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Autore: Dark Roku     16/01/2011    4 recensioni
La vita di Ven è la normale vita di un adolescente, senza contare il senso di vuoto che lo accompagna e il fatto che sia innamorato dell'autista dell'autobus, Terra che è più confuso di un quadro di Picasso.
Suo fratello Sora cerca di scolpire la sua corazza di vetro, mentre Riku chiede solo che Sora ricambi il suo amore, così come Demyx, quasi analfabeta, ma che passa tutti i giorni in biblioteca solo per guardare il bibliotecario.
E poi c'è Kairi: riuscirà a far pace con sua zia? E cosa si nasconde dietro lo strano ritorno di suo fratello? E Naminè che spera solo nel principe azzurro.
Infine, distante dalle vite che si intrecciano sulle Destiny, la vita di Roxas, adolescente ricco e viziato è avvolta nella pioggia di Rain Town.
Però, forse il destino non è sempre prevedibile come sembra...
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
Capitoli:
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Adulti e adolescenti


Quando Roxas si svegliò era ancora notte e per poco non gli venne un colpo. Niente tuoni, niente lampi, niente ticchettio sui vetri, niente freddo che si insinuava sotto le lenzuola.
Gli ci volle qualche secondo per riorganizzare le idee e capire il perché di tutto quel caldo, quell’oscurità davanti all’occhio sinistro e i dolori in tutto il corpo. Lui non era a casa. Era in quell’orribile posto sperduto in compagnia di servi impiccioni, un padre senza umorismo e una donna con un gancio destro da lottatore di Wrestling. Senza poi dimenticare la banda di svitati di cui faceva parte il suo gemello scemo.
Già, Roxas aveva adorato quel mondezzaio dal primo momento in cui l’aveva visto.
Con il braccio sano si tirò le coperte fin sopra la testa, cercando di rimettersi a dormire. Impossibile, concluse. Troppo caldo e poi degli uccellini troppo mattinieri gli stavano spaccando i timpani con il loro grazioso cip cip.
- MARLUXIA! – urlò istericamente. La sua voce rimbalzò in tutta la casa. Se suo padre si fosse svegliato, tanto meglio. Dopo alcuni secondi dei passi pesanti annunciarono l’arrivo del maggiordomo, che apparve sulla porta in un pigiama grigio e con sguardo assonnato.
Marluxia sbadigliò e lo guardò truce: - Che diavolo vuoi alle tre di mattina? – chiese inviperito. Roxas pensò che doveva aver bestemmiato per tutto il tragitto.
- Spara agli uccellini. – disse semplicemente, senza neanche alzare la testa dai cuscini – Non mi fanno dormire. – Il servo lo guardò, prima divertito, poi adirato e infine esasperato:
- Oh, mi dispiace tanto che quegli indegni animali abbiano turbato il vostro sonno ristoratore. – fece ironico – Adesso farò estinguere tutte le specie animali capaci di emetter suono, in modo che voi possiate riposare senza intralci. –
- Smettila. – ordinò Roxas chiudendo gli occhi. La sua servitù era davvero inutile. – Trova un modo per zittire quei cosi. E installa immediatamente un condizionatore.
- Roxas sono le tre di notte. – rispose serio.
- Poco fa erano le tre di mattina. Come vola il tempo. – Marluxia lo ignorò: - Dubito che qui troveremo un condizionatore anche in pieno di giorno, figurarsi a quest’ora. E poi non potete chiedermi di sparare a tutti gli uccelli di queste isole. Sarebbe più fattibile prosciugare l’oceano. –
- Allora prosciugalo, così almeno non arriverà questa puzza di acqua sporca. – e Marluxia maledì i sensi sopraffini del ragazzo che era capace di fiutare un odore a chilometri di distanza e di sentire una voce, anche se stava zitta.
Non che fosse una novità poi. Lui alle richieste assurde c’era abituato. Come quando da piccolo Roxas guardava i documentari e ogni tanto se ne usciva con cose tipo “Vollo una cacca di cammello” e per lui era irrilevante che non ci fossero cammelli, né zoo nel raggio di migliaia di miglia. No, lui pretendeva di averli e, una volta perso una giornata di viaggio per portare un sacchetto puzzolente, ci si sentiva rispondere “Che ‘chifo. Buttalo” e veniva voglia di strangolare quel bel bambino biondo.
Roxas provò ad alzarsi, ma una fitta al braccio gli fece sfuggire un gemito di dolore. Marluxia gli si avvicinò, le braccia che ricadevano lungo i fianchi.
- Dove vuoi andare? – gli chiese vedendo le sue smorfie di dolore.
- Da qualche parte in cui io possa dormire in pace. – il servo si avvicinò alla finestra. Fuori, a parte il canto degli uccelli, regnava la calma più totale.
- Abbiamo dei tappi e un ventilatore, se puoi accontentarti. – disse, sapendo che era inutile. Roxas, anche a costo di non dormire per tutta la notte, non si sarebbe mai abbassato ad accettare le proposte di un maggiordomo.
- Che oggetti barbari e plebei. – rispose infatti. – Domani compra dei muri insonorizzati e installa un condizionatore. Ora vai. – e quello era un congedo. Marluxia sospirando uscì dalla stanza.
Roxas sbuffò e chiuse gli occhi. Quel posto faceva schifo e la presenza di Ven, che aleggiava nell’aria con l’odore salmastro, di certo non migliorava le cose.

Reno era sempre il primo a svegliarsi. Nella sua routine quotidiana rientrava: lavarsi, vestirsi, preparare la colazione, svegliare Elena, Kairi e adesso anche Axel, e uscire di casa per andare al lavoro.
Per cui si stupì quando aprendo gli occhi, alle sei in punto come ogni mattina sentì dei rumori provenire dal basso e l’odore di caffè forte gli stuzzicò le narici.
Ma si sconvolse ancor di più quando scese lentamente e trovò Axel, il suo fratello incapace, dormiglione e nullafacente seduto al tavolo, già con la divisa da lavoro e con una tazza fumante di caffèlatte tra le mani.
- Non sapevo sapessi fare il caffè. – osservò stiracchiandosi e prendendo una tazzina.
- L’ho imparato a Rain Town. Ho lavorato in una caffetteria. – ma entrambi sapevano che quella era una bugia. Il tono di Axel era pacato e assolutamente calmo. Reno si sedette di fronte a lui e cercò di guardarlo negli occhi ma Axel continuava a tenere gli occhi fissi sulla tazza.
- Non avresti dovuto trattarla in quel modo. – lo richiamò senza neanche specificare cosa. Axel distolse per un attimo lo sguardo e poi rispose, senza scomporsi: - Se l’è cercato. -.
- Sai che non è così. – Reno sorseggiò il caffè e costatò che faceva davvero schifo.
- Invece lo è. Kairi non crescerà se continui a trattarla come un’idiota. Deve imparare a cavarsela da sola. – Reno sospirò, chiedendosi perché suo fratello fosse così stupido:
- Senti Axel…- cominciò serio – Non mi interessa quello che hai visto, fatto o imparato là. Non puoi spezzare il cuore a Kairi, solo perché…-.
- Buongiorno. – Elena interruppe la loro conversazione. Era già mezza pronta per andare al lavoro, notò Axel meravigliandosi di non essersi neanche accorto che si era svegliata. Eppure lei indossava ancora il pantalone del pigiama, ma già un golfino beige e un orologio. Li guardò rimproverante. – Non va bene parlare di queste cose di prima mattina, vediamo di far iniziare bene la giornata. –
Reno tentò di lanciare un’occhiata ad Axel, senza riuscirci di nuovo, e si alzò in piedi. Baciò Elena sulla fronte e salì le scale borbottando un “Vado a prepararmi”.
- Axel…- cominciò Elena aprendo il frigo e prendendo il latte. Axel si alzò spazientito:
- Che c’è? Vuoi anche tu farmi la predica per “Come ho trattato la povera Kairi”? – si infilò il cellulare in tasca. Elena scosse la testa:
- No. Solo buona giornata. –
- Buona giornata. – Axel uscì sbattendo la porta e la casa ripiombò nel silenzio.

Quando Riku si svegliò la prima cosa che avvertì furono dolori in tutto il corpo. La seconda fu un grande peso poggiato sul suo petto, che per poco non gli impediva di respirare.
Aprì lentamente gli occhi e non si sorprese di vedere Xion, avvinghiata a lui, che dormiva placidamente.
Erano entrambi sul pavimento della cucina, che era un vero disastro, e poco distanti da loro, abbandonato su una sedia Zexion sonnecchiava a braccia conserte. Demyx, invece, aveva optato una soluzione più pratica: sdraiato sul tavolo, con braccia, gambe e bocca spalancate, che ogni tanto muoveva, come se stesse facendo un angelo nella neve.
Riku tentò di ricostruire gli eventi della sera prima: c’era stato quel ridicolo spettacolino organizzato da Aqua, poi avevano deciso che la papera sarebbe rimasta e poi…
Avevano passato la notte a inseguire una papera e sembrava che nella loro casa fosse appena passato Sonic The Hedgehog inseguito dal Dottor Eggman.
O almeno quello era stato il paragone di Demyx per sdrammatizzare una situazione. Come se non fosse un dramma abbastanza ridicolo di suo.
Rinku, chiuse gli occhi assaporando quell’attimo di tranquillità e poi guardò Xion: i capelli neri le ricadevano sugli occhi chiusi e le mani erano poggiate a pugni sul suo petto. Quando dormiva poteva sembrare davvero carina…e innocente.
La poggiò sul pavimento sollevandola di peso e si alzò, sebbene fosse dolorante.
Si guardò attorno stropicciandosi gli occhi: davvero sembrava ci fosse appena stato un uragano nella loro cucina. Stoviglie per terra, piatti rotti, persone sul tavolo…e Aqua. Seduta sul pavimento, poco distante dalla sedia di Zexion lo guardava sorseggiando qualcosa che Riku non riuscì a capire cosa fosse.
- Buongiorno. – gli disse sorridendo. Riku si accigliò e la guardò stranito:
- Perché non ci hai svegliato? –
- Eravate carini. Quando mi sono svegliata stamattina dormivate così bene. – Riku girò un po’ per la stanza, poi una frase di Aqua lo colpì.
- Cosa vuol dire “Stamattina”? Che ore sono? – chiese impaurito.
- Il tuo scuolabus è passato dieci minuti fa. – e gli ci volle qualche secondo per assimilare la frase.
Poi il panico. Si gettò su Zexion urlando, che sbatté una decina di volte gli occhi prima di correre al piano superiore a lavarsi, lasciando lì Riku con due ragazze sul pavimento, uno sul tavolo e una giornata davanti che pareva essere più strana della precedente.

