo ascoltava nemmeno più, perché la sua mente era rivolta solo ed esclusivamente al dolce bacio che si erano scambiati sotto lo sguardo indiscreto di una luna birichina. Pallida aveva sorriso all’incontro delicato delle loro labbra, stavolta non interrotto da nessuno. Un piccolo e leggerissimo sfioramento di cui aveva avuto onore di approfondire entro i limiti della decenza.

«Stiamo affondando conte e ci siamo tutti nella barca, anche chi è fuori da questioni politiche. I prussiani sembrano siano quasi alle porte di Parigi e la guerra diventa sempre più … un suicidio …» guardava nel vuoto il conte, sentiva ancora i polpastrelli accarezzare le gote arrossate e calde, il respiro di lei sospendersi nel suo, ed il suo corpo tremare. L’amore rende un uomo troppo vulnerabile. «Avete sentito della sconfitta a Gravelotte?» per qualche istante il suo interlocutore attese una risposta che non arrivò. Pensava che fosse in sovrappensiero per la situazione politica disastrosa, invece teneva i suoi occhi di ghiaccio puntati in avanti persi in chissà quali altre preoccupazioni. «Conte? State ascoltando?»

Vi brucia la poltrona che vi sorregge conte de Chagny?

Il conte non ascoltava, ma c’erano altre orecchie pronte a captare quelle informazioni.

Madamoiselle, il conte la prega di attendere che finisca con il suo ospite. Intanto se volete accomodarvi …

Si era scoperta piacevolmente sorpresa di dover aspettare, come se le fosse stata concessa una pausa di riflessione.

No, non una pausa. Una possibilità.

Niente sarà vanificato.

Basta saper sfruttare le giuste opportunità.

Camminava indisturbata lungo la grande scalinata che conduceva al piano nobile, indifferente come altri giorni, altre mille volte in cui si era avventurata nei labirintici corridoi. Non era inusuale vedere Constance aggirarsi per la ricca Villa, cosa a cui i domestici non badavano se non per dimostrare il giusto rispetto ad un ospite del conte. Un ospite di cui lo stesso Philippe aveva raccomandato di trattare anche con più riguardo rispetto agl’altri. Un ospite che lui avrebbe voluto rendere molto più che un occupante casuale, di passaggio.

Ma Malice, no,  anzi, Lucia avrebbe soltanto voluto concludere.

Divisa.

Divisa fra il ghiaccio ed il fuoco, divisa fra la realtà e la finzione a cui era sempre appartenuta, divisa.

Constance iniziava ad essere troppo ridondante, era divenuto un fastidioso modo di fingere quello d’impersonarla.

Noiosa.

Alla noia non riusciva ad abituarsi, la gabbia che condannava le donne a passatempi ancora più tediosi della noia stessa. Era a causa della noia che spesso veniva punita da bambina, frustrate date dal sottile giunco che serviva a ricordarle quale fosse il suo posto di figlia devota e ubbidiente come i dettami della sua famiglia imponevano.

Doveva seguire l’esempio di sua sorella, di sua madre.

Sua madre.

Colei la quale si nascondeva dietro stanze, che verificava ogni volta quanto potessero essere sottili le mura in pietra della loro antica casa, quanto nulla potessero fare per attutire i singhiozzi soffocati della sua bambina. Singhiozzi che divennero in seguito un silenzio assordante, il silenzio della collera, dell’odio nascente, della rabbia, rotto solo dal rumore sottile di un fischio vibrato dai colpi infertole.

Lucia era una bambina caparbia, intelligente in maniera imbarazzante.

Diversa in maniera totale dalla più remissiva Beatrice. 

Si arrampicava sugl’alberi, correva in giardino, giocava con i figli dei domestici fossero suoi pari distruggendo abiti, illividendo e lacerando la sua pelle. Un comportamento tanto sconsiderato da ritenerla un’avventata che non aveva paura di nulla, nemmeno per la sua vita.

Lottava e combatteva, in una muta guerra che aveva iniziato in tenera età con il suo genitore. Bastarono infatti poche di quelle lezioni per mettersi contro suo padre volontariamente, solo per cercare di stancarlo nella speranza che vedendo il suo sangue rinunciasse ad altro.

Non era poi così lontano dalla verità il vecchio Della Loggia, il timor di Dio inflitto sulla schiena solo per non rischiare di deturpare il suo più cospicuo investimento. Era divenuta una delle sue missioni.

Devi imparare il rispetto Lucia.

Il peggior pazzo è quello che si maschera dietro la buonafede.

Imparerò, padre.

Imparò presto invece a sopportare il dolore, ad ogni colpo più forte, ad ogni cinghiata quando il giunco diverrà troppo esile.

Lucia non si piegava, rimaneva in piedi ed attendeva il colpo.

Una, due, dieci volte a seconda della gravità del suo comportamento.

Il padre, intransigente, pretendeva da lei la giusta indulgenza, impartita con pene corporali di cui anche lui ne faceva largo uso. Lucia sapeva bene cosa nascondeva la gamba dei suoi pantaloni, la cinghia uncinata che mangiava la carne della coscia con costanza, la stessa che aveva obbligato ad indossare a Beatrice per i suoi di peccati.

Questo le faceva sbiancare le nocche.

Se solo Dio glielo avesse concesso, probabilmente, quel cilicio sarebbe stato stretto oggetto di particolari attenzioni, atte a renderlo anche più innocuo.

