Il giallo dei tulipani…
Grigio.
La sua vita poteva sintetizzarsi con quell’unico colore. Quanto poteva essere
importante una vita che si riassumeva con una sola parola? Il suo valore era
pari a zero, lo sapeva.
Invisibile.
Ecco, forse quella era un’altra parola che riassumeva la sua vita, o meglio, il
suo essere. Se fosse scomparso, nessuno se ne sarebbe accorto, a nessuno
sarebbe importato. No, non aveva la presunzione di volere che il mondo
smettesse di girare se gli fosse successo qualcosa, ma sapere che tutto,
proprio tutto, sarebbe rimasto uguale lo faceva sentire male.
Anzi,
lo aveva fatto sentire male. Tempo
fa… quando “grigio” non sintetizzava ancora la sua vita; quando sapeva ancora
cosa volessero dire l’azzurro del cielo, il verde dei campi o il giallo dei
tulipani.
Ormai
nulla sembrava avere più senso, ormai ogni cosa gli scivolava addosso come se
fosse nulla. L’apatia più grigia lo avvolgeva da anni… Grigio, né bianco né
nero. Nulla di definito, una qualsiasi cosa di cui si potesse fare a meno senza
neanche accorgersene.
Ecco,
forse era riuscito a mettere insieme un’intera frase per riassumere ciò che
era. Teddy Lupin, qualcosa di cui si può
fare benissimo a meno.
Il
sottile vento primaverile gli solleticava il volto senza che il giovane se ne rendesse
conto. Un tempo avrebbe apprezzato quel dolce tepore che pareva giocare con
lui, ma i giorni di ingenua, insensata felicità erano finiti troppo presto
nella sua vita. Si erano esauriti quando si era reso conto di quanta mancanza
caratterizzava la sua vita, di quanto dolore, di quanta ingiustizia era
presente nel suo passato. E allora che senso aveva ridere? Che senso aveva illudersi
che anche così gli andasse bene?
Era
sempre stato strano e con questo aveva imparato a convivere. Figlio di un Lupo
Mannaro e di una Matemorfomagus: di stramberie ce n’erano a bizzeffe, dalla
passione per i boschi e le notti tenebrose al cambiar colore di capelli ogni
qualvolta cambiasse pensiero. Eppure non era stata questa sua strana
discendenza a farlo riflettere: l’amore che allora lo circondava era talmente
soffocante da non permettergli di rendersi conto che qualcosa non andava.
La
prima volta che aveva avvertito qualcosa di diverso era stato al binario 9¾, nel
suo primo viaggio per Hogwarts. Era consapevole del fatto che i suoi genitori
non avrebbero potuto, per ovvi motivi, accompagnarlo, ma vedere quanti genitori
fossero fermi sulla banchina era stato una doccia fredda: per quanto sapesse
che era normale, vedere che era praticamente l’unico accompagnato da qualcuno
che non fosse un genitore lo aveva turbato.
Da
quel giorno aveva capito quanto la sua normalità fosse, in realtà, così diversa
da ogni altra: non ricevere lettere dai propri genitori che si congratulavano
per lo smistamento o chiedevano come trascorresse le giornate e se ci fossero
problemi, non avere amici o conoscenti o semplicemente persone con cui parlare,
vedere che i professori conoscevano meglio di lui quella che era stata la vita
di due grandi combattenti della Seconda Guerra Magica erano solo piccole
diversità che si presentarono man mano che il piccolo Teddy cresceva e viveva
in quell’antico castello. E più le diversità, le mancanze si facevano sentire,
pungenti, più il bambino - che si apprestava a diventare adolescente - si
chiudeva in se stesso, senza riuscire a parlare con nessuno ed evitato da
altri. Aveva imparato a dividere quelli che incontrava in due categorie: quelli
che lo guardavano con pietà e ammirazione, vedendo in lui lo sfortunato figlio
di Remus e Tonks Lupin e quelli – fortunatamente la minoranza – che anche non
ostentando apertamente il proprio disprezzo, si tenevano alla larga da lui,
vedendo niente più che l’orfano di un Lupo Mannaro.
Tutto,
in ogni caso, ruotava intorno ai suoi genitori e alla loro assenza.
Con
gli anni Teddy si era reso conto di aver vissuto in una bellissima gabbia
d’oro, fatta d’amore e di conforto, di dolci, regali e sorrisi volti a
compensare, a riempire un vuoto enorme lasciato dalla morte dei suoi genitori.