Oltre al solito odore di dentifricio, sapone e caffè quella mattina nello scuolabus di Destiny c’era anche aria di malumore. E uno strano mormorio che era silenzio tombale in confronto alle urla degli altri giorni.
Tra i primi sedili si vociferava di una verifica di storia a sorpresa che avrebbe messo l’insegnante della terza ora, cose che nessuno aveva studiato e qualcuno aveva anche tirato fuori il libro. Quello era il gruppo dei secchioni, pensava Terra. Il suo autobus era diviso in gruppi e ognuno aveva una posizione. Gruppi mai detti, posti segnati da scritte visibili solo nella mente di chi li frequentava.
Come se fosse uno strano film in cui ognuno rispettava il proprio copione. La solita routine, niente a spezzare la monotonia, gli strappi alle regole puniti severamente.
In gruppi erano quattro, in pratica: i secchioni, capitanati da un tizio di primo liceo, basso e con degli occhiali giganteschi, la classica “vittima preferita dai bulli”. C’erano anche loro sull’autobus, in gruppo con “gli atleti”. Sedevano agli ultimi posti, sgranocchiando rumorosamente merendine rubate e parlando in dialetto, ma fortunatamente almeno lì non picchiavano nessuno…non c’era da biasimarli se l’ultima volta che qualcuno lo aveva fatto, Terra, che era tutto tranne che debole, gli aveva spaccato il naso e lo aveva fatto scendere in mezzo alla strada.
Tra gli ultimi sedili, davanti ai bulli, guardandoli e ridacchiando ogni tanto – perché i ragazzi cattivi sono sexy- non ci si potevano trovare che le pupe. Bionde, rosse, more, non aveva importanza, per farne parte bisognava essere magre come stecchi, con un reggiseno imbottito e il doppio della quantità di trucco di un pagliaccio del circo. Ogni tanto anche Kairi vi andava, ma quel giorno era seduta tra i”neutrali”.
Ecco, i neutrali erano l’ultimo gruppo. Persone sedute nei posti centrali dell’autobus, a cui gli altri gruppi non facevano né caldo, né freddo, con voti mediocri a scuola e un’espressione assorta mentre guardavano fuori. Loro erano quasi sempre silenziosi, ma pareva che il loro silenzio si fosse esteso al resto dell’autobus: i secchioni sui libri, senza scambiarsi opinioni, i bulli mangiavano senza far troppo rumore e le pupe si truccavano silenziosamente.
I neutrali erano quelli che interessavano di più a Terra. Non solo perché Ven (che quel giorno gli aveva mormorato “buongiorno” imbarazzato e non gli aveva rivolto più la parola) ne faceva parte, ma anche perché li trovava interessanti, diversi dagli altri ragazzi. Fuori dagli schemi.
Quel giorno erano quattro: Ven, che guardava fuori e ogni tanto sospirava, Sora che lo guardava a sua volta e poi distoglieva tristemente lo sguardo, Kairi che singhiozzava e Naminè (solitamente tra i secchioni, con Riku, che quel giorno era assente) che, dopo aver provato per dieci minuti a consolarla si era arresa e se ne stava seduta al suo fianco, con l’album da disegno stretto tra le mani e gli occhi chiusi.
Già, erano davvero interessanti.

La mattina di Roxas era cominciata molte ore prima. Dopo aver appurato che non avrebbe più ripreso sonno alle quattro si era alzato dolorante e con molta fatica si era vestito - non che il non-dormire per lui fosse un problema, a Rain Town c’erano settimane in cui Morfeo lo scansava come se fosse peste e lui reggeva egregiamente fresco come una rosa, tenuto in vita da tazze di caffè e dosi di odio…e altro- . Poi era uscito di soppiatto, senza neanche sapere dove voleva andare.
Aveva vagato per quel dannatissimo paese, richiamando tutti i santi che conosceva e inventandone anche alcuni, per tutta quella dannata luce rosa (Da quando l’alba cominciava alle cinque meno un quarto???) e quella puzza. Era così diverso dal suo paese: lì, se uscivi a quell’ora non tornavi prima di essere stato stuprato, derubato e completamente drogato. Roxas a volte usciva, quando non riusciva a prender sonno e forse quella mattina aveva fatto lo stesso pensando di trovar le stesse cose. E invece la città era nel completo silenzio, già parzialmente illuminata e gli unici esseri in giro erano i cani e i gatti che dormivano nei parchi: pure quelli erano calmissimi!Rain Town non dormiva mai, e invece lì era come se il paese vivesse sotto sedativi: che noia! Non avrebbe vissuto lì, neanche in cambio di vedere suo padre finire nella merda più profonda con quella sgualdrina da quattro soldi…no, forse per quello il sacrificio lo avrebbe fatto.
Poi era sceso sulla spiaggia e lì il suo disgusto aveva raggiunto il limite: tutta quella sabbia che gli si infilava nelle sneakers con i decori in oro e rubini e i lacci di seta –aveva deciso di mettere delle scarpe “scadenti” per evitare che le altre si sporcassero -, gli solleticava i piedi ed era terribilmente fastidiosa. C’era rimasto solo perché il mare lo aveva affascinato: avanti e indietro, avanti e indietro con i primi raggi di sole che lo rendevano brillante, era calmante. Quando il primo bar aveva aperto ci si era fiondato dentro e la scena era stata più o meno questa:
- Un caffè. –
- Qual è la parolina magica? –
- Vaffanculo? –
- No. Sei troppo piccolo per prendere un caffè. Torna quando avrai imparato l’educazione. –
E Roxas l’aveva mandato a quel paese, senza neanche sforzarsi di tradurlo nella lingua del posto ed era uscito, irritato come non mai: che sfacciataggine!
Aveva vagato un po’ per la città tentando di sbollire la rabbia e, quando il campanile principale aveva rintoccato sette volte aveva chiamato Marluxia ordinando di non fare domande e di portargli un caffè e la cartella.
E solo quando Marluxia gli aveva chiesto “Come non sai dove sei? Dai Roxas, conosci come le tue tasche una città che è cento volte questa e non riesci ad orientarti in un pertugio?” si era davvero reso conto di quanto quel posto facesse schifo.

Kairi sapeva poco.
Sapeva poco della vita.  Spesso la definivano “superficiale” perché si fermava alle apparenze, senza approfondire troppo. Le persone non capivano. Non capivano che lei si fermava alle apparenze perché le poche volte che era andata in fondo era stato troppo doloroso. Allora preferiva vedere, Naminè per fare un esempio, come una ragazza bella, dolce e gentile, facendo finta di non sapere a cosa era dovuta la sua gentilezza.
 Sapeva poco dei suoi genitori. Erano morti quando aveva solo cinque anni, lasciandoli con una zia che abitava lontano fin quando Reno non era diventato maggiorenne e loro erano tornati sull’isola.
I ricordi che aveva di loro erano confusi, forse falsi. Non riusciva a ricordare il sorriso di sua madre, o le carezza di suo padre. Per lei c’erano sempre stati solo Reno che la sgridava e Axel che la difendeva. Quella era la sua vita. Nient’altro.
Sapeva poco della scuola. I suoi voti erano mediocri. Quando era piccola, alle elementari, era la più brava della classe. Era una bambina intelligente, costantemente educata e buona. Poi era arrivata Elena che le aveva portato via Reno, e visto che Elena rappresentava la scuola, la scuola andava odiata.
Sapeva poco di se stessa: non si sforzava neanche di conoscersi a fondo. Non si era mai fermata a riflettere su cosa le piaceva davvero e cosa odiava. Preferiva nascondersi dietro un lucidalabbra e del mascara ed essere sempre l’allegra, bella, falsa Kairi.
Sapeva poco di Axel. Da quando era tornato, era completamente diverso, come un’altra persone. Aveva passato tre anni, ogni volta che Elena e Reno la sgridavano, a consolarsi con il pensiero che se Axel fosse stato lì, l’avrebbe sicuramente protetta e invece quando era tornato l’aveva fatta sentire una stupida, perché aveva passato tre anni ad illudersi. E tutti quel “Sono cresciuto” e cose del genere Axel non li avrebbe mai detti. Non sapeva neanche perché era diventato così, chi o cosa l’aveva cambiato in modo così radicale (E questo era ancora peggio, che sapere chi o cosa era stato).
Kairi aveva solo tre certezze nella vita:
La prima era che Reno se n’era andato, adesso era di Elena.
La seconda era che Axel l’aveva abbandonata e non sapeva neanche perché.
E l’ultima era che ormai era sola e le cose non sarebbero mai tornate come prima.