Da quella notte non era mai riuscita a frenare la cospicua scia di pensieri che coinvolgevano il suo passato. Quella notte in cui la porta che lo teneva ermeticamente isolato era stata scardinata e divelta, eruttando così la marea lavica di supplizi e torture ed ora si ritrovava in balia dell’onda di fuoco che si riversava sul fianco della montagna, inclinando case, costruzioni e coprendo di cenere i visi della gente pietrificati per sempre nella loro quotidianità.

Imparerò ad odiare e a sopportare il dolore.

Non ho mai dimenticato.

Rivedeva in ogni luogo i visi protagonisti dell'ormai ininterrotto fiume di ricordi.

 Il volto di una madre complice con il suo silenzio, il volto di un padre padrone che non aveva insegnato loro ad amare, il volto mesto di sua sorella.

Li ritrovava sempre, costantemente, contribuendo alla sua voglia di scappare definitivamente.

Sempre vivi.

Sempre presenti: quando Madame Bonnet l’aiutava a prepararsi stringendole il corsetto fino a farla spirare, quando Colas cercava d’impartirle ordini ormai totalmente ignorati, mentre osservava la candida facciata neoclassica della villa de Chagny.

E lei che aveva girato il mondo, conosciuto culture, imparato lingue, imparato ad essere la plurisfaccettatura di un ventaglio di persone ed identità, non sarebbe sopravvissuta ad una vita anche solo simile. Magari divenire come una di quelle statue inespressive che si ergevano sulla balaustra della grande terrazza.

O come sua madre, spettro di sé stessa.

Sposata ad un uomo che odiava.

Sposata ad un uomo che si era macchiato dell'eccidio delle sue figlie, senza che lei potesse ribellarsi.

Vivevano in casa come separati, con mansioni che si svolgevano ai lati opposti della propria abitazione e con camere da letto diverse. Fra di loro c’era un contratto e basta.

Piuttosto che ad un vita simile avrebbe vissuto sola, in fondo era ciò che meritava.

Lo aveva decretato suo padre, lo aveva decretato il suo spirito ribelle alle convinzioni che l’avrebbero vista una donna sposata alla sua età, lo aveva decretato Dio con la sterilità del suo ventre in cui, in tanti anni di letti ed effimeri amori, non vi era mai stato accolto il germoglio di una nuova vita.

Non era tempo di ripensamenti. Non era il momento di ricordare la più grave colpa del suo corpo impuro.

Ora doveva limitarsi ad ascoltare, come quel giorno in cui iniziò il suo lento declino.

Il secondo piano della Villa era quasi totalmente occupato da tre stanze limitrofe fra loro. Ognuna di esse accoglieva scrivanie, divani, librerie. Una infatti era la cospicua biblioteca in cui Constance era libera di entrare, dove troneggiava imperioso l’immenso possedimento di scritti che il conte custodiva fra quegli scaffali.

Sembravano variopinte pietre preziose, incastonate tra il legno scuro cesellato come un gioiello. Se si passava un dito nemmeno un granello di polvere avrebbe macchiato il bianco guanto indossato, non avendo il tempo di depositarsi.

Non che il conte fosse un amante di letteratura, ma l’ostentare la propria cultura lo rendeva superiore agl’altri.

Una cura persino eccessiva, maniacale, che Malice apprezzava alquanto da avida lettrice quale fosse. Una mente golosa come la definiva spesso il suo giovane precettore, recettiva e di larghe vedute. In realtà l'unico artefice della sua curiosità era sempre stato lui, il suo maestro che le aveva insegnato a pensare piuttosto che a ragionare per dogmi.

L'odore della carta stampata aveva come un effetto calmante, un anestetico per la sua ormai straripante rabbia ed i suoi sentimenti trabboccanti, il tutto alleggerito da un sospiro rasserenato quando riuscì ad enetrare nella biblioteca che sentiva quasi totalmente sua.

La lettura. L'unica cosa che l'aveva mai appassionata, l'unica a cui mai avrebbe rinunciato.

Ma il tempo dei sollazzi era terminato da una richiesta, troppo esplicita. La Sûreté iniziava a scalpitare, voleva il conte servito su di un piatto d'argento con un contorno a cui lei tentava di non fissarsi. Lo avrebbe avuto, come sempre d'altronde, anche se c'era quella strana sensazione a governarle l'anima, un'intuizione che pungolava il suo sempre controllato raziocinio.

Basta.

Aveva lavorato per giungere fino a quel punto, aveva sudato per prendersi una fiducia totalmente immeritata. Aveva oltrepassato confini, accettato che un uomo la scoprisse per incastrare Philippe e trovarsi indisturbata ora, in quella casa, in quella camera dove tra quei maestosi scaffali ancorati al muro, vi era un prezioso remoto ingegno.

La piccola chiavica si trovava in un punto preciso, dietro la fila di dorsi che si ergevano eretti come tanti soldatini impettiti, si facevano forza del loro reggimento di copertine rigide intessute nelle più disparate forme e colori. I caratteri dorati, i piccoli ornamenti a segnare cornici e titoli delle più eterogenee lingue attutivano quella che un tempo era una grata posizionata ad un quarto della muratura partendo dal basso. Un vecchio modo per ovviare ad una areazione altrimenti troppo occlusiva in una dimora vecchia di decenni. Le pareti antiche non mascheravano quello che un tempo era un errore costruttivo e divenuto totalmente inutile dopo le varie ristrutturazioni attraverso il passaggio del secolo e il surclasso della moda architettonica.

Bucava la parete permettendo il passaggio dell’aria, probabilmente quando quella stessa stanza non esisteva, creando un clima meno torrido in estate. L’aveva notata in uno dei vecchi progetti dove i suoi occhi avevano passato intere notti a stancarsi, fin quando non dimostrava a Colas di aver imparato ogni singolo angolo, ogni singolo cambiamento, mentre bendata ripeteva ad alta voce la disposizione della Villa.