E in quella gabbia d’oro una simile assenza, pur pesando, non aveva mai fatto
così male. Sua nonna Andromeda era sempre stata con lui, sempre; il suo padrino, Harry, non gli aveva fatto mancare nulla, mai e lui, pur sentendo un vuoto, pur
capendolo non si era mai trovato a chiedersi il perché di quelle assenze, non
si era mai trovato a pensare che la sua non fosse una vita propriamente felice.
Ora
lo capiva. Capiva che nella sua vita di felice c’era ben poco e che tutto
l’amore che gli altri gli avrebbero dato non avrebbe mai potuto compensare la
mancanza di suo padre e sua madre.
Loro
non c’erano. Non c’erano mai stati. Questo era ciò che contava, ciò che faceva
inevitabilmente male. Ed era arrivato a odiarli, a chiedersi disperatamente il
perché delle loro ultime azioni. Avevano appena avuto un figlio, erano una
famiglia! Perché scendere in guerra con il rischio altissimo di morire? Perché
non rifugiarsi in attesa che il combattimento fosse finito? Nessuno li avrebbe
criticati o biasimati per quella scelta… e forse ora sarebbero lì con lui.
Li
odiava per questo: erano scesi in guerra ed erano morti per la salvezza di
tutto il Mondo Magico, per la salvezza di persone che neanche conoscevano e non
erano stati capaci di garantire la sua di salvezza, di felicità. E sarebbe
bastato ben poco – maledizione! – pochissimo. Sarebbe bastato non lasciarlo o
quanto meno tornare a casa dopo lo scontro finale.
“Ieri sparì, domani non è giunto,
l’oggi se ne va senza fermarsi. Sono un Fu, un Sarà, un È già smunto…”
Ecco
cos’era ormai: qualcosa di spento, logorato da domande senza risposta e
disperazione senza fine. Grigio perché stanco, nonostante i suoi quindici anni;
grigio perché consumato da qualcosa più grande di lui. E i giorni intanto
passavano senza essere vissuti, in attesa di un domani che avrebbe portato
cambiamenti e pace e che tardava a giungere.
Teddy
sospirò. La guferia era un posto che apprezzava molto: c’era una tale calma,
nonostante la presenza dei volatili, che cercava di insinuarsi anche nel suo
petto sordo.
Ma come sempre, la calma dura poco.
Una
mano sottile e chiara si posò sulla sua spalla interrompendo il flusso di
pensieri mascherato da un vuoto mirare il cielo azzurro di primavera.
Voltandosi
gli occhi ambra del padre – il loro vero colore – incontrarono quelli della
preside McGranitt; per alcuni istanti restarono lì, fermi, senza dire nulla,
semplicemente osservandosi e per un attimo Minerva ebbe l’impressione di
ritrovare lo sguardo troppo adulto per la propria età che un tempo era
appartenuto al Malandrino.
«Vieni
con me, Teddy» lo invitò gentile e senza aspettare risposta, sicura
dell’assenso, si avviò verso le scale, avvertendo, pochi istanti dopo, i passi
leggeri del ragazzo dietro di lei.
Quando
giunsero nell’ufficio, il giovane riconobbe – appollaiato su un ceppo – il gufo
di sua nonna Andromeda che, tranquillo, puliva le sue penne color crema.
«Tua
nonna ti invia questo…» disse la preside con calma, porgendogli un pacchetto al
quale era allegata una lettera di poche righe. Aprendola, Teddy lasciò che gli
occhi vi scivolassero su, veloci.
“Credo
di aver sbagliato a non mostrartelo prima, ma tu conosci meglio di me gli
errori che ho fatto. Spero solo che tu possa capire e chissà… cambiare”.
Il
ragazzo sospirò: negli ultimi anni il rapporto con sua nonna si era sempre più
dilatato, srotolato come un gomitolo di lana i cui capi sono irrimediabilmente
lontani. Non c’erano stati molti litigi e solo all’inizio, quando aveva
cominciato a capire; tuttavia il freddo ormai si era insinuato tra loro e un
vuoto li separava senza possibilità di colmarlo. Lei gli aveva dipinto con
troppi colori il mondo e l’impatto con l’opacità e la mancanza di brillantezza
della realtà era stato un duro colpo per il bambino che si apprestava a
diventare adolescente. Lui, d’altro canto, aveva smesso fin troppo velocemente
di credere alle sue favole, né era riuscito a comprendere i motivi delle sue
scelte o gli ideali con cui lei aveva sempre difeso le azioni di sua figlia e
del marito di questa.