Demyx era convinto che Xemnas l’avrebbe licenziato. Correva a perdifiato per le vie, cercando di diminuire il più possibile il ritardo che avrebbe fatto al lavoro.
Probabilmente il capo aveva già appeso il cartello “Cercasi Bar Man/Cameriere” e lui sarebbe finito sotto un  ponte a chiedere elemosina.
Zexion lo avrebbe cacciato, era solo questione di tempo. Non gli aveva ancora chiesto se lo amava o meno, ma continuava ad ignorarlo per cui la risposta era no.
Larxene e Axel la sera prima gli avevano aperto gli occhi.
Smettila di illuderti Demyx. Gli avevano detto E’ chiaro che quel tizio ti sopporta a malapena, figuriamo amarti. E lui aveva pensato che lo dicevano solo per farlo soffrire, perché per colpa sua avevano rischiato il lavoro, e se n’era andato senza rivolgergli la parola.
Dopotutto, quand’erano piccoli Larxene e Axel gli avevano fatto centinaia di scherzi. Ma adesso erano entrambi cambiati, si erano allontanati come se non gli importasse più niente l’uno dell’altro.
A Demyx sarebbe piaciuto davvero tanto tornare a quando avevano otto anni e le cose andavano bene.
Svoltò l’angolo e entrò dalla porta sul retro, sperando che i suoi colleghi non si fossero accorti della sua assenza.
Tirò un sospiro di sollievo, quando arrivò nel bar, dove Axel lo stava sostituendo.
- Sei in ritardo. – osservò atono il rosso, lavando una tazzina di caffè. Non lo aveva nemmeno salutato.
- Mi dispiace. – rispose Demyx annodando il grembiule. La loro divisa era la classica divisa da camerieri: pantalone nero, camicia bianca e gilet nero con i bottoni dorati.
- Io e Larxene ti abbiamo coperto, ma sappi che la prossima volta non lo faremo. – se ne andò con lo sguardo basso e Demyx notò che aveva un’espressione lugubre in faccia e gli occhi rossi, segno che probabilmente non aveva dormito.
Però sorrise mentre chiedeva a un cliente cosa prendeva.
In fondo le cose non erano cambiate così tanto.

Se Ven il giorno prima aveva quasi avuto un infarto quando aveva visto Roxas, quella mattina allora poteva essere decretato biologicamente morto.
 Forse suggestionato dai sogni di quella notte – che riguardavano in parte Terra, in parte Roxas -, forse perché Roxas era ancora più spaventoso, lanciò un gridolino quando entrando in classe lo vide.
Era seduto in prima fila con il mento poggiato nelle mani aperte a coppa, i gomiti appoggiati al banco; era pallido come un lenzuolo, una benda bianca gli copriva l’occhio sinistro, e sotto quello destro vi erano delle occhiaie rosse spaventose. L’espressione era a momenti assente, a momenti irritata e subito dopo pensierosa e non degnò Ven di un solo sguardo, quando entrò.
Tuttavia quello rimase ad osservarlo paralizzato per parecchi secondi, poi deglutendo gli si avvicinò.
- Che-che cosa ti è successo? – domandò indicando l’occhio sinistro.
Roxas sorrise interiormente: Marluxia si sbagliava, avrebbe avuto l’occasione per rovinare la reputazione di Cloud. Gli sarebbe bastato alzare un po’ di più la voce, spezzarla un pochino e fingere tristezza et voilà... suo padre sarebbe stato perduto.
Ma le parole gli morirono in gola. – Non vedo come possa interessarti. – Sora trascinò via Ven e Roxas si maledì. E che gli era preso in quel momento? Perché non lo aveva detto? Bah, sicuramente colpa della mancanza di riposo. Era come se si fosse fatto una mezza canna.
- Riku non c’è. – notò Sora tristemente, osservando il banco vuoto. Ven non gli rispose e continuò a guardare Roxas, pieno di qualcosa che Sora non avrebbe saputo riconoscere.
Poi l’illuminazione. Si coprì la bocca con le mani e spalancò gli occhi: possibile che fosse preoccupazione quella? Che Ven era preoccupato perché Roxas si era fatto male?
Impossibile, lo conosceva da meno di un giorno. Ven era quello che quando lui cadeva dalle palme della spiaggia si limitava a dire “Te l’avevo detto di non salire”, non si era mai preoccupato per lui. Anche se la maggior parte delle volte ci salivano insieme e loro madre sgridava entrambi.
Però Ven NON poteva preoccuparsi per Roxas. NON doveva farlo.
La professore di matematica entrò urlando “Buongiorno” per zittire il chiacchierio. Si si sedette e aprì il registro.
- Aoi Riku. – calò il silenzio. Tanti si guardarono in faccia e il professore alzò lo sguardo: - E’ assente? Perché Riku è assente? – Tutti si voltarono verso Sora e quello arrossì. Lui e Riku stavano sempre insieme, ovvio che pensassero che sapeva dov’era.
- Io…non lo so. – disse tenendo gli occhi fissi sul banco. Poi la porta si spalancò e Riku entrò tutto trafelato. Aveva i capelli argentei scompigliati e la camicia abbottonata storta, ma ciò, lo rendeva ancora più figo, pensò Naminè vedendo le sue compagne guardarlo sospirando.
Sora sembrò sollevato e Riku si inchinò, con il fiatone e rosso in viso:
- Professore…- sospirò – Mi scusi il ritardo. – Quello gli lanciò un’occhiataccia e borbottò “Va a sederti”.
Riku fece come gli era stato detto e Sora lo guardò come a dire “Dov’eri finito?”
- Un casino. – mormorò – Ti racconto dopo. –
E “un casino” era il modo migliore per descrivere quella giornata.

Naminè proprio non riusciva a concentrarsi. Lei odiava le materie scientifiche, le studiava solo per far contento suo padre e i professori. Ma quel giorno era particolarmente disattenta e la sua testa vagava da un pensiero all’altro carpendo ogni tanto qualche parola del professore, ma non riuscendo a cogliere una frase intera.
Pensava ad Axel, il fratello di Kairi, perché in lui c’era qualcosa che non quadrava. A come l’aveva trattata la sera prima e a come Kairi c’era rimasta male.
Pensava a Riku, che in quei giorni sembrava star impazzendo, diviso a metà tra Sora e la sua famiglia.
Pensava anche a Xion e un po’ le faceva pena, perché se rimaneva così attaccata al cugino non sarebbe mai riuscita ad uscire dal suo guscio.
Pensava a Sora, così apprensivo con il fratello, così dolce e ingenuo, così confuso.
A Ven, che era quello che compativa di più, perché Roxas doveva essere un duro colpo.
Roxas era quello su cui cadevano più volte i suoi pensieri: così affascinante, segreto, bugiardo, ricco e impossibile. Come il protagonista di uno di quei film che guardava con Kairi.
E poi pensava a quello che lei aveva definito “il quadrato impossibile”, che  non era un illusione ottica, ma un intreccio di relazioni: Riku-Sora-Ven-Roxas, i quali cambiavano parte, umore, carattere come ad un gigantesco ballo. Si chiedeva cosa sarebbe successo quando la musica si fosse fermata e lo immaginava come il dipinto di un grande pittore dell’impressionismo con un grande salone dorato con Kairi, a un lato, vestita di blu, come le sue lacrime, con Axel che guardava qualcosa che lei non poteva vedere, al suo fianco; al centro della stanza Riku, in grigio, accanto a Sora vestito di viola – il colore del tormento- che però guardava per terra e lontano da tutti e tutto Ven, di bianco, tendeva la mano a un Roxas completamente nero che tra le dita stringeva un cuore sanguinante.
Magari lo avrebbe dipinto, quando sarebbe stata più grande. Solo una cosa guastava in quel quadro: lei non c’era. Non avrebbe saputo proprio dove mettersi.

Axel stava impazzendo.  Non era una cosa proprio accertata, ma lui era convinto di star impazzendo.
Non sapeva neanche lui perché aveva trattato Kairi così, o perché si sentiva perseguitato.
Ad esempio quella mattina gli era parso di vedere qualcuno in riva al mare, e solo dopo essere scappato il suo cervello aveva dedotto che nessuno là era così scemo da andare al mare alle sei di mattina.
Sospirò, dando l’ultimo tiro alla sigaretta. Avrebbe dovuto chiedere scusa a sua sorella, non era mica colpa sua se era così teso.
- Il signor Flames ha forse cose più importanti a cui pensare che non gli permettono di svolgere bene il suo lavoro?- Xemnas lo fece sobbalzare.
- Neanche una pausa ci si può prendere! – sbottò schiacciando la sigaretta sotto il piede.
- Non nelle tue condizioni, Axel. – conosceva i suoi dipendenti, come figli. Li aveva avuti quasi tutti quando faceva l’insegnante al liceo e il paese era piccolo, per cui sapeva le loro storie – Ti tengo d’occhio, sei strano. – Axel lo guardò confuso: - Eh? –
Ma Xemnas si era già allontanato.
Bene, se lui stava impazzendo gli altri se n’erano accorti.

Zexion si annoiava, a dir poco. Se ne stava seduto al bancone, mentre con una mano reggeva un noiosissimo thriller e con l’altra tamburellava sul banco. L’uomo biondo, il nuovo padrone della libreria, era andato quella mattina per comunicargli i nuovi orari della biblioteca e tutti i cambiamenti che dovevano fare.
Inutile dire che Zexion non aveva ascoltato una parola di quello che aveva detto: di cambiamenti gliene avevano sempre proposti tanti e alla fine la biblioteca era ancora com’era quindici anni prima.
Chissà che fine aveva fatto Demyx. Quando Riku lo aveva svegliato quella mattina, la papera non c’era, era sparita nel nulla. Bah, forse era scappata, meglio così.
Sbuffando, gettò il libro sulla scrivania, incrociò le mani dietro la testa e fece fare un giro alla poltrona girevole. Che noia.
Zexion chiuse gli occhi pensando che se lui avesse potuto vivere, sarebbe diventato un caporedattore di un’editoria, o qualcosa del genere.
Perché lui non viveva. Lui sopravviveva. E sopravvivere era peggio che morire.