Al centro della stanza studiò approfonditamente ogni parete osservando la disposizione rispetto a finestre e strutture, proiettò nella sua mente ogni sezione, ogni scritto, ogni progetto visionato. Spogliò quella stanza del futile arredamento, contando i passi dalla porta alla finestra, fino agl'altri punti di riferimento. Le quattro mura attendevano solo il suo responso e fu nella terza scaffalatura, al terzo ripiano, al terzo libro disturbato del suo riposo che trovò un piccolo angolo in metallo grigio.

Scostò velocemente gli altri tomi adagiandoli rispettosamente su di una delle scrivanie e presto lo scaffale venne reso totalmente libero.

La grata era coperta da una piccola porticina anch’essa in metallo, sotto un sottile strato di polvere. Un piccolo chiavistello ne assicurava la chiusura e una macchia di ruggine iniziava il suo lento processo di logoramento proprio all’attaccatura del cardine. Probabilmente non veniva oleata da un’infinità di tempo.

Maledetta sfortuna!

Spostò delicatamente il chiavistello cercando di non fare eccessivamente rumore e tentò di aprire la porticina senza risultato. L’ossidazione era molto più radicata del previsto ed opponeva un'altera resistenza contro persino alla testardaggine di una persona come Malice.

Le era rimasta l’unica soluzione, pregando Dio che nessuno dei domestici o il conte stesso la cogliesse in fallo a causa del rumore.

Le serviva solo un martello improvvisato, un oggetto qualsiasi che non esagerasse con il chiasso.

Un fermacarte ad esempio.

Un fermacarte coperto dalla sciarpa che portava al collo per attutire il suono.

Un fermacarte che andò a cozzare contro il kogai sfilato dall’intricata serie di trecce che Pilar le aveva gentilmente acconciato.

Un fermacarte ed un colpo.

Un colpo preciso e ben assestato.

Un altro.

Un altro ancora e la macchia di ruggine lasciò capitolare la polvere sotto di essa.

Un ultimo colpo ed il chiodo all’interno del cardine divenne un inutile inezia.

Le sue mani accolsero la caduta della porticina come un materasso di piume e subito dopo si impegnò a sistemare i libri in modo che nessuno si accorgesse del suo operato e la porticina sotto il tappeto che ricopriva quella stessa scrivania dove vi erano stati adagiati i libri.

 

Conte … che n … vi si…ete mai tanto interes … politica …

Le parole si facevano più chiare appena era tornato a regnare il silenzio, ma erano pur sempre suoni metallici e lontani attutiti dalla stessa porticina ancorata sicuramente dall'altro capo dell'apertura.

Sembra che si stia and … do incontro ad … Riv … zione del 1789. La sto … lle rivol … popolari i pri … egi nobiliari non hanno valore … la testa fi … ce in un c … to di vimini …

Bocconi di un discorso, nulla di definito in maniera assoluta, frasi mangiate dall’eco e dalla sporcizia accumulata nel piccolo canale. Persino gli uccelli campagnoli, che il più delle volte provavano la loro ugola, sembravano aver smesso di cantare per cercare di udire qualcosa in più dal soliloquio dell’ospite il più vissuto come un brusio in cui la voce di Philippe interveniva quasi distrattamente.

Poi, ad un tratto, si concluse con un fruscio, come di carta sfregata tra le mani. Il ticchettio di legno contro legno e qualcosa di argentino che scattava.

Conse … te quest…, è di vitale … portanza.

Un meccanismo, lo stesso rumore di una scatola cinese che cela i segreti che tanto bramava di conoscere.

Ed i discorsi ripresero senza un vero filo logico.

Malice riuscì a capire abbastanza però per sapere come la situazione di Parigi fosse mutata ultimamente.

Molto più di quello che lei credesse.

Molto più di quello che lei sapesse o che le facessero sapere.

Il primo seme del dubbio ha sempre la connotazione di un veloce cambio della brezza, il voltarsi del vento.

«Avanti … non tenevi altro … ditemi chi siete …» si trovò a sussurrare troppo assorta per avvertire l’aria cambiare di direzione e la corrente mutare.

Il lieve tonfo sordo della porta, la serratura che era scattata e qualcuno l’aveva ascoltata parlare con sé stessa.

«Madamoiselle Saint – Simon, cosa ci fate qui?». Una voce giovane, un’intimazione quasi con la sua domanda.

Voltati e sorridi, Constance. Ora!

Si voltò.

Sorrise.

Raoul se stava in piedi pronto ad uscire evidentemente, con la sua marsina allacciata e i guanti incalzati sulle mani.

Solo il giusto sangue freddo, la giusta certezza nelle giuste parole.

Ed il libro che ancora teneva tra le mani le sembrò la Divina Provvidenza che imponeva la sua mano benedetta sopra la sua testa.

«Buongiorno visconte, volevo ingannare il tempo nell'attesa di vostro fratello con una lettura. Spero non vi dispiaccia …»

Raoul si mosse, qualche passo per permettersi di osservarla meglio da sotto quelle ciglia leggermente socchiuse. La fissava insistentemente, guardandole fermo gli occhi, come se cercasse nello specchio dell'anima qualcosa al di là delle sue infingarde parole. Non le piaceva affatto come la stava studiando e come si muoveva, sembrava un serpente che viscido si spostava nello spazio stringato tra due tronchi.

 Era vicinissimo. Quasi poteva sentire il suo fiato sul collo.