Semplicemente
troppo divario ed ora la freddezza, l’estraneità era l’unica cosa che li
legava.
Teddy
aprì il pacchetto e vide, al suo interno, una boccetta dalla forma semplice e
sinuosa trasparente all’esterno, ma il cui contenuto sembrava emanare luce
propria. Sapeva cos’era, eppure rimase a fissare quel ricordo come ammaliato dalla
purezza che trasudava.
Quasi
sapesse quale fosse il contenuto di quel pacchetto – e forse lo sapeva
realmente – Minerva aveva preparato sulla grossa scrivania dell’ufficio un
antico Pensatoio, quello che una volta era appartenuto a Silente. Il giovane aprì
la fiala con cura e un leggero odore di menta si diffuse nella stanza. Teddy
inspirò istintivamente quell’odore che, benché fosse la prima volta che lo
sentisse tanto intensamente, sembrava conoscere da sempre: gli dava un tale
senso di pace e di sollievo che ebbe quasi l’impressione di sentirsi leggero,
mezzo metro da terra.
«Sai…
anche a tuo padre piaceva quest’odore» intervenne con un sussurro la preside
«Era secondo solo all’odore di cioccolata calda. Diceva che sentiva un senso di
liberazione ogni volta che lo ispirava».
Per
un istante il ragazzo si trovò a capire, improvvisamente, perché sentisse
quella fragranza tanto vicina a sé; poi però scosse la testa, quasi temesse di
perdersi in sentimentalismi che non avrebbero fatto altro che causargli ulteriore
sofferenza. Riaprendo gli occhi – che senza accorgersene, aveva chiuso – versò
con cura il pensiero argenteo nel catino decorato con simboli e scritture perse
nei tempi e nei vecchi libri di magia della biblioteca. Quando la superficie
tornò liscia e trasparente, dopo aver guardato la McGranitt come se cercasse un
gesto d’assenso da parte sua, s’immerse con una strana morsa che senza sapere
perché gli attanagliava lo stomaco.
In
un istante si trovò in campagna aperta, in una mattina tiepida ma nuvolosa, circondato
da nient’altro che erba. C’era calma, tranquillità e alcuni uccellini si
azzardavano anche a spandere nell’aria il loro dolce canto. Tuttavia nella
calma, nella tranquillità di quel posto si poteva avvertire qualcosa di
completamente sbagliato che nel silenzio trovava la sua fonte e la sua forza.
Troppi pochi uccelli cinguettavano e senza tener conto di quei pochi, la
restante natura taceva. Una pace, insomma, che partiva non tanto dalla
tranquillità quanto dalla paura, sovrana in quel luogo e Teddy, comprendendo
quelle sottili sfumature, avvertì una morsa di gelida consapevolezza
avvolgerlo: era un ricordo dei suoi genitori, un ricordo nel tempo di guerra.
Ma
non gli fu dato neanche il tempo di andare oltre in quei pensieri che una voce
sottile e stranamente allegra ruppe il silenzio invadendo l’aria tiepida.
«Dove
siamo, Remus?»
Semplici
parole che fecero, però, sussultare il giovane Tassorosso: era certo della persona cui apparteneva
quella voce, benché non l’avesse mai sentita prima. Era una cosa che sapeva
d’istinto, una certezza che non poteva essere confutata e mentre anche la mente
se ne capacitava, la morsa allo stomaco si faceva più intensa, tanto da
togliergli il fiato.
«Non
avrebbe senso dirtelo adesso, Dora. Pazienta ancora un po’»
Altra
voce, altro tuffo al cuore, altra certezza inconfutabile.
Teddy
si mosse verso quelle voci, senza sapere bene perché o cosa fare una volta che quelle persone fossero entrate nel suo
campo visivo; tuttavia si mosse: era l’unica cosa che gli ordinasse di fare il
cuore. E non ci fu bisogno di trovare risposta alle successive azioni, non ci
fu il tempo di chiedersi quali sarebbero stati i successivi passi. Quando i
suoi genitori, finalmente, furono
visibili, non fu necessario fare nulla – per quanto in un simile contesto fosse
possibile fare. Il ragazzo si fermò e semplicemente rimase a guardarli, come si
ammira un animale raro e dai contorni fiabeschi, un sogno che si forma davanti
agli occhi inaspettato e sorprendente; come un bambino che vede prender vita le
sue fantasie e si rende conto che sono proprio come le aveva sempre immaginate.
