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Autore: Sheep    16/01/2011    8 recensioni
Un ragazzo coi capelli rossi e una sorellina troppo intelligente in una famiglia troppo grande e troppo strana. Una coppia di gemelle, avvolte in un’ombra di riservatezza e mistero. Un prestigioso attore americano che si reca a Londra per recitare a Broadway. Cosa succederebbe se i loro destini s’intrecciassero? E se il famigerato attore, in più, avesse seri problemi con suo fratello?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ollellè, ollallà, dai che ce l’ho fatt, dai che ce l’ho fatt! ♪

Eccomi qui, dopo più di un mese, ce l’ho fatta a finire anche il sesto capitolo. Mi sento un mostro per il ritardo, ma avevo predetto che con scuola e roba gli aggiornamenti sarebbero stati molto irregolari. Perciò, ora andiamo a commentare il nuovo capitolo.

Bene cose da dire: Nella prima parte troverete citata una leggenda, la leggenda di Gesù e il pettirosso, che a me raccontavano da piccola e che ho immaginato anche Nick conoscesse, ma probabilmente in realtà in America nemmeno circola.

Nella seconda parte, invece, nomino la settimana della moda di Parigi, che ho sentito menzionare ne ‘Il diavolo veste Prada’ (?), in quanto di moda ne so poco e niente. Quindi se non esiste, l’ho inventata. Se esiste … l’ho inventata lo stesso, mi scuso per eventuali incoerenze.

Mh, che dirvi … nuovo anno, più sorprese! ;D tenetevi forte.

Bacione, Sheep.

 

*Il gioco delle dieci domande è stato teoricamente ideato da me, e, se esiste, non so come in realtà funziona.

**La rivista è di pura fantasia e, se esiste un settimanale femminile con questo nome, questo non ci ha assolutamente niente a che fare.

 

E ora, i ringraziamenti (che vi spedirò anche attraverso il simpatico strumento ‘rispondi alle recensioni’)

 

Mar: Visto? Ho postato :D La tua recensione è chilometrica e sebbene l’abbia riletta mille volte non riesco a ricordarmela * Alzheimer* … comunque, non posso che dirti grazie. Grazie perché mi sostieni, grazie perché sopporti le mie crisi quando mi salta la voglia di non pubblicare, grazie per tutta l’ansia con cui attendi ogni nuovo capitolo. Grazie perché le tue recensioni mi tirano su quando sono giù di morale :3 Grazie.

 

Hedley: E beh, sì, c’è una caterva di grazie pure per te. Grazie perché, tra tutte le fan fiction di cui questo sito è inondato, hai scelto proprio The last rose. Grazie perché è soprattutto per te che posto, oltre che per Marta e Mary –loro leggerebbero comunque, ma ci tengono per la sezione e per la storia stessa-, perché tu sei una delle lettrici/recenstrici più assidue e perché so che se interrompessi non potresti sapere come va a finire. Grazie perché alla fine ti sei affezionata a Drew e la combriccola, grazie di tutto. :)

 

Mary: Vabbè, Blood, pure per te GRAZIE è poco. Grazie per tutto quello che fai per noi. Per me e per Drew e per The Last Rose. Grazie per gli scleri, i consigli, il volto di Gwen che non so perché la tua finestra di msn mi ha ispirato *muor* Grazie perché, nonostante tutto, la recensione hai voluto lasciarla lo stesso. All’ultimo momento, ma hai voluto lasciarla comunque. Grazie.

 

E grazie anche a voi, lettrici silenziose, se ci siete. Grazie a tutte, Lettrici Fedeli. <3 Vi voglio bene.

 

Ma bando al miele … il capitolo volete leggerlo o no?

 

 

 

Capitolo 6

 

Dopo l’ennesimo incontro con Drew, questa volta allo Starbucks, Nicholas aveva intuito che c’era qualcosa in quell’assurdo ragazzo coi capelli rossi, qualcosa che qualcuno dall’aldilà –supponendo che esistesse sul serio un aldilà- stava cercando di comunicargli. Perché -ne era certo- non era statisticamente possibile che due quasi-sconosciuti s’incontrassero così spesso in una città grande come Londra.