Ed aveva come l'impressione che vi fosse scritto tutto sul suo volto. Sentiva la penna muoversi sulla pelle tirata in un sorriso falso del viso, incidere la parola colpevole, gridando apertamente che era una falsa ed una bugiarda.

Le vie di fuga sembrarono scomparire, le pareti chiudersi improvvisamente su di loro, oltre le loro teste.

Raoul continuava a guardarla e lei a sentirsi a disagio, senza però dimostrarlo ormai abituata a sentirsi alle strette. Almeno tentava a mantenere un'espressione neutra, o quello che ne era un abbozzo, concedendosi solo la freddezza di agire tempestivamente nel caso si fosse accorto del suo trucco per ascoltare i discorsi del conte.

Una fiera braccata agisce d’istinto. Esclude la sua mente e diventa un tutt’uno con i suoi artigli o le sue zanne.

Sulla scrivania il suo Kogai.

Sul suo polpaccio ancorato il suo Tanto.

Le pareti le concessero respiro.

Non era in pericolo se aveva con sé i suoi di artigli.

Raoul continuò ad avvicinarsi, cauto, pacato, come se sotto i suoi piedi vi fosse un letto di gusci d’uova e lui tentasse di non romperli. Assottigliò le palpebre quando i suoi occhi chiari si spostarono in basso, tra le sue mani, che strinsero involontariamente la copertina ruvida che vi era ancora racchiusa.

«Non posso che essere contento di qualcuno che sfrutta questa biblioteca, in effetti non sono un lettore accanito. Però ... permettete, madamoiselle?» ancora titubante la docile Constance, gli porse il libro.

Raoul lo prese sfiorando inavvertitamente le mani fredde della donna.

Lei spostò il piede accostandosi alla scrivania.

Il visconte osservava meditabondo il libro.

La mano scivolò sul tappeto, sul piano caldo del legno e tremò.

Tremò.

Tremò a causa della tensione nei muscoli, pronti allo scatto se si fosse accorto della grata forzata alle sue spalle, se si fosse insospettito anche di poco. 

«I dolori del giovane Werther …»

Una lieve smorfia, di stizza, disgusto. Non era evidentemente una lettura di suo gusto. Non era sicura che fosse solo quel motivo e quello sguardo, quel modo di analizzarla continuo era divenuta la più ardua fonte di disagio.

Un’antipatia a pelle.

«Non è una lettura di vostro gradimento, visconte?» chiese quasi soddisfatta che il fato avesse agito proponendogli quel libro.

Ricordava di averlo letto, più di una volta ed aveva amato il protagonista fin da principio.

Colto, raffinato, incapace di apporsi etichette morali.

Un artista, uno scrittore, come in un mondo diverso lei avrebbe provato a diventare.

Un uomo che visse le sue pene d’amore arrivando alla sua completa distruzione.            

Un uomo per sempre deluso, affranto, dall’insicurezza della sua amata.

Un uomo totale, incapace di accontentarsi di una parte del suo cuore.

Erik.

«Sinceramente non saprei decidermi …» il suo sguardo  vagò altresì fra i vari titoli alle spalle della donna come per fuggire da quello appena letto. Si soffermò un attimo troppo rapido perché se ne accorgesse anche Malice.

Così rapido che non destò nemmeno la sua preoccupazione.

Le riconsegnò il libro, increspando leggermente gli angoli delle labbra in un lieve sorriso triste.

La conferma. Non vi era bisogno di altro.

Entrambi vedevano la somiglianza, troppo palese anche per un ragazzo così inesperto da lasciarsi travolgere ancor più nel turbinio dei sentimenti.

Lui un ragazzo, solo un ragazzo molto giovane a cui sarebbe bastato poco per credere nella sua buonafede.

Almeno così pensava Malice.

«Ora che ci penso, visto che mio fratello ne avrà ancora per un po’, perché non fate compagnia con Christine? Sarà felicissima di conoscervi …»

Si pentì immediatamente al fiotto di bile che le si riversò in gola, amaro e crudele accompagnava quel nome ogni volta che ne sentiva anche solo il principio. Non era nulla paragonato al ricordo che possedeva, sembrava quasi atonale il visconte in confronto all’armonia che creava la voce di Erik nel suo modo devoto di parlarne.

Annuì inclinando di poco la testa, accogliendo il libro di nuovo tra le sue mani e nascondendo il kogai nella manica del vestito.

Si ancorò al braccio di Raoul offertole per accompagnarla. E si ritrovò a condividere con lui il breve percorso fino alla veranda del piano inferiore.

Parlarono di frivolezze, parlarono di come Raoul era grato a lei per aver convinto suo fratello ad ospitare Christine.

Parlarono di lei, lei e ancora lei.

E la nausea tornò prepotente nel suo stomaco forzato.

«Vi unirete a noi, visconte?» chiese fermandosi davanti una doppia porta ampia di vetro lavorato, cercando in quel modo di deviare la sua stessa rabbia.

L’uno di fronte all’altra di nuovo ma stavolta sembrava essere più tranquillo il visconte in sua compagnia.

«Spero mi scusiate, ma ero in procinto di uscire e non posso indugiare oltre. Devo tornare a Parigi, a quanto pare abbiamo un acquirente per il teatro …»

Era stato un colpo, vile, come ingoiare vetro.

Non riusciva proprio a scindere lui da tutto il resto. E per una volta si sentiva talmente coinvolta da non poter arginare ciò che stava realmente provando.

Rabbia.

Il teatro dell’Opera, il suo regno.

Una collera incolsuta che regnava sovrana nel suo cuore al solo pensiero che qualcuno potesse calpestare ulteriormente le macerie di quello che era stato il suo impero, a sapere di come si spartissero qualcosa che non era appartenuta a nessuno di quei burattini della società.