Perché
Teddy non aveva mai sentito le voci di sua madre e di suo padre, non aveva mai
visto i loro atteggiamenti, i loro sorrisi se non in un’immagine di pochi
fotogrammi – una finzione che non poteva colmare l’ignoranza. Eppure era
proprio così che li aveva immaginati, proprio così che avevano popolato i suoi
sogni infantili e per un istante ebbe l’impressione di essere di nuovo quel
bambino che la notte, nei suoi sogni, sorrideva accompagnato dai suoi genitori.
Remus
aveva la sua solita aria stanca, ma pareva sereno e felice: gli occhi ambra – i suoi stessi occhi – brillavano di una
luce che poche volte aveva avuto, che un tempo aveva animato anche l’ambra di
Teddy. Teneva per mano sua moglie, gli occhi in quelli occasionalmente scuri
dell’altra ed un sorriso che gli alleggeriva il viso e stendeva le labbra. Dora
aveva la stessa espressione, solo con un pizzico di curiosità in più che le
faceva brillare il volto a forma di cuore. I suoi capelli rosa cicca arrivavano
al collo, lisci e con le punte sbarazzine e allegramente indisciplinate; il
corpo magro e giovanile sembrava trattenere a stento chili e chili di energia
repressa e voglia di correre per qui campi isolati.
Quando
i loro occhi smisero di perdersi gli uni negli altri, riuscirono ad ammirare lo
stesso paesaggio che poco prima aveva tolto il fiato al giovane Tassorosso,
cogliendo, però, maggiormente la bellezza proprio per il periodo di guerra nel
quale vivevano, di cui - ormai – quel paesaggio sembrava una sorprendete
eccezione.
«Remus…
è bellissimo. Forse, però, dovremmo andare… sai i Mangiamorte…»
«No,
Dora. Non dirlo…» la pregò Remus porgendole la punta delle dita sulle labbra
chiare «Non voglio che loro, né nient’altro di questa maledetta guerra rovini
questo momento. Siamo al sicuro: qui non ci troveranno, non devi temere. Se
fosse stato rischioso, non vi avrei
portati qui» concluse con un sorriso,
porgendo un fuggevole ma dolce sguardo sul ventre della donna.
Solo
in quell’istante Teddy si rese conto che in quel ricordo sua madre era ancora
incinta di lui e non seppe ben spiegarsi il perché, la cosa gli procurò una
calorosa stretta al petto, come se il fatto che sua madre lo tenesse in grembo
o che suo padre si preoccupasse per lui gli stessero provando quell’amore che
non aveva mai ricevuto da loro. Avrebbe voluto, tuttavia, nascondersi dietro un
albero o sparire sotto terra: per quanto sapesse che loro non potevano in alcun
modo vederlo, essere lì, in un loro momento privato, lo faceva sentire
stranamente in imbarazzo.
Ma
li avvolgeva una sconfinata pianura verde-grigia nella quale era impossibile
trovare – suo malgrado – un posto dietro il quale celarsi. Così rimase lì, a
pochi passi da loro che restavano immobili ad ammirare quel pacifico panorama.
«In
realtà non è questo quello che volevo farti vedere, non solo» disse ad un tratto il mannaro, come se si fosse
improvvisamente ricordato di quel particolare «Vieni con me»
Senza
permettere a Dora di dire nulla, Remus si incamminò – sempre tenendola per mano
– lungo l’enorme distesa di verde che pareva inclinarsi lievemente, aumentando
la pendenza man mano che i due facevano passi avanti. Teddy li seguì a poca
distanza, uno strano senso di leggerezza che gli avvolgeva le membra e la testa
che ha tratti era presi da capogiri. Vedere lì, davanti a lui, i suoi genitori
era l’ultima cosa che avrebbe immaginato di fare, ma in quel momento tutto
l’odio che aveva provato verso di loro, la rabbia, le mille domande da gridare,
tutto pareva bloccato in gola, timoroso quasi di rovinare un momento unico come quello.