Roxas rispose all’ennesima domanda del professore, lasciando di stucco un’altra volta tutti. Aveva capito che quella sottospecie di insegnante doveva valutarlo, ma mica poteva interpellarlo ogni tre secondi. Specie dopo aver capito che era un genio e che sapeva già tutto.
Come si annoiava là. I professori erano certe pappe molli, certi fogli di carta che si scandalizzavano solo nel sentire tutto il programma riassunto in mezz’ora. Tipo quelli della scuola pubblica che aveva frequentato a Rain Town negli ultimi due mesi.
Il percorso scolastico di Roxas era stato strano: dai due ai sei anni era stato in un asilo nido, in cui la servitù lo accompagnava alle 08.00 e lo andava a prendere alle 21.00 ed era talmente pieno di attività che, una volta tornato a casa, non poteva fare altro che crollare sfinito.
In prima elementare aveva dato il meglio di sé, talmente da essere giudicato “Non idoneo alla scuola pubblica”. Un giorno aveva incendiato il banco e dato della zoccola alla maestra, solo perché l’aveva vista a casa sua e aveva pensato che era un’altra delle donne del padre.
E così, fino ad undici anni casa sua era stata invasa da una processione di psicologi e insegnanti privati molto severi – e maneschi, perché la politica di Cloud era che “Se ho un figlio storto c’è un solo modo per raddrizzarlo” e si riferiva proprio alle mani-.
Senza parlare di quelle discipline morte come galateo, buone maniere, pianoforte e tutte le arti possibili e immaginabili, che Roxas era costretto a imparare ogni giorno, perché “La signora, vorrebbe”.
Neanche una delle tante che avesse avuto pietà per lui….non che Roxas desiderasse la pietà di qualcuno.
Poi c’era stato il periodo che Roxas aveva considerato come il Boom della sua vita: La Scuola Privata Secondaria di I e II Grado di Boulevard de l'or, dov’era rimasto fino a quattordici anni, quando la scuola era “crollata” e lui era finito nella pubblica.
Una retta salatissima e professori e alunni – i più griffati e ricchi del pianeta – senza alcuna regola.
Lì, sì che Roxas si era divertito. Potevi litigare per giornate intere con i professori e quelli, magari ti avrebbero picchiato ma niente “Vado a chiamare i tuoi genitori”e note sul registro.
Persone sfrontate, frasi ricche di acido e superiorità.
- Tu Strife, che segno zodiacale sei? –
- Vergine, signore. –
- Davvero? Pensavo che la tua verginità fosse una leggenda del primo 1800. –
- Professore se lo volete, basta chiederlo. –
E tra una spiegazione e l’altra le giornate passavano così.
Roxas sospirò di nuovo lanciando un’occhiataccia al brillante cielo azzurro e al sole luminoso.
In quel posto tutto sapeva di allegria e felicità. Non poteva sopportarlo.

- Altro frappé alle fragole, Aqua? – chiese Terra cortese. Lo fece solo per educazione perché non aveva alcuna voglia di offrire altro a quella ingorda. Capiva che era ora della merenda, ma un pacco di patatine, un gelato alla vaniglia e un frappé alle fragole non erano un po’ troppo?
Avrebbe preferito una di quelle ragazze “O mio Dio, una patatina fritta! Mi rovinerà la linea!” che andava tutta tranquilla perché “tanto a me i chili si mettono davanti”.
Non che potesse darle torto con il fisico mingherlino e il davanzale che si ritrovava.
- Terra, mi stai guardando le tette? – chiese quella scettica con le nocche della mano già pronto a dargli uno di quei ceffoni che solo Aqua sapeva dare. In pratica non lo dava con il palmo, ma con la parte esterna e, avendo le nocche durissime e le unghia affilate, oltre allo schiaffo subivi un pugno e se ti andava proprio male pure qualche graffio.
Il ragazzo si riscosse prontamente mettendosi fuori portata: - Ero-ero sovrappensiero. – provò a giustificarsi.
- E allora va in sovrappensiero da qualche altra parte. – rimbeccò acida. Terra si pentì di averla invitata “ a prendere qualcosa al bar dei tredici”: pensava di ottenere una consulenza gratuita facendola passare per chiacchierata fra amici, invece fino a quel momento lei aveva mangiato a sbafo e lui aveva pensato a cosa dirle.
- Aqua…- chiamò distogliendola dallo giocherellare con il bordo del bicchiere. Delle goccioline rosa salivano e scendevano dalla cannuccia trasparente. – Mh? –
- In pratica c’è questo mio amico… - cominciò con fare misterioso. Se non sapeva che era per lui la consulenza non poteva farlo pagare. In fondo fregare una matta non doveva essere così difficile. – A cui piace un ragazzo…anzi no, una ragazza. – Aqua inarcò un sopracciglio scetticamente. Dannazione, non doveva improvvisare, non gli veniva mai bene.
- Però in pratica questa ragazza non lo sa. E lui l'ha accarezzata sulla testa. Così. – Gli mise una mano sui capelli color cielo. Lei la tolse prontamente: - Mi rovini l’acconciatura. –
Acconciatura? Come se non sapesse che per quanta lacca metteva neanche una tempesta di meteoriti le avrebbe spostato una ciocca.
- Comunque ora questo mio amico vorrebbe sapere cosa deve fare. Perché vede questa ragazza anche molto spesso e la desidera. – cercò di non mostrare il suo imbarazzo a quelle parole. Dopotutto era “un suo amico” innamorato di “una ragazza”.
Quella, più che una domanda per una psicologa, era una domanda per quelle rubriche amorose su quei giornali per donne – non che Terra ne avesse mai letto uno, gli era capitato per caso, sia chiaro – ma, in fondo, l’azzurra era anche la sua consulente in amore.
Aqua lasciò finalmente il bicchiere vuoto e incrociò le mani al petto (per quanto le fosse possibile). Era una delle posizioni che assumeva quando pensava.
- Vediamo: direi che dovrebbe prima cercare di scoprire, in qualche modo, se la ragazza è innamorata di lui e se lo è dovrebbe dirglielo, se non lo è…cambiare città potrebbe essere una buona soluzione. – continuò ad annuire anche dopo aver finito per sostenere il consiglio.
“Ma se non ha abbastanza soldi?” avrebbe voluto chiedere ma non lo fece per non farsi scoprire.
- Ok, grazie. Vado a dirglielo. – Stava per alzarsi ma Aqua gli tese il palmo. La guardò interrogativo.
- Dieci bigliettoni. O altrimenti la prossima volta che tocchi Ven il signor Leonhart lo saprà prima di quanto tu possa immaginare.-
Terra, per non perdere quel briciolo di dignità che gli era rimasta, pagò in silenzio.

Tifa si stava lamentando. Non era la prima volta che si lamentava però in quel momento lo stava facendo più forte. Da almeno cinque minuti.
Ormai stavano insieme da un mese e lui aveva subito sempre le stesse lamentele, e non solo da lei, ma da tutte le donne che aveva avuto.
“Non stai mai con me”, “Sei sempre in viaggio per lavoro”, “Sembra che ti importi più delle tue industrie che di me” e tutto il solito repertorio che le donne tiravano fuori quando si arrabbiavano, sempre così monotono che si stupiva di quanto i loro copioni fossero tutti uguali.
Non capivano. Per quanto poteva amarle (e non sempre lo faceva davvero) aveva quasi monopolizzato l’industria mondiale, un po’ di attenzione da parte dei suoi confronti ci voleva, no?
Aveva assunto un dirigente per ogni settore ma comunque doveva fare attenzione a quello che succedeva.
E, anche se si era fatto convincere da Tifa a fare quella “vacanza” lì, per staccarsi un po’ da tutto, doveva comunque lavorare.
La ramanzina del giorno era perché era stato al telefono per due ore. A Rain Town, non ricordava neanche in quale campo, avevano avuto un problema per un blocco di fondi e a lui era toccato risolverlo spendendo di bolletta quanto entrava nelle sue casse in un mese.
…No, quella era una grandissima cazzata.
Neanche nel secondo più misero della sua vita aveva guadagnato così poco.
E poi quella mattina aveva avuto un altro motivo per essere irritato. Aveva controllato le uscite e se lo sarebbe ricordato) spendeva a settimana quattro volte la sua paghetta settimanale.
Già, quell’essere inutile e piantagrane nato da un suo spermatozoo che aveva sfortunatamente fecondato con le ovaie di una tizia di cui non ricordava neanche il nome.
Ma quella era una bugia.
Quanti guai gli aveva procurato nei suoi diciassette (o erano sedici? O forse diciotto?)anni di vita?
Sembrava che facesse di tutto per minare alla sua reputazione.
Aveva speso milioni per coprire tutti i suoi casini: la droga, il suo nome accusato da boss della malavita (neanche riusciva a capacitarsi di come ci fosse arrivato), le foto scattate dai paparazzi davanti ai pub che lo ritraevano mezzo nudo a flirtare con qualcosa (perché ce n’erano con qualunque cosa dotata di vita, da una bambina di tredici anni a un trentenne tatuato), per non parlare di quanto gli era costata la clinica di disintossicazione dove aveva dovuto mandarlo dopo l’overdose!
Il resoconto delle spese fatte prima di partire era spaventoso: aveva svaligiato tutti i negozi (comprando anche roba inutile come una gonna a fiori anni 80) di “Rue de la mode”, la via dall’alta moda e la più cara di Rain Town, dove, come recitava il cartello all’inizio della strada “Se non hai almeno 320 munny nel portafoglio non ti compri nemmeno un fazzoletto”.
Sopprimerlo e coprire tutto sarebbe costato molto meno.
- Cloud, ma mi stai ascoltando? – Tifa irritata irruppe nei suoi pensieri.
La guardò: indossava un pantalone beige e una camicia nera e i capelli erano legati in una coda.
Cloud non si fece trovare impreparato: - No. La prossima volta nasconditi dietro qualcosa quando parli, così la tua bellezza non può distrarmi. –
Lei non tentenno: - Guarda che stavo parlando di una cosa seria. – Cloud annuì, le si avvicinò, le strinse le spalle e le infilò la lingua in bocca.
Tifa, ovviamente, perse il filo del discorso e forse non si sarebbe neanche ricordata di cosa stavano parlando.
Cloud sospirò dentro di sé. Quella tattica funzionava sempre con tutte.
Già, tutte tranne una.
Ma lei era diversa.