Lei stessa ne era un burattino.

La sua fortuna depositata in più conti era basata sui compensi ricavati dagli espropri e dai beni confiscati delle persone che assicurava alla giustizia. E avrebbe spartito con Colas altro denaro alla fine di tutto, denaro che non le apparteneva e che non avevano diritto di appropriarsene.

Ipocrita!

E poi un dubbio, doloroso che le balenò in testa squarciando come un fulmine in cielo.

«Sapete chi sia l’acquirente?» la domanda le uscì involontariamente, una curiosità sputata, incapace a trattenersi. La voce barcollò, la gola emise un lieve gemito strozzato sull’ultima parola pronunciata guadagnandosi di nuovo lo sguardo sospettoso del visconte, il quale si limitò a scuotere il capo in segno di diniego.

Negli occhi della donna sembrò passare un’infinità di pensieri contemporaneamente.

Troppe domande a cui rispondere, troppe. Sapeva anche che di Colas non poteva fidarsi, così come delle sue risposte aleatorie.

Non poteva fidarsi di nessuno tra le file dei suoi presunti colleghi, quelli che si vantavano di essere la sua famiglia.

Qualcuno voleva acquistare il Teatro dell’Opera ridotto in cenere.

Perché ora? Perché quando incalzavano le richieste della Sûreté di concludere il prima possibile la faccenda?

Che avessero già iniziato?

C’era qualcosa di sbagliato, di nuovo quella strana sensazione di essere caduta in errore mentre il visconte bussò alla porta, spazzando con quel gesto una serie d'incertezze che presto sarebbero riaffiorate.

Rispose una voce cristallina, delicata persino nel invitare chiunque vi fosse.

Una voce che provocò un brivido lungo la schiena della donna ed un fremito delle labbra.

E lei, che aveva passato un intera notte a chiedersi cosa una bambina potesse dare ad un uomo compiuto, ebbe la sua risposta.

Aveva semplicemente detto avanti,  e sembrava che mille campanelle avessero preso a suonare a festa con trillanti e gioiosi suoni che si accalcavano alle porte del pensiero.

Sorridi Constance davanti a lei che ti osserva speranzosa, dimentica quella notte, non puoi odiare per una cosa simile una persona  che non conosci.

Prima o poi ti saresti imbattuta in lei, sapevi che ti saresti scontrata con i suoi fantasmi.

E sei stata tu a convincere Philippe a portarla nella sua casa.

Sono stata io a dirgli che sarebbe stato un modo per avere Raoul più vicino e per acquietare almeno in parte le voci che girano a Parigi su suo fratello.

«Raoul pensavo fos ... si uscito ...» ogni pensiero le si era bloccato a metà, trovando al suo braccio una di quelle signore raffinate che spesso aveva visto sedute nei palchi del Teatro dell'Opera. Una bella, giovane donna, con grandi occhi castani che non accennavano a staccarsi da lei.

Christine cercò di sistemare le pieghe del vestito sentendo su di sé lo sguardo penetrante della donna esaminarla, quasi i suoi occhi potessero rivelarsi delle autentiche mani. Ed aveva cercato di schiarirsi la voce per non farla sentire come quella di una bambina un po' troppo cresciuta.

Perché quello si sentiva scontrandosi con il viso di lei.

Era pur sempre la figlia di un violinista, una cantante, una ballerina che proveniva dal dissoluto mondo dello spettacolo dove realtà e finzione trovavano punti estremamente concilianti. Quello in cui si era imbattuta invece era un mondo ostile, incapace di concepire anche il benché minimo errore.

Se solo avesse saputo.

Raoul percepì nella sua futura sposa ogni disagio e sapeva che spettava a lui a scuotere lo stallo creato dall'incontro tra le due. Anche un cieco si sarebbe accorto di come rappresentassero le due antitesi, l'una e l'altra contrapposte.

Constance con le sue vesti di un blu notte intarsiate di giallo sulle sue forme sviluppate, colori che quasi sarebbero sembrati sfrontati su di una qualsiasi altra donna con un portamento meno regale.

Christine avvolta da vaporosa e sottilissima organza chiara, che morbida si adattava al suo corpo ancora acerbo, intimidita che cercava di sistemarsi per fargli fare una figura degna del suo titolo nobiliare.

«Christine, permettimi di presentarti Constance Saint - Simon.»

Malice ricacciò le ostilità appena venne introdotta dal visconte, alzò il suo mento in direzione di quella ragazza che, appena, avvertito la presenza di una ulteriore persona, si trattenne dal lanciarglisi contro.

Era quello il suo nome.

Constance Saint Simon e con esso doveva tornare a pensare soltanto a ciò che più le premeva.

Sei una professionista, comportati da tale.

«Oh, madamoiselle Saint - Simon! Sono onorata di conoscervi ...» timidamente aveva abbassato lo sguardo, le gote si erano ricoperte di una leggerissima fuligine più scura del suo incarnato d'avorio e la voce affievolita senza perdere di splendore.

La donna lasciò il braccio di Raoul avvicinandosi alla bambina timida che aveva di fronte, le prese il mento e lo sollevò.

Bambina, sei una bambina che non ha colpe. Ed io un burattino nelle mani di molti.

Dopo un momento nel quale riuscì a deglutire il misterioso bolo fermato a metà della sua gola, s'impose un'espressione accomodante mentre gli occhi spaesati e confusi della bambina che aveva di fronte osservava la bambola più grande che avesse mai visto.

«E' un peccato che questi splendidi occhi si nascondano dietro la timidezza e chiamami Constance ...» le dita scivolarono dallo spigolo gentile del viso della fanciulla in una piccola carezza, prima di congedarsi definitivamente.