Camminarono
poco. Non erano passati neanche dieci minuti che il Malandrino pose le proprie
mani sugli occhi della strega guidandola negli ultimi passi da fare. Quando
anche il ragazzo fu accanto a loro, Remus scoprì gli occhi di Dora che, prima
confusi, divennero stupiti ed emozionati fino alle lacrime; il giovane
Tassorosso – che non aveva staccato lo sguardo dalla coppia – non comprese la
reazione materna finché non pose l’attenzione a ciò che quella guardava.
E
i sentimenti che lo presero furono gli stessi che tenevano il cuore di Dora.
Davanti
a loro, più in basso rispetto a dove si erano fermati, un’infinita distesa di
tulipani gialli pareva sorridere loro, calma e maestosa come solo la natura
sapeva essere; ognuno di quei fiori pareva aver rubato un raggio del sole –
assente quel giorno – ed illuminare la propria parte di prato, tanto che tutti
insieme riuscivano a far splendere di luce propria l’immensa distesa. Farfalle
di mille colori svolazzavano leggere fra loro, vogliose di giocare e di
prendere il gustoso polline, frutto segreto di quei fiori.
La
cascata di molteplici colori che aveva investito gli occhi di Teddy giunse fino
al cuore e distrusse il grigio assente che lo annebbiava. Il giovane si sentì
come quello che dopo una lunga apnea torna a galla volenteroso di respirare e
vedere la luce del sole: era quasi certo che l’aria che gli attraversava i
polmoni avesse sapore e solleticandogli le narici, la gola e qualsiasi altra
cosa incontrasse lo riportava alla vita dopo un lungo letargo.
«In
un periodo simile non credevo potesse esistere qualcosa del genere» sussurrò
Dora senza avere la possibilità di staccare gli occhi da quel miracolo.
«La
primavera è giunta anche quest’anno, amore e continuerà a giungere… la natura
non ferma certamente i suoi passi per un capriccio: “che si uccidano pure fra
loro” pare dire “Io non cambierò di certo per loro e alla fine laverò il loro
sangue con i miei piccoli gioielli”. Siamo così effimeri rispetto a lei, Dora,
che a volte mi viene da pensare che sarebbe meglio se sparissimo tutti e la
lasciassimo in pace»
La
strega si strinse a lui mentre una lacrima le solcava il viso.
«Sai,
mi piacerebbe che anche nostro figlio potesse vederli: credo che ne sarebbe
entusiasta» continuò lui.
«Li
vedrà… quando nascerà, lo porteremo qui ogni volta che vorremo»
«Non
voglio lasciarlo, Dora… Dio solo sa la sofferenza che si prova a vivere da
soli! Tu e lui siete le cose più preziose che ho. Ma ti sembra egoistico da
parte mia volere allo stesso tempo prender parte anche a questa guerra? In
fondo io combatto per lui… perché la guerra non distrugga questo meraviglioso
campo di tulipani, perché lui un giorno possa vedere il loro giallo e ricordare
quante meraviglie ha in serbo per lui la terra, anche quando ciò che lo
circonda sembra nasconderle. Dimmi: è tanto sbagliato, Dora?»
Per
tutto il tempo in cui Remus aveva parlato, i suoi occhi erano rimasti incollati
al paesaggio per darsi forza, timorosi forse di perderla se si fossero
imbattuti in quelli della sua compagna. La voce gli era rimasta fedele,
incrinandosi solamente nel finale, come monito ad uno sforzo che aveva sostenuto
con orgoglio, ma che ormai la stava schiacciando.
Ora
che taceva, fu Dora a cercare il contatto con quell’ambra che tanto amava e
quando lo trovò si rese conto della disperazione che li attraversava, la stessa
che le attanagliava il cuore. Perché non c’era nulla di più triste del nascere
in guerra, in un mondo in cui le meraviglie sono nascoste a forza dietro gli
orrori. Capiva, capiva benissimo cosa spingesse Remus a voler combattere: quel
mondo migliore che ogni padre, ogni genitore vorrebbe per il proprio figlio lo
avrebbe spinto anche alla morte se ce ne fosse stato bisogno. E condivideva
ogni parola di quel discorso: le loro anime erano sempre state in sintonia ed
ora più che mai.
«Sai
che penso ogni tuo pensiero» fu la semplice risposta a cui Remus sorrise, senza
chiedersi come potesse essere possibile una cosa simile: era amore e tanto
bastava.