Fortuna che quel giorno era libera, così aveva potuto mettere a posto casa sua!
Da quando era arrivato Terra, tutto quello nel garage era stato spostato in quella casa e ora non si capiva più niente.
Per di più i suoi figli non l’aiutavano per niente, lasciando giocattoli, libri e mutande in giro per la casa.
Ma quante volte glielo aveva detto di mettere a posto quella dannata stanza?
Lei stessa, dopo aver aperto la porta e non essere riuscita ad entrare a causa del pavimento interamente occupato da cose, aveva rinunciato e si era limitata a spruzzarvi un po’ di deodorante per ambienti e richiuderla, per lasciarla per ultima, perché – era certa – dare un aspetto decente a quella stanza le avrebbe occupato tutto il pomeriggio.
Li avrebbe puniti quei due, era certa. Sora e Ven erano la cosa migliore che gli fosse capitata, ma Aerith ogni tanto si ritrovava a pensare che tutto quello che aveva fatto in sedici anni per educarli era stato tutto inutile. E persino Squall, il poliziotto che sarebbe dovuto essere più che severo, ogni volta che li vedeva veniva preso da improvvisi attacchi di bontà, e si scioglieva ai loro sorrisi.
Certo, di difetti quei tre (sì, tutti e tre) ne avevano a bizzeffe, ma Aerith li amava per quello che erano, mutande sparse comprese.
Facendosi coraggio aprì la porta della camera, facendo un piccolo resoconto.
Beh, aveva trentadue anni, due splendidi figli, una ditta di pulizie per tutto il piccolo meraviglioso paese in cui abitava, un marito che amava da morire e nessun rimpianto.
Si bloccò mentre alzava un libro di matematica, probabilmente lanciato a terra in un momento di rabbia (perché “Signora, i suoi figli sono intelligenti ma non si applicano”).
Nessun rimpianto. Suo marito era perfetto e i suoi due figli erano meravigliosi.
Scacciò dalla testa l’assurdo pensiero che per un attimo aveva formulato.
No. Il passato era passato. Ciò che si era lasciato non poteva tornare.
La sua vita doveva continuare. Lei non aveva nessun rimpianto.

Anche Marluxia stava mettendo a posto in un’altra stanza molto disordinata, solo che in quel caso per terra c’erano soprattutto vetri e alcune macchie di sangue.
Se ci fosse stato qualcuno di CSI probabilmente avrebbe giurato che c’era stato un omicidio e chi avrebbe pensato che era solo colpa di un ragazzino scemo – o fin troppo geniale, dipende dai punti di vista – che, tutto ammaccato alle tre di mattina avesse deciso di alzarsi, prendere una bottiglia (di...cos’era? Vodka?), tagliarsi nel tentativo di aprirla e fallito quello, gettarla per terra e uscire per andare chissà dove.
Ma ormai aveva imparato a non sorprendersi più per Roxas, lo conosceva da troppo tempo.
Suo padre era il cameriere personale di Cloud, sua madre era la cuoca di servizio e così lui negli alloggi della servitù di villa Strife ci era nato e cresciuto e, come per una maledizione, era rimasto lì tutta la vita – come tutti gli altri d’altronde - .
- Siete solo un mucchietto di galline e polli in gabbia- gli diceva Roxas, nei momenti in cui era più gentile – nascete e vivete solo per servirmi e procreate per darmi altri servitori.
E, per quanto crudeli, erano cose vere: fin da quando erano bambini lui e gli altri erano stati educati a lavare, stirare e servire, come in un ghetto di stranieri. Nessuna possibilità di andarsene. Nessuna possibilità di uscire. Solo pochi c’erano riusciti ma probabilmente erano morti prima di sistemarsi.
Lui aveva dieci anni quando Roxas era nato. A quel tempo le cose andavano bene.
C’era il vecchio signor Strife, il giovane Cloud e la sua amabile ragazza. Tutti volevano bene a loro e a quel pancione ogni giorno più grande, che riceveva più attenzioni della coppia messa insieme.
Neanche sapeva come si erano ritrovati in quella situazione. Il signor Strife era morto.
La “signora dal cognome impronunciabile e il nome che non si può scrivere” se n’era, portandosi via i cuori di Roxas e Cloud.
Aveva lasciato lì solo due corpi vuoti e freddi che non sarebbe stati più riempiti.

Le Isole del Destino erano quasi un’utopia, uno di quei posti ideali in cui non c’è criminalità e vivono tutti felici e contenti.
Ed era proprio per questo che le persone che andavano in vacanza lì si chiedevano a cosa servisse una stazione di polizia e cosa facessero i poliziotti tutto il tempo.
Anche Squall se l’era chiesto, quando era stato assunto.
Lui era nato e cresciuto a Rain Town dove il tasso di criminalità era pari a quello di smog, per cui era abituato a vedersi episodi di cronaca nera scorrere davanti agli occhi come scene di vita quotidiana e si era sentito quasi in paradiso arrivato lì.
Non succedeva mai niente, perché tutti conoscevano tutti e se succedeva qualcosa la vicina di casa lo sapeva. La situazione si movimentava un po’ solo quando c’erano i turisti.
E questo, soprattutto d’inverno, poteva essere noioso per loro che erano solo in tre: lui e due agenti.
Sorrise al pensiero del tema che Sora aveva fatto in terza elementare in cui aveva scritto “Mio papà fa il poliziotto. Ha anche una pistola, come nei giochi di Riku. Però non la usa mai perché dice che qua non ci sono uomini cattivi. Una volta mi piacerebbe vederlo sparare.”
Lui adorava la sua famiglia. Era tutto quello che aveva. Amava Aerith e voleva un mondo di bene a Sora. E Ven. Con lui era tutta un’altra storia: sapeva di doverlo considerare come suo figlio, ma proprio non ci riusciva. Sì, gli voleva bene, aveva cercato non fargli mancare mai niente, ma sapere che non era sangue del suo sangue, come Sora, in qualche modo aveva sempre ostacolato il bene nei suoi confronti.
In fondo Ven era la prova che Aerith una volta non apparteneva lui, ma ad un bastardo che l’aveva pure messa incinta di un figlio che non voleva. Non sapeva chi era, uno di Rain Town che Aerith non aveva mai voluto dirgli chi era.
Le faceva male e la capiva, per cui non aveva mai insistito. In fondo contava la sua vita attuale, il passato andava dimenticato.
A distoglierlo da quei pensieri fu lo squillo del telefono.
- Pronto, polizia delle Isole del Destino, chi parla?-
- Ciao Squall. – riconobbe immediatamente la voce di Jack, un suo amico e collega di Rain Town. Avevano frequentato l’accademia insieme e si erano tenuti in contatto anche dopo il trasferimento.
- Dimmi tutto. – fece cordiale.
- Niente. Sono rimasto in distretto e siccome mi annoiavo ho deciso di chiamarti.-
- Ah. -Se avesse dovuto chiamarlo lui ogni volta che si annoiava, probabilmente avrebbero passato le giornate a telefono. – E come va con le bande? –
Di problemi che assillavano la polizia di Rain Town ce n’erano tanti ma “le bande” ultimamente avevano cominciato a spiccare su tutti gli altri.
Gruppi di ragazzini (già, solo ragazzini. Si sapeva che il più vecchio aveva diciannove anni.), con una grande rabbia verso il mondo che sfogavano attraverso grandi e piccoli reati.
- Squall, te l’ho ripetuto. E’ Les noirs chats che controlla tutto. Devo dire che ultimamente si sono un po’ calmati. E’ come se avessero perso qualcosa.
Squall ridacchiò: - Gli sarà morto qualcuno. Mi chiedo perché non li avete ancora arrestati. –
Sentì un sospiro dall’altra parte del telefono: - Lo sai che dietro c’è tutto un giro di denaro sporco. Sono i figli delle persone più importanti del pianeta e sanno che non possiamo arrestarli. Insomma, la figlia del senatore Kellington, il nipote del presidente, i figli degli industriali che reggono la nostra economia sono praticamente intoccabili!  – La sua voce s’infiammo: - La settimana scorsa l’ho preso, sai??? Ho preso il burattinaio, Squall! Quello stronzo che manovra tutto e tutti, che crede di averci in pugno! E sai qual è la cosa bella? – Ora stava praticamente urlando e Squall dovette allontanare il telefono dall’orecchio per non rimanere stordito. – La cosa bella è che ha ragione! Ed è alto un metro e un sputo! Ti rendi conto che ci stiamo facendo tenere in scacco da un figlio di puttana alto un metro e uno sputo? E quando l’ho portato in centrale mi hanno detto che dovevo rilasciarlo!- si sentì lo squillo del telefono – Ora mi stanno chiamando. Ci sentiamo. – e poi la linea s’interruppe.
Squall chiuse gli occhi e lasciò cadere il telefono sulla scrivania. Pensò ai suoi figli, a quanto erano belle le Isole del Destino da quel punto di vista.  Né Ven, né Sora avrebbero mai incontrato gente del genere.