Christine sembrò sciogliersi in quella richiesta guardò di sfuggita Raoul il quale si trovò soddisfatto della sicurezza che aveva appena infuso la donna alla sua futura sposa.

«Scusatemi signore, ma ora devo proprio andare ...» una nuova fretta colse il visconte, forse più impaziente di lasciarle sole e magari far trovare in Costance a Christine una nuova amica. Era stata costretta a tagliare molti dei suoi rapporti decidendo di sposare lui, rapporto già combattuto per la sua natura complessa. La società imponeva molti rigidi comportamenti, non era vista di buon occhio una viscontessa che s'intratteneva con una ballerina o con una direttrice del balletto. Sfiorò con le labbra in un casto bacio la fronte della sua amata e dedicò lo stesso galante trattamento al dorso della mano di Constance. «Aspetterò la vostra opinione sul libro madamoiselle!»

«Non mancherò di farvela avere, allora ...»

Uscì vittorioso e contento, il soldatino che aveva appena ottenuto il suo primo conflitto. Segretamente sperava che un po' della forza di Constance, o qualsiasi cosa fosse ciò che suo fratello aveva notato in lei, s'infondesse in Christine. Dalla sera del Don Juan l'aveva vista cambiata, il suo volto più spento e percepiva le colpe attanagliarla, colpe che lui riteneva non dovesse sentire sue. Non l'avrebbe mai ammesso con Christine, ma ogni giorno desiderava di leggere la notizia di un qualche cadavere trovato con il volto sfigurato a putrefarsi in un angolo di Parigi, pentendosi subito di averlo pensato perché sapeva che ne avrebbe comunque sofferto.

Ma era un uomo, come la persona che aveva cercato di rubargli la sua Christine.

La sua dolce e piccola Lotte il cui suo unico peccato era la genuinità del suo cuore e la sua orba fiducia in chi aveva approfittato di lei, del suo canto per ricoprire un vello d'oro.

Una nuova amicizia, sana e che non poteva ricollegare alla sua vecchia vita non poteva che giovarle.

Ed ora, in quella veranda circondata da vetrate, erano sole finalmente.

Le facce incredibilmente distanti di una stessa medaglia.

Malice ebbe la conferma che i suoi ricordi non la ingannavano. Era bella, molto più che bella e la sua voce era qualcosa che lei non avrebbe neppure sognato.

Bella, come non sarò mai.

Innocente e pura, come non sono mai stata.

Giovane cone non sono più.

Con la musica a cantare per lei.

La musica a risuonare tra le sue labbra vellutate, una voce da Angelo ...

Avvertì il glaciale metallo del suo fido compagno accarezzarle la pelle dell’avambraccio, come la dissoluta mano di Lucifero che ti tenta con allettanti promesse che sai non manterrà. Le suggeriva falsamente quanto facile sarebbe stato il liberarsi di quel nome, quella ossessione piombata anche su lei come una maledizione.

Un freddo gelido che le bruciò di tentazione.

Un sentimento logorante e distruttivo.

Un sentimento che si negava, impossibilitata a crederci per la sua natura.

«Posso sedermi, cara?»

«Certo, madamoi ... scusate ... Constance ...» si corresse immediatamente al bonario sguardo di rammarico che le aveva dedicato la donna. Ed ancora quel brivido caldo lungo la schiena percorrere di nuovo il suo incedere verso il basso. Forse stava avendo l'interpretazione migliore da mesi, una di quelle in cui sei talmente immersa da scordarti chi fossi realmente, ma era macchiata da quel modo di fare che sembra pendere da quel lato sbagliato di lei. Malice era affacciata derisoria al parapetto e lanciava suggerimenti sbagliati alla povera Constance svagata ormai da quella strana presenza.                                 

«E posso chiederti di evitare certi formalismi, mi fanno sentire vecchia. Dammi del tu, te ne sarei infinitamente grata ...»

Quando Constance si sedette Christine ebbe l'impressione di essere un piccolo rospo goffo.

Anni di danza non le avevano dato neanche la metà della leggerezza con cui si muoveva quella donna.

Una leggerezza che possedeva persino nel versare il tè con una grazia e delle movenze che sembravano provenire da una favola esotica.

«È dura non è vero?»

Christine interpretò quella frase come un atto di comprensione, quasi che fosse un input per qualcosa di più confidenziale, colei la quale fosse capace di capire il suo stato d'animo. Si trovò ad annuire senza emettere un solo suono di assenso, nemmeno uno. Era così stanca di sorreggere la maschera da perfetta promessa sposa del visconte.

«Non immagini nemmeno quanto ...»

«Ed invece sì ...» disse Malice quasi con stizza, mentre piegava la teiera sulla tazza lasciando che il suo vapore confondesse quasi la sua affermazione in una nuvola fumosa. La giovane sembrava non capire, sempre più smarrita con gli occhi spalancati di fronte al modello di perfetta signora con cui non riusciva a confrontarsi nemmeno lontanamente, di cui aveva sentito intessere le lodi da parte di più di una persona, di cui poteva ammirare virtù e beltà. «Sono figlia di borghesi arricchiti, sono una donna di quasi trent'anni, non sposata, che vive con il fratello. Un po' fuori dal coro, non è vero? Vedi, mia bella Christine, per quanto i fratelli de Chagny sembrino l'emblema di una nuova nobiltà, è ancora un mondo popolato di vecchi baroni bigotti. Trovare posto in tale mondo che non vuole accettare la diversità è difficile per chi come noi non ha avuto il privilegio di nascere secondo i canoni di una ristretta cerchia di eletti.»