Teddy
non si rese realmente conto dell’impatto che quelle parole avevano avuto su di
lui finché le prime lacrime non scivolarono fino al mento e caddero bagnando la
terra ai suoi piedi. Ora sì che la testa girava e, anzi, girava a tal punto da
farlo star male. Sentiva un dolore così forte all’altezza del cuore e della
bocca dello stomaco da non riuscire a respirare: una sofferenza, una
disperazione che minacciavano di distruggerlo, disintegrarlo a partire
dall’anima, in fiamme dopo quelle parole. Il Tassorosso si stava rendendo
pericolosamente conto di quanto fosse stato sbagliato ogni suo pensiero che
riguardasse i suoi genitori fino a quel momento. Perché avevano combattuto per
lui, soprattutto per lui… ed erano morti perché lui potesse vivere in un mondo
in cui il nome di Voldemort fosse solo un’eco lontano, superato senza essere
dimenticato, una realtà che insegnava senza far più paura. Come aveva potuto
essere così stupido, così cieco? Come aveva potuto credere che avessero deciso
di lasciarlo pur di combattere? Che avessero fatto una simile scelta senza
pensare alle conseguenze, alla sua vita?
Stupido!
Ingrato! Ecco come si sentiva… e di fronte a loro e a quella disperazione che
stavano provando si sentiva così piccolo, così effimero da voler correre via
per non continuare a sporcare con la sua inutile presenza un così dolce e bel
momento. Adesso capiva cosa voleva dire sua nonna nel laconico biglietto con
cui aveva accompagnato il pacchetto: lei sapeva cosa conteneva quel ricordo…
sapeva l’effetto che avrebbe avuto su di lui ed aveva aspettato tanto perché
lui avesse la maturità necessaria per comprendere la sofferenza di quella
drammatica scelta. Se avessero perso la guerra e per miracolo fossero
sopravvissuti in un mondo dominato da Voldemort, Remus e Dora non avrebbero
sopportato di veder crescere il proprio figlio in quell’orrore – senza tener
conto della discendenza mannara che “sporcava” il suo sangue. Loro avevano dato
il contributo più grande alla felicità che poteva attraversare la vita di
Teddy: avevano fatto in modo che essa esistesse, le avevano dato la certezza
della vita perché il loro Teddy avrebbe capito, apprezzato e fatto proprio il
dono della vita e della libertà e questo lo avrebbe fatto crescere felice.
Teddy
si lasciò fuggire un sorriso sincero e grande come pochi che in breve si
trasformò in una risata liberatoria e piena, di quelle che poche volte escono
dalle labbra delle persone e che mischiata con le lacrime, che non volevano
saperne di smetterla di inondare i suoi occhi, acquistava ancora più valore. In
un istante si trovò a desiderare che anche i suoi genitori sentissero quella
risata: loro dovevano sapere di
esserci riusciti, di avergli dato la felicità che tanto desideravano, che quel
campo di tulipani aveva toccato anche i suoi occhi.
Ed
il fresco odore di menta per la seconda volta invase i suoi polmoni
inebriandolo e lasciando scendere nuove lacrime: non lo avrebbe mai
dimenticato… sapeva che a quella fragranza, per quante volte l’avrebbe sentita,
non si sarebbe mai abituato, ma avrebbe colto le mille sfumature del suo odore
collegandolo irrimediabilmente a quel ricordo che – lo sapeva – stava finendo:
la menta era l’avviso che ormai correvano i titoli di coda in una scena che lui
avrebbe pregato durasse per sempre.
E
Teddy non si oppose, lasciò che l’odore di menta lo abbracciasse, portandolo
lontano da quella scena, lontano dai suoi genitori che ancora si osservavano
amorevolmente e lontano da quei meravigliosi tulipani. Menta e tulipano, suo padre
e sua madre che la natura avrebbe portato sempre nel suo fecondo grembo per
lasciare che vegliassero su di lui ovunque fosse.
In
breve il Tassorosso si ritrovò nell’ufficio della McGranitt che, dopo un simile
viaggio, pareva tanto stretto da togliere il fiato. Le guance ancora imperlate
di copiose lacrime e l’odore di menta che ormai gli impregnava i vestiti
abbracciandolo stretto.
«Teddy…»
sussurrò la donna con commozione.
«Va
tutto bene, preside» la rassicurò il ragazzo, asciugandosi con la manica della
divisa e rivolgendole un sorriso che la fece rimanere stranamente e felicemente
sorpresa.