Ma cos’aveva quella donna al posto delle mani? Due incudini che si era divertita  a tirargli come fosse un pupazzo da punchboxing (Probabilmente questa parola non esiste…però suona bene n.d.A) e senza nemmeno preoccuparsi degli effetti che avrebbe potuto avere sul suo fragilissimo corpo. E di certo la passeggiata alle quattro di mattina non era stata un toccasana per i suoi muscoli, allenati quanto quelli di un bradipo nel tempo di letargo.
Risultato: Roxas non poteva muovere alcun arto senza lasciarsi sfuggire gemiti di dolore o che la fasciatura che aveva sulla gamba non si sporcasse ulteriormente di sangue e qualcosa gli diceva che andare in giro con una gamba sanguinante non avrebbe giovato alla sua immagine.
Ma gliel’avrebbe fatta pagare! Eccome, se gliel’avrebbe fatta pagare!
Stava seduto nel banco da quando era cominciata la ricreazione tamburellando nervosamente le dita sul legno e sbuffando ogni tanto.
Non che poi sarebbe dovuto andare da qualche parte. Era quasi un bene che rimanesse lì da solo, così non avrebbe dovuto subirsi tutte le domande a cui aveva già risposto quando era andato alla pubblica di Rain Town, sempre “per punizione”.
Tutti i cambiamenti e i traslochi, i camerieri, la nuova scuola, i nuovi professori gli avevano fatto perdere di vista il suo obiettivo.
Se ci fossero stati lì Les noirs chats…
Già, Les noirs chats. I gatti neri. Anche Roxas ci pensava di continuo. I suoi ragazzi. Li aveva conosciuti in Boulevard de l’or ed era stato amore a prima vista. Ragazzi annoiati, ricchi, intoccabili e non molto simpatici alla legge. Ovviamente il capo era lui: li aveva reclutati uno ad uno, li aveva ammaestrati e ora appartenevano a lui. La regola era una: niente bravi ragazzi o poveracci.
Dovevano far tremare il mondo, farlo cadere ai loro piedi, far capire a quei sempliciotti chi comandava.
Noi. Gli veniva ridere al solo pensiero. Nessuno di loro contava qualcosa. Né Olette, né Seifer, né tutti quei figli di papà che aveva conosciuto. Ma loro non capivano che erano solo succubi del suo potere, che era lui che li manovrava. Solo Roxas era il re e tutti gli altri le sue pedine.
Pensavano davvero che lo spaccio di droga, i furti, il sesso nei vicoli e i festini in compagnia bastassero a creare un noi? Razza d’illusi.
Per Roxas un noi non c’era mai stato. C’era solo un gigantesco Io. Da sempre e per sempre.
Ormai, nessuno poteva fare più niente per lui. Ormai andava bene così.

Il martedì era sempre il giorno migliore per la mensa degli alunni delle Destiny. Tale giorno e il venerdì facevano il tempo pieno, così gli era permesso, dalle 13.20 alle 14.20 di andare a mangiare in cortile oppure a casa.
Ven, Sora, Riku, Kairi e Naminè, invece di sedersi a una delle lunghe tavolate che occupavano il cortile sul retro, amavano sedersi sotto uno dei ciliegi che costeggiavano il cortile anteriore – il terzo della fila a destra, per la precisione- e fare un pic-nic con tanto di tovaglia a scacchi.
Era rilassante mangiare tutti insieme, sotto l’ombra dell’albero, senza il mondo a disturbarli.
Quel giorno però c’era qualcosa che non quadrava, che disturbava l’atmosfera.
Forse la faccia afflitta di Kairi, magari quelle preoccupate di Ven e Sora, o forse il tono con cui Naminè aveva detto “Devo farvi vedere una cosa”.
Nessuno aveva ancora toccato cibo e sulla tovaglia c’era solo un vecchio giornale che titolava “SYC” in azzurro.
Ovviamente tutti conoscevano quella testata (anche se nessuno aveva capito cosa volesse dire “SYC”), la più famosa e tradotta nel mondo, seguitissima da adolescenti e vecchie signore perché si divideva in succursali: c’era il SYC Sport, il SYC Gossip, il SYC attualità, il  SYC politica e via discorrendo fino a raggiungere i ventitré titoli, tutti mensili.
Quello che si presentava quel giorno davanti ai loro occhi era il “SYC Vip’s life” che raccontava i piccoli gesti quotidiani (enfatizzandoli fino a farli sembrare imprese straordinarie) compiuti dai personaggi più conosciuti.
- L’ho preso ieri a casa di Kairi. E’ di due anni fa. – spiegò Naminè inginocchiandosi accanto alla tovaglia. L’erba appena tagliata le pungeva le ginocchia.
Nel sentirsi nominare, Kairi sembrò risvegliarsi da una profonda trance:
- Ah, sì. Mio fratello lavorava per quello. –
- E allora? – chiese Ven ansioso. Voleva finire presto perché non aveva visto Roxas uscire e doveva controllare dove fosse finito...non che fosse preoccupato, certo, voleva solo assicurarsi che non desse fuoco alla scuola mentre lui non c’era. Naminè gli lanciò un’occhiataccia – Ci stavo arrivando -  e lui rabbrividì: a volte le donne potevano fare davvero paura. Come quando suo madre lo rincorreva per tutta la casa con la scopa in mano e l’espressione di chi sta per commettere un omicidio e lui era costretto a nascondersi sotto il letto o a scappare dalla finestra.
Chissà se Roxas era mai stato rincorso con la scopa in mano...forse la sua matrigna lo sgridava solamente, per paura di fargli male.
- Ven ci sei? – Sora gli agitò la mano davanti alla faccia e Ven scosse la testa – No. –
- “No” che cosa? Non ci sei? – stava facendo la figura del cretino.
Naminè tossì per richiamare l’attenzione: - Stavo parlando. -.
Prese il giornale: - Qua  c’è un articolo che potrebbe interessarci. – e lo sfogliò velocemente poggiandoselo sulle gambe.
Riku fu il primo a sporgersi: - La pagina dei “Baby’s Vip”? E perché dovrebbe interessarci del bambino di Kevin …? –
- Non quello. – lo corresse severa. Kairi pensò che da grande avrebbe potuto fare la professoressa. Tanto il carattere lo aveva già.
La bionda indicò un paragrafo della pagina accanto, racchiuso in un rettangolo blu dal titolo “Il principe di Rain Town”.
Si schiarì la voce e cominciò a leggere: - Probabilmente leggendo il titolo di questo paragrafo molti di voi avranno pensato a un V.I.P. appunto, magari il figlio di un cantante, oppure ad una baby star.
E invece no! Quello che vi proponiamo oggi è il principe per antonomasia, presentato da molte favole e sogno di molte.
Chioma bionda, occhi azzurri, terzo adolescente più ricco del mondo, ha solo tredici anni ma già frequenta un corso di galateo, studia musica e arte e fa polo, cricket e golf.
Se non avete capito di chi sto parlando, sappiate che è Roxas Strife, figlio delle famose industrie Strife che hanno ormai monopolizzato l’economia del paese.
I suoi genitori lo adorano e lo ritengono più prezioso e importante delle industrie stesse (e probabilmente il ministro dell’economia non la pensa allo stesso modo).
“Roxas è molto bello” lo ammettono tutti, dai suoi camerieri ai suoi professori “Ed è anche un ragazzo brillante ed educato”.
- Ma stiamo parlando della stessa persona? – interruppe Kairi, incredula – Di quel mezzo cadavere ammaccato che se gli dici “Ciao” ti risponde “Vaffanculo”? – Naminè ridacchiò: - Qua c’è scritto così. E termina con Purtroppo il ragazzo è così impegnato che non siamo riusciti ad intervistarlo ma una fonte sicura ci ha detto che da grande sogna di diventare “proprio come papà” e...udite, udite ragazze di tutto il mondo:si dice che il principe non abbia una principessa, per cui quando passate davanti a Villa Strife fate attenzione a quello che indossate!”.
- Ma se ne vadano…- Kairi venne interrotta Sora: - Secondo me è vero. Spiegherebbe perché è così presuntuoso e deviato. –
- No che non lo è. – intervenne Riku. Prese il giornale dalle gambe di Naminè e lo aprì all’ultima pagina, quella con i nomi della redazione: - Vedete, tutti i SYC appartengono alla Strife Company. E’ ovvio che hanno scritto quest’articolo solo per far piacere a Cloud Strife. –
- Tu cosa ne pensi, Ven? – Ma il biondo era completamente perso nei suoi pensieri: cosa era mancato a Roxas? Insomma, da quello articolo pareva avere una vita meravigliosa che non poteva essere migliore...e allora perché lo vedeva così? Qual’era la causa della tristezza infinita che poche persone riuscivano a scorgere nei suoi occhi azzurri? Perché sembrava sempre così arrabbiato con il mondo?
Sì, tutto questo ed altro ancora a Voyager.
Scosse la testa: non importava. Alla fine non doveva interessargli: anche se si sentiva incompleto senza sapere nulla di Roxas, in fondo Roxas e Ven erano due persone distinte e separate, cresciute in modo diverso e che non avevano niente da dividere l’una con l’altra.
Lui era Ven. Ven Leonhart, figlio di Aerith e Squall Leonhart e fratello maggiore di Sora.
Cloud e Roxas Strife non facevano affatto parte della sua vita.
- Non ci interessa. – disse ad alta voce. Si ritrovò quattro facce che lo guardavano confuse. – Non ci interessa se quell’articolo è vero o falso, è del tutto irrilevante. A noi non interessa di Roxas. Sì, è arrivato, ma perché dovremmo cambiare la nostra esistenza per un unico irrilevante individuo? –
Il silenzio avvolse il cortile.
Sora fu il primo a battere le mani: -Ha ragione! – esclamò felice come una Pasqua.
E poi seguirono sorrisi, strette di mano, bocconi troppo grossi e la monotona normalità.
Sembrava che la vita fosse ricominciata in quel momento e, sembrava, che andasse bene così.
Ven rise e scherzò, cercando di non dare a vedere che lui era il primo a non credere alle sue parole.
Se Roxas era irrilevante lui era nulla.