E mentre con un’ironia pungente, amara, Christine sentiva riassunta la loro situazione, si trovò il piattino con il tè vicinissimo, quasi sulle sue mani.

Si accorse di aver sbagliato tutto.

Le frasi, i modi, tutto.

Lei avrebbe dovuto versarle il tè, da ospite avrebbe dovuto porgerle il piattino come Constance stava facendo, invece d'incantarsi con i suoi ipnotici gesti e con le sue parole affilate. Non ricordava nemmeno cosa stesse facendo prima che entrasse.

Il tavolo imbandito da fogli e buste, il calamaio con la penna appoggiato da un lato ed i pensieri volati chissà dove per chissà quanto tempo.

Stava solo facendo disordine.

A cui avrebbe rimediato al più presto, forse compiendo qualcosa di giusto,

«Mi - mi dispiace Constance, perdonami io ...» le piccole mani si muovevano nervose, cercando di raccattare la carta e sistemarla al meglio che poteva. Altre due mani si erano posate sulle sue fermandole.

Gli occhi delle due si scontrarono e le esili spalle della soprano ebbero un sussulto.

Nella parte più remota di sè aveva avvertito ciò che solo lei e pochi altri potevano percepire: due pozze scure in cui annegava il baratro tetro di un mondo oscuro, qualcosa che aveva già sentito dentro di sé, qualcosa che c'era in quella donna più bassa di lei ma che aveva un potere inconfondibile sulla sua volontà.

Lo stesso effetto, della sua voce che continuava a tormentarla, di notte nei suoi più torbidi sogni.

Nessun incubo se non quello del rimorso di aver fatto soffrire ancor di più una creatura di Dio ferita. Non aveva avuto nemmeno la compassione d'infliggergli il colpo di grazia. 

Un senso di smarrimento che fece immediatamente irrigidire la donna, come se avesse colto nel loro scambio muto ogni pensiero della bambina. La stessa vertigine che aveva visto nella direttrice del balletto quando fu lei a scavare nel suo sguardo.

La somiglianza tanto decantata da Colas, diveniva pericolosa. E più Lucia conosceva Erik, più quella piccola infame scalpitante recalcitava ribellandosi a tornare al suo posto, più Malice faticava a tenere alta la guardia e a mascherarsi.

Non vi era cuio a poter nascondere un animo corrotto.

Solo una fittizia dolcezza, una dolcezza fasulla, ma che alla giovane cantante sembrò la più sincera dopo mesi.

«Non devi scusarti con me, non mi piace giudicare e sono piuttosto restia a seguire rigidamente l'etichetta come avrai notato.»

La fiducia di una giovane ingenua.

L’avevano creduta un Demonio in Giappone, ingannatrice e mutevole come lo specchio della luna che cambia la sua faccia ad ogni quarto.

La gente voleva questo da lei.

Ciò avrebbe ottenuto.

Imparerò che l’Inferno è un piccolo mondo. E che non esiste posto peggiore della vita terrena.

Imparerò la rabbia, il rancore, padre.

Imparerò che la speranza non esiste madre.

Mi avete resa incapace di amare, io posso solo odiare.

Ma quello era odio?

Era solo l’istinto alla rivalsa che la spingeva a detestare la Daaé?

Il volerle disegnare con una cicatrice un sorriso perpetuo sul suo viso  perfetto ed intonso, era puro e semplice odio?

No. Non era assolutamente odio.

Gelosia. Pura ed irrefrenabile. Di quelle che non finisce mai di prenderti e percuoterti come la pelle di un tamburo, come l'epicentro del terremoto che si muoveva in lei, nel suo animo, nel suo cuore.

Concentrati.

Era lì grazie a Malice e parlava con lei, si confidava esternando quello che da mesi si tratteneva dal dire.

Era lì e cercava il suo appoggio, ci provava come il rispetto che si vuole ottenere per l’ammirazione nutrita nei confronti di un fratello maggiore. Apriva i suoi bottini, uno ad uno con la complicità che aveva appiccato con decise scintille contro la paglia. Le disse ogni cosa come se in lei fosse riuscita a trovare finalmente una nuova luce, strana, diversa ma la prima oltre a Raoul.

Non so perché ti sto dicendo tutto questo.

Temeva di angustiarla con i suoi tormenti e le sue paure.

Il non essere all’altezza, il non essere abbastanza, il non essere.

Ma poi avevano cambiato il discorso, volto verso cose più gioiose.

Raoul, la felicità che contornava il loro rapporto, nonostante tutto. Nonostante al mondo, disperso per quanto ne sapesse, l’uomo  che le aveva dedicato anima e corpo, a cui aveva sacrificato un’intera vita, che lì’aveva accolta nel tenero abbraccio della sua voce e della sua devozione era distrutto per lei.

Un uomo che ormai veniva cinto dal sangue delle sue ferite morali.

Un uomo che non riusciva a dimenticarla, che tentava con tutte le sue forze di spezzare le catene che gli cingevano il cuore e che, invece, invocava il suo nome possedendone un’altra.

Erik.

Avrebbe dovuto smettere di pensare al suo nome, al suo viso sconvolto e deturpato in ambo le parti a causa sua. Doveva essere quello che all’inizio era: un qualcosa d’indefinito, un compito, nulla più.

Cosa era divenuto invece? L’ultimo appiglio per dare uno scopo ad una vita altrimenti inutile? Un tergiversare? Una distrazione?

Concentrati.

Ripeteva nella sua mente, mentre manteneva un’amabile conversazione con quella ragazza di contro alla fatica che faceva dal rigetto che sentiva montarle nel petto.