Minerva
non gli chiese cosa avesse visto: non voleva essere invadente né fare una
qualsiasi cosa che potesse togliere dagli occhi del giovane quella scintilla di
gioia che non aveva mai visto e che lo facevano assomigliare tanto al padre,
nel momento in cui aveva scoperto l’amicizia degli altri Malandrini. Il
Tassorosso rimase fermo ancora per qualche istante: volle assicurarsi di non
aver dimenticato nulla di ciò che aveva visto e quando si accorse che l’odore
di menta lo accompagnava ancora, sempre sorridendo, lasciò l’ufficio per godere
della luce del sole, fuori dall’imponente castello. In un attimo aveva la
tremenda voglia di vedere la vita intorno a sé e anche se sapeva che non
avrebbe rivisto i tulipani del ricordo, gli sarebbe bastato osservare la
natura, la vita che lo avvolgeva per scorgere i suoi genitori.
Corri, corri felice, figlio della
vita. Godi di ogni sorriso e quando starai male sappi che la natura nasconde i
suoi piccoli miracoli dietro ogni dramma: sta a noi coglierli e tu ne hai la
forza, piccolo mio… tu, nato in un mondo in guerra, nato dall’amore più puro e
disperato, nato dalla gioia più pura e semplice.
Preghiera
sussurrata dal vento, portata dal fresco odore di menta e dal giallo dei
tulipani.
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
Orbene. Ecco la mia
prima shot su Teddy Lupin, classificatasi quinta. È stata un po’ un’impresa
scriverla, ma ne sono abbastanza soddisfatta.
Come anche la cara Only ha scritto nel suo giudizio, forse il cambiamento
psicologico del ragazzo è un po’ troppo repentino, tuttavia ci tengo a
sottolineare che il pensiero iniziale del giovane Lupin è qualcosa che si porta
dentro da anni, forse da sempre… per questo, porgere una svolta – una maturazione
– in tal modo non è parso tanto azzardato.
Ad ogni modo, lascio a
voi l’ultima sentenza, riportando il giudizio e ringraziando ancora la giudicIA di questo contest.
Il giallo dei tulipani, Alchimista
• Grammatica e forma: 9.75/10;
• Caratterizzazione dei personaggi: 4.5/5;
• Originalità della trama: 4.5/5;
• Attinenza al tema assegnato: 10/10;
• Utilizzo dell'elemento assegnato: 4.75/5;
• Utilizzo dei prompt: 4.5/5;
• Gradimento personale: 1/2;
• Cambio pacchetto: //
Totale: 39/42.
La tua storia non è brutta, per niente, ma nonostante questo non mi è piaciuta;
lo so che la mia motivazione può sembrare stupida, ma.. Remus e Ninfadora
insieme proprio non li reggo. Anche se la storia è dolce e tenera come questa.
Per questo il punteggio basso nel gradimento personale.
La grammatica e la forma sono buone, qualche imprecisione c'è ma non è grave,
considerando anche la lunghezza della fic.
L'attinenza al tema c'era, tutto gira intorno al ricordo che ha vissuto Teddy;
anche il profumo era presente nella storia, ma penso che avresti potuto
renderlo più importante. I tulipani sono onnipresenti, sin dal titolo, mentre
l'inserimento della citazione non mi ha convinta particolarmente. Era molto
difficile, però, e per questo non ti ho tolto molto.
La trama è originale, ma non troppo; con questo pacchetto avresti potuto
utilizzare anche altri personaggi, creare un intreccio un po' più sviluppato.
La caratterizzazione è il parametro che mi ha convinta di meno: non riesco
proprio a vederlo Teddy che pensa tutto quello che dici all'inizio e dopo
qualche pagina cambi radicalmente idea. Certo, dopo aver rivissuto quel momento
con i suoi genitori, può averli perdonati. Ma non penso che possa cambiare idea
così velocemente e con questa facilità. Tutto sommato, però, la storia fila, e
Remus e Ninfadora sono caratterizzati in poche, buone righe; Lupin non mi convince
– nemmeno lui, poveretto –, ma tutto sommato è un personaggio molto buono.
A questo punto, mi eclisso,
come mio solito, ringraziando i lettori, i recensori, chi preferirà o
ricorderà.
Alla prossima.
Alchimista ~
♥