Prese lo shampoo e controllò che dentro non ci fosse né vomito, né ketchup o altre sostanza strane che impiastricciavano i capelli. Non ci si poteva mai fidare di Roxas e doveva stare sempre attenta a ogni singola cosa che faceva.
Tornare dov’era nata era sempre nostalgico e triste, in qualche modo. Tifa era molto affezionata alle sue isole, al mare azzurro nel qualche era cresciuta, alle strade di selciato e alle casette bianche e piccole che rendevano quel posto magico e familiare anche per chi ci andava per la prima volta.
Era stato difficile abbandonarle, alcuni anni prima, quando, piena di sogni e speranze, si era trasferita a Rain Town per frequentare l’università.
La sua famiglia non aveva i mezzi per permetterselo ma lei ci teneva davvero tanto, così aveva preso una borsa di studio ed era andata.
L’aveva abbandonata otto mesi dopo. I suoi voti avevano cominciato a calare vertiginosamente perché non riusciva a studiare in un paese che non conosceva affatto e quello era stato il più grande fallimento della sua vita.
Non aveva neanche avuto il coraggio di tornare a casa e così si era fatta assumere da un raffinato ristorante in cui doveva solo mettere in ordine i mobili.
Era stato proprio lì, dopo tre anni che ci lavorava, che aveva conosciuto Cloud: quell’industriale dallo sguardo freddo e magnetico che ogni ultima domenica del mese portava a cena una donna diversa e che ogni venerdì pranzava al tavolo trenta con altri personaggi dell’economia e della politica.
Una domenica, lo ricordava benissimo, erano le otto e fuori un acquazzone imperversava sulla città; il ristorante era semivuoto, lei stava mettendo a posto il mobile delle posate poco distante dal tavolo dove Cloud era seduto con una bionda ossigenata. Quella si stava lamentando ma l’uomo non sembrava farci caso e la fissava con aria annoiata.
- Cioè, no, ma ti rendi conto??? E’ la terza volta, Cloud, è la terza volta! – Claire, così si chiamava, agitava freneticamente una forchetta, torturando l’insalata che aveva nel piatto. Tifa osservò le foglie verdi afflosciarsi bucate sul piatto e pensò che era già la quarta “insalata di lattuga con poco sale e poco olio” che si faceva portare.
- Te l’ho già detto per telefono Cloud, ci hai pensato? – la mora lanciò un’occhiata al biondo in attesa di qualsiasi reazione e invece lo trovò a guardare le mani di lei con una totale indifferenza. Continuò a guardarlo e tutt’a un tratto i suoi gelidi occhi azzurri la fissarono.
Si girò di scatto dall’altro lato e fu un miracolo che il piatto non le cadde di mano. Perché l’aveva guardata?
- Io non ce la faccio più Cloud! – la voce stridula di Claire rimbalzò per tutto il ristorante. Alcuni clienti si voltarono a fissarla. Lei arrossì: - Scusate. – mormorò imbarazzata e Tifa trattenne una risata. L’alta società era davvero ridicola.
- Fa’ qualcosa, ti prego. – sussurrò prendendo la mano di Cloud. Quello rimase impassibile. – Senti…- cominciò la bionda con tono serio. Tifa continuò a guardare le spalle di lei, lasciate scoperte dal vestito rosso che lei non si sarebbe potuta permettere neanche con lo stipendio di una vita. -…conosco un’ottima clinica appena fuori città. Sono molto discreti e non fanno mai parola con nessuno sui loro clienti. –
 - Non è pazzo Clay. – era la prima volta che parlava. La sua voce era una lastra di ghiaccio e le parole erano così musicali che sembravano cantate ma il suo tono era pieno di apprensione e pazienza. Tifa ne rimase incantata. Vedeva la signora da dietro ma a giudicare da come lasciò cadere la forchetta, immaginò che la sua espressione fosse incredula.
- Ah no? – le sue parole grondavano di esasperazione. – E farmi trovare l’accappatoio pieno di escrementi di suino è normale secondo te? –
Tifa soffocò una risata in un colpo di tosse. Ben gli stava a quella là!
Sentì Claire prendere un profondo respiro: - Scegli: o lui o me. –
Cloud le lasciò la mano. Tifa osservò incantata i suoi gesti da dietro un piatto: persino incrociare le mani sul tavolo e tirare un sospiro sembravano eleganti se fatti da lui!
- E’ mio figlio, Claire. – e nessuna delle due donne notò quanto fosse falsa la compassione in quella frase.
Infatti la bionda si alzò e se andò ondeggiando sui suoi tacchi sedici. Cloud non la rincorse e si limitò ad alzarsi, spolverarsi la giacca e raggiungere Tifa che era tornata a mettere a posto le forchette.
- E’vostra abitudine osservare la gente o lo fate solo con le coppie che litigano? – il suo tono non era adirato. La mora continuò a mettere a posto le stoviglie, senza neanche degnarsi di guardarlo in faccia: - E’ vostra abitudine cercare di abbordare una ragazza quando la vostra ex non è ancora uscita dal ristorante o lo fate solo con le cameriere? – cercò di non dargli a vedere che era imbarazzatissima. Cloud sembrò colto in fallo, ma si riprese subito: - Solo con quelle particolarmente carine. – Tifa lasciò cadere una boccetta d’olio che le finì addosso macchiandolo tutto il grembiule e Cloud ridacchiò.
- Ma cosa ride? Non vede che per colpa vostra sarò licenziata? – urlò mentre il suo capo arrivava. Stava già cercando una scusa plausibile, ma Cloud intervenne:- E’ stato un incidente. Se mi permette vorrei ripagare il danno e accompagnare questa graziosa cameriera a cambiarsi. –
E a quel punto Tifa non aveva avuto scampo. Ed era successo già tutto.
Cloud era il suo riscatto sulla vita. Insomma, non tutte avevano la fortuna, quando le cose vanno male, che un uomo bello, ricco ed elegante come un principe dell’Ottocento s’innamori di loro e Tifa, se qualche mese prima gli avessero che sarebbe tornata nel suo paese ricca e innamorata, non ci avrebbe di certo creduto.
In fondo lo doveva anche a Roxas, quel “lui” di cui aveva tanto sentito parlare, prima di mettersi con Cloud. Molte di quelle donne avevano lasciato l’uomo – che stupide – per innocenti scherzi di un ragazzo troppo viziato.
Ma lei non avrebbe ceduto: ormai aveva imparato dove controllare e cosa fare per Roxas. Un paio di mesi e non avrebbero più avuto problemi.
Chiuse l’acqua, stiracchiandosi. La sua vita non poteva né peggiorare, né migliorare, era praticamente perfetta.
Aprì la porta della doccia e l’aria fredda l’avvolse. Con un scatto prese l’accappatoio e se lo infilò. Sentì della carta bolle strusciarle addosso e poi un liquido caldo e scivoloso coprirla e un odore nauseante si diffuse per il bagno bianco. Si appoggiò al muro per non svenire e guardò in basso: alcune buste di plastica pendevano dall’accappatoio e dei rivoli marroni scivolavano dalle sue gambe.
Escrementi di suino. L’accappatoio pieno di cacca di maiale.
Che stupida.

- Sono felice! Sono tanto felice! – Sora saltellava per il cortile, a sostegno della frase che ripeteva da…quanto? Da quando, tre ore prima, era suonata la fine della ricreazione?  Di certo, quasi tutte le Destiny sapevano che era felice o per le sue urla, o magari per il sorriso a trentadue denti che aveva stampato sul viso.
Ma, per quanto la felicità sia contagiosa, non si poteva dire lo stesso del ragazzo albino al suo fianco che camminava con le mani infilate nel giubbino e un’espressione cupa dipinta sul volto.
Ven, Kairi e Naminè erano rimasti indietro, immersi in una discussione che riguardava “l’inutilità delle poesie”, o qualcosa del genere.
- Riku, sai che sono felice? – ripeté per l’ennesima (?) volta Sora, guardando il sedicenne.
- Sì, lo so. – rispose Riku paziente. Sora batté le mani: - Bravo! E sai anche perché? –
- Perché a Ven non interessa nulla di Roxas. – cantilenò Riku. Sora lanciò un urlo e ricominciò a saltellare.
Se non gli avesse voluto così bene lo avrebbe già picchiato e non era del tutto escluso che lo facesse.
Insomma, non dubitava tutto l’amore fraterno e la preoccupazione che lo avevano scombussolato in quei giorni ma qualcuno avrebbe dovuto anche spiegare a Sora che nel mondo non esisteva solo Ven, ma c’erano altri sei miliardi di persone.
E tra queste anche quel cretino del tuo amico Riku che ti sopporta pazientemente da quando sei nato e che, per te, si è anche rovinato la reputazione e ha perso ogni singola briciola di dignità.
Il problema non era tanto il fatto che tutti credevano che lui fosse fidanzato con Sora, ma quanto il fatto che lui non era fidanzato con Sora. Non ancora, almeno.
Ma avrebbe trovato un rimedio alla situazione: gli avrebbe parlato e chiarito le cose.
- Ehi, So. – sussurrò e Sora quasi non lo sentì.
- Cosa c’è, Ri? – lo affiancò, felice come una Pasqua. L’argenteo prese un respiro: - Pensavo che è da tanto che non usciamo. Potremmo uscire uno di questi giorni…per fare una chiacchierata. – Quelle parole erano più per convincere sé stesso che non stava davvero chiedendo un appuntamento a Sora. No, era una semplice passeggiata dove avrebbero solo chiacchierato. Tra amici.
Sora titubò: - Non lo so, perché forse Ven ha da fare e… -
- Ma io l’ho chiesto a te, non a Ven. – ringraziò di non avere una spranga in mano perché la sua fedina penale non sarebbe stata macchiata di duplice omicidio.
Sora sembrò confuso: - Quindi non può venire? –
Riku si morse il labbro mentre una vena gli pulsava sulla fronte: - No, Sora. Ven non può venire. Né lui, né nessun altro. –
Sora sembrò pensarci su: - E’ ok. Quando? – l’innocenza di quella domanda gli fece capire che il pensiero dell’appuntamento a Sora non era passato neanche nell’anticamera del cervello.
- Allora. Oggi è martedì…giovedì prossimo? – Nove giorni. Aveva programmato un’uscita nove giorni prima. Neanche le gite scolastiche si preparavano con così tanto anticipo.
- Va bene. – ritornò a saltellare sorridendo.
Riku si chiese perché era così ansioso. Dopotutto era solo una chiacchierata tra amici, di quelle che facevano anche in classe o con gli altri. Solo una chiacchierata tra amici.
Come no.