Presto avrebbe dovuto congedarsi persino da lui, non poteva - non doveva – concedersi il lusso di affezionarsi ad una persona per quanto miserabilmente vicina fosse stata la sua esistenza.

Fu come masticare sabbia ed ingoiarla senza un sorso d’acqua.

Presto, molto presto non ci sarebbe stato più un lui.

Senza una ragione apparente.

Condannato a causa sua, un bene troppo prezioso, una donna capace di fare salotto mentre sgozza qualche maiale politico.

Concentrati.

I minuti assieme erano volati, almeno per Christine. Il progressivo crescere delle piccole risate a fior di labbra, l’apparente affabilità della donna non facevano altro che spianare la strada.

Tra un sospiro di troppo ed un pensiero volato fuori dalle labbra, l’annuncio che presto avrebbe dovuto organizzare la festa per ufficializzare il proprio fidanzamento senza nemmeno sapere da dove iniziare.

Raoul è tanto fiducioso, ma so che non accetteranno l’invito da parte mia. Sono solo una ballerina e una cantante per loro, gente da disprezzare  …

«E questi sono solo vecchi annoiati, che non hanno altro di meglio da fare che chiacchierare sull’argomento in voga. Passerà anche l’interesse scaturito dall’intera vicenda dietro l’incendio del Teatro dell’Opera»

Non ci sarebbe stato niente di più invitante nel pugnalarla alle spalle quando l'avrebbe creduta un'amica.

Non esiste torturatore più sadico in natura oltre l’uomo.

Non esiste un cacciatore eguagliabile.

Christine il topo, la preda.

Malice il gatto, il cacciatore.

«Hai solo il bisogno di aiuto …»

Il cacciatore sa cosa vuole la sua preda e ne prepara il boccone più ghiotto solo per attirarla a sé.

Il topolino mangia la briciola ignaro, non sente gli occhi gialli illuminarlo.

Ecco che il gatto si accuccia dietro il fieno, si acquatta e respira piano, piano non vuole farsi scoprire.

«… so anche chi potrebbe aiutarti in questa piccola impresa …»

Il topolino si avvicina al suo carnefice, non sa che lo sta aspettando.

Il gatto si nasconde ed ancora attende paziente, non c’è per il topolino, è un Fantasma.

«… io.»

Il topolino non si accorge nemmeno di dove si trova, tenta solo di scappare; il gioco inizia, dolcemente, crudelmente, non per fame, ma per diletto.

Il topolino è rimasto senza parole.

«Certo sempre che tu lo voglia Christine!»

Il gatto ha la sua preda tra le zampe.

Il gatto invece ne ha troppe da spendere.

Lo lascia. Giusto il tempo di fargli credere di essere libero.

«Io, non saprei come ringraziarti. Stai facendo così tanto per me, io veramente non so …»

Lo agguanta nuovamente con i suoi artigli affilati, lo tiene stretto sentendolo muoversi nel tentativo di sfuggirgli.

Il topolino s'inganna facilmente.

«Prima con Philippe, ora con la festa … veramente non so come ringraziarti.»

Lo lascia.

Sorride.

«Ragazza mia, in te vedo molto di me …»

Bugiarda!

«Quando avevo la tua età e mi trovavo di fronte ai tuoi stessi problemi, quando combattevo per farmi accettare, avrei pagato tutta la mia fortuna per avere un buon sostegno. Ma ora, ma chérie, dobbiamo trovare un modo di sorprendere i nostri ospiti e farli tacere definitivamente, oppure fargli parlare di altro.»

Lo riprende.

Fin tanto che perde l’interesse scaturito e il gatto annoiato del gioco lo finisce schiacciandolo definitivamente.

Il corpo del piccolo topolino giace inerme da una parte, divenendo solo carne in putrefazione.

«Hai già qualche idea.»

Ma era troppo presto per questo.

«Sono un vulcano di idee …» Le sue mani sulle sue, nella voce un scia bollente che percorreva il corpo della giovane cantante nella strana sensazione di averla ascoltata per un’intera vita, nello sguardo la malizia di cui portava il nome, occhi menzogneri che offrivano grandi speranze, occhi di una donna ferita.«… ed adesso descrivetemi alla perfezione la Masquerade che c’è stata prima della sera del Don Juan

Note dell'autrice: Salve salvino! Che faticaccia questo capitolo, oltre che il dilungarsi fra tre scene diverse oltre che l'aggiustare a livello temporale la storia (scusate io non ho trovato alcun riferimento ai mesi in cui si svolge il film, quindi ho solo integrato ciò che accadde nel 1870 in Francia. Mi scuso ancora per eventuali errori, ma era necessario un certo adattamento) ci sono le presenze moleste. Allora che dire: diamo il benvenuto alla tro...ehm pardon... alla cantante! Ah mi aspetto i pomodori perchè escluso Colas ci stavano tutti gli antipatici. Oltretutto non vi era neanche un po' di presenza del Master, povero ti ho trascurato. bacino! Comunque se non si fosse capito a Malice non stanno molto simpatici i futuri coniugi DeChagny, chissà come mai eh eh!!!

Christine, per chi non l'avesse capito ora vive alla Villa con Philippe, convinto da Constance. Le vere ragioni per cui l'ha voluta lì sono altre nella mia testa ma lascio a voi l'infausto compito d'indovinare cosa la mia testolina bacata ha partorito.

Oddio penso di aver detto tutto: Ringrazio GiulyRedRose e Sidney Bristow per la loro assidua presenza!

Un bacione a tutti coloro che leggono!

Serva vostra.

Mally!

   
 
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