- Ti converrebbe prendere un aereo e partire per un paesino sperduto dell’Himalaya, piuttosto che tornare a casa. – Roxas non aveva neanche finito di salire in macchina quando Marluxia esordì con quelle parole. Il ragazzo ridacchiò: - La signora non ha apprezzato il mio regalo? – era così divertito che sembrava stesse andando al Luna Park.
- No, Roxas. – invece Marluxia non aveva alcuna voglia di giocare – Ma se continui con i tuoi regali un giorno o l’altro ci resti secco. –
La limousine partì, lasciando alle spalle la scuola. Il biondo si appoggiò svogliatamente al finestrino.
- Lo sterco è fertilizzante. Tonifica la pelle. – sbuffò. Otto ore in quella scuola erano insopportabili.
- Beh, allora la prossima volta fallo scegliere a qualcun altro il regalo. Se muori rimango senza lavoro. – Ora, a qualunque ragazzino normale nel sentirsi dire che lui contava per “il posto di lavoro” si sarebbe spezzato il cuore. Ma Roxas non era un ragazzino normale. E un cuore neanche sapeva cosa fosse.
- Se invece crepi tu, io trovo un altro cameriere e magari anche migliore. – e per quanto Marluxia si fosse specializzato nel contrastare Roxas, la sua lingua biforcuta non trovava rivali.
Gli rivolse un’occhiata compassionevole: se ne stava assorto guardando fuori dal finestrino con l’occhio buono, la posizione era composta e diritta, come quando suonava il piano, e le mani ossute erano appoggiate sulle gambe, il volto era privo di qualunque espressione, l’occhio azzurro vacuo e le labbra pallide strette in una linea sottile.
La divisa scolastica gli scivolava addosso e sembrava così magro da poter essere spazzato via da un soffio di vento.
- So di essere irresistibile. – si vantò Roxas senza spostarsi di un millimetro – Ma se continui a guardarmi finiremo entrambi sull’asfalto. E, sinceramente, mi dispiacerebbe se tu fossi l’ultima cosa che vedo. – Marluxia sbuffò: era davvero insopportabile.
Anche suo padre da piccolo lo era e con Roxas era un continuo dejavù: bello, ricco, vanesio, sardonico, annoiato, odioso e assolutamente insopportabile.
Cloud e Roxas erano due specchi che riflettevano la stessa immagine.
Poveracci.
Chissà com’era l’altro…





Scuse dell'autrice:
Ecco un altro di quei capitoli inutile in cui non succede niente ma che sono solo “di passaggio” (Ma perché, gli altri servono a qualcosa? N.d. altra me) In questo ho “perso tempo” cercando di approfondire il punto di vista degli adulti, i personaggi marginali.
La verità è che l’ho pubblicato per disperazione. Mi sono resa conto che avevo messo troppi fronzoli alla storia, che c’erano troppe descrizioni e scene inutili messi nel capitolo solo per allungare il brodo e che facevano perdere la trama principale e allora ho postato (Ti rendi conto che è un’offesa a tutti quelli che ti seguono? N.d.altra me)
Per cui se non recensite non mi offendo (Bugiarda n.d.altra me).
Sì, lo so cosa starete dicendo “Ma come? Aspettiamo tre mesi per questa robaccia?” (Non che gli altri siano meglio. Diciamo che questo fa solo “più schifo del solito” n.d. Altra me).
La risposta è sì. (Brava. N.d.altra me) Perché non ho avuto tempo (Non ti crede più nessuno, Kim n.d.altra me), o meglio il tempo l’ho avuto ma sono stata vittima di un terribile calo di ispirazione (E quando mai non ce l’hai? N.d.altra me) e di una distorsione spaziotemporale che ha sballato completamente l’ordine cronologico della storia. In pratica io avevo già scelto tutto ma sono una persona prolissa e assolutamente disordinata, per cui mi sono incasinata le cose (Brava. N.d.altra -me) e ora devo cercare di rimetterle a posto. Sono arrivata a fare i capitoli con le scalette, cosa che non facevo dalla quarta elementare (Un continuo migliorare, insomma n.d.altra me). Devo rivedere una marea di roba.
Ok, alzi la mano chi in questo momento mi ha mandato a quel paese (*altra me alza la mano*).
Mi dispiace, so di avervi deluso (nessuno dovrebbe aspettarsi niente da te n.d.altra me) in questo capitolo (solo in questo? n.d.altra me), ma cercherò di rifarmi. Sono una persona che divaga spesso (e ve ne sarete accorti), d’ora in poi cercherò di tenere fisso un obiettivo senza perdermi per strada (parole al vento n.d.altra me).
Ah, nel prossimo capitolo ci sarà un salto temporale, per cui non vi racconterò per filo e per segno come respirano i personaggi (Alleluja n.d.altra me)… se mi metto in ginocchio continuate a seguirmi (Ma anche no n.d.altra me)?
E ora, prima di essere linciata, passo a rispondere alle vostre recensioni:

_Ella_: Già, Roxy fa tanta pena…anche dopo aver scoperto quello che ha combinato con i suoi amichetti a Rain Town (Forse in questo hai un po’ esagerato n.d.altra me)?
Sai che è pure uno dei miei personaggi preferiti? (Nuoo, l’articolo di giornale e il fatto che la maggior parte delle tue storie abbiano il suo POV non aveva gettato nessun dubbio! N.d.altra me) E non ci hai pensato che magari Cloud e Tifa hanno i loro motivi per comportarsi così? (Ma non li hanno, Kim! N.d.altra me)
Già l’AkuRoku e il TerraXVen (A proposito come si chiama? Venterra?), chissà quando riuscirò a tirarli fuori dal mio cilindro (Quando ci metterai la mano? N.d.altra me), bah, speriamo solo che questa cosa delle scalette funzioni!(Ma che irresponsabile! n.d.altra me)
Comunque, ti dico che sono così impaziente pure io che non dovrebbe metterci molto, xD. Perché ho un Aku esasperato, un Roku psicopatico, un Terra impaziente e un Ven che sta impazzendo (Chissà chi li ha fatti finire in questa situazione… n.d.altra me) e l’unico modo per risolvere la situazione è accopp(i)arli, no?
Però, insomma la situazione si sta districando no?
Grazie mille, alla prossima.

WhiteDream: Ma ciau! Davvero l’avevi predetto? Wow, complimenti. Io non l’ho predetto fino a quando non l’ho scritto. (-_-‘ n.d.altra me) E qualcosa mi dice che l’atto di Tifa avrà delle ripercussioni nei prossimi capitoli (L’hai appena pensato n.d.altra me). La “maturità” di Aku con Roxy??? Boh. (Non lo sa, davvero n.d.altra me) Certo, essendo sempre destinati a stare insieme, magari dovrebbero incontrarsi, o forse si sono visti di sfuggita, come in questo chap (Ecco come rivelare un dettaglio che dice tutto e che avevi cercato di far passare inosservato n.d.altra me).
Tutte impazienti su Terra e Ven, neh? Già, lo sono anche io (Ma tu sei l’autrice! n.d.altra me).
Yaoi? *cervello va in tilt* Sì, yaoi, yaoi! (*altra me dà una botta in testa*)Ah, la volontà dell’autrice? La volontà dell’autrice prevede che i prossimi capitoli saranno alquanto lunghi e che lo yaoi o un “bacetto serio” per cui nel prossimo, o forse in quello dopo (Quando ti deciderai a cominciarli n.d.altra me). Sì, sto esultando anche io…tranne per il fatto che sono io a doverli scriverli.
La papera Demyx fan club! Facciamo pupazzetti imbottiti di cioccolata su richiesta.
Nuoo, davvero l’hai fatta leggere? Che emozione, grazie! Non pensavo ti fosse piaciuta così tanto! *gongola*
Allora mi scuso per il capitolo e ti prego di attendere il prossimo. Grazie ancora.

Edo: Come lo dici tu, Roxy somiglia a Cenerentola xD.
E Ven, diciamo che con Roxy avrà tutto il tempo di chiacchierare, così come ci sarà tutto il tempo per tutto (Ti rendi conto che questa frase non ha senso? N.d.altra me)
Beh, spero che la tua curiosità venga soddisfatta nei prossimi capitoli. E grazie ancora per aver recensito. Spero continuerai a seguirmi.

Shiro-chan: Ma pecché tutti odiano Tifa (Perché picchia uno dei protagonisti? N.d.altra me)? Beh, grazie.

Shine Mizuki: Se Tifa ti sta antipatica allora potresti fare un patto con Roxy e potresti aiutarlo a sopprimerla e gettare i suoi resti nel camino (Ma cosa dici Kim? N.d.altra me). Terra fa un po’ pena e Axel avrà i suoi motivi per essere così. Grazie, alla prossima!

Selena Moon: Oddeu, mi fai arrossire. Quando ho letto il tuo commento mi sono messa a saltellare come una cretina ( Mai considerato l’ipotesi che lo sei davvero? N.d. altra me). Prava, sai che l’ho  fatto anche io dopo essermi chiesta se Aku era il fratello di Elena? (-_-‘ n.d.altra me). Paint è sempre il migliore, altro che Photoshop!
Esatto, Larxy è la sorella di Elena.
Roku-Roku lo amo pure io. Anche se fa un poco piangere. Beh, però forse una bella cavolata lo farà (Se decidi cosa scrivere nel prossimo capitolo n.d.altra me).
Già, Aqua. Solitamente le persone non apprezzano che sia così OOC, però lieta che ti sia piaciuta.
Per me Birth by sleep è finito dopo aver completato la saga di Ventus *piange disperata*. Con Aqua ho provato a giocarci però non vola e questo mi dà fastidio (Non può non piacerti un personaggio solo perché non vola! N.d.altra me).
(Già, queste doppie personalità di cui una è una matta e l’altra e intelligente sono dei dogmi della società contemporanea, parte ragionevole di Selena Moon. Buona fortuna con MeMe n.d.altra me) E grazie di tutto, spero continuerai a seguirmi.

Cosa dire di più? Continuo a ringraziare tutti quelli che aggiungono da qualche parte (Sempre molto precisa e dettagliata. n.d altra me) e anche quelli che leggono.
Grazie di tutto, alla prossima.
Baci&Abbracci da Kim.

  
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