Beh, per un attimo aveva anche preso in considerazione l’ipotesi di star diventando paranoico e basta, che forse era quella più giusta, ma alla fine, per evitarsi una lunga serata all’insegna dell’autocommiserazione, aveva optato per “segno del destino”.

Era la mattina del ventidue dicembre mentre richiudeva la porta di casa, col viso illuminato da un sorriso spontaneo- e chiunque nel mondo si sarebbe dimostrato concorde nell’affermare che non c’era niente di più bello del sorriso spontaneo di Nick Jonas. Faceva freddo, e la neve sembrava intenzionata a rimanere goffamente appollaiata nei viali e sui marciapiedi e sui tetti e sui rami rinsecchiti degli alberi ancora per molto; tipo per sempre.

Un pettirosso zampettava sull’asfalto con aria allegra e Nicholas si fermò ad osservarlo prima di avviarsi alla macchina. Gli piacevano i pettirossi. Ricordava nitidamente di quando, una decina di anni prima, suo nonno gli aveva raccontato la storia di quell’affascinate uccellino, grande più o meno quanto il pugno di un bambino. Secondo una leggenda, quando Gesù si trovava sulla croce, in punto di morte, mentre tutti gli altri uccelli volavano nel cielo indifferenti, uno di loro si era fermato, mosso a compassione, e, non sapendo cosa fare per il Signore, gli aveva tolto dalla tempia una spina che gli doleva più delle altre. Così una macchia di sangue era schizzata sul petto della bestiolina e Cristo, per ricordare quell’atto d’amore, gli aveva concesso di conservarla per sempre. Il bambino altruista e orgoglioso che Nick era stato si era ripromesso di tenere a mente quella storia come esempio di vita e comportamento.

Annegato nei ricordi montò sulla Mustang che ancora profumava di nuovo e accelerò verso il centro della città. Aveva finalmente un po’ di pausa dal lavoro e voleva prendersi del tempo per comprare dei regali; era una cosa che proprio gli piaceva. Forse qualcuno l’avrebbe giudicato un po’ troppo sentimentale, tuttavia per lui era davvero meraviglioso osservare le facce compiaciute dei destinatari al momento dello scambio. Ok, forse suo fratello Joe con quella barba non aveva proprio una bella faccia, ma andava bene comunque. Rise tra sé, svoltando a destra, e si guardò intorno alla ricerca di un posto libero.

Fortuna volle che una Plymouth stesse lasciando la sua posizione di fronte a una tabaccheria proprio in quel momento e Nick ci si infilò senza pensarci due volte. Tirò il freno a mano e scese, poi, facendo oscillare le chiavi con la mano destra, prese a camminare verso Oxford Street.

«Buon Natale!» Gridò un babbo natale dalla pelle color caffè agitando una campanella verso i passanti. «Buon Natale!»

«Buon Natale, amico.» Fu la risposta quasi sussurrata del diciottenne, nonostante la pulsante consapevolezza che la sua festa preferita sarebbe arrivata solo dì lì a un paio di giorni. Quell’atmosfera gli metteva allegria; gli ricordava che non tutto era destinato a finire. Gli permetteva di essere di nuovo bambino, solo per un po’.

Andrew lo stava aspettando all’angolo della strada, il cappuccio della felpa calato dalla testa, i capelli rossi davanti alla faccia e una sigaretta a penzoloni tra le labbra carnose. Senza skateboard, per quella volta, ma lo riconobbe subito. Sarebbe stato inconfondibile in ogni caso.

«Ehilà.» Lo salutò.

Drew alzò lentamente la testa e gli puntò in faccia gli occhi color ghiaccio. «Yo

Avanzarono a fatica, fianco a fianco, lungo la via superaffollata, l’uno l’antitesi dell’altro, come acqua e fuoco, cane e gatto, diavolo e acqua santa, quando Nick osservò: «Non sapevo che fumassi.»

«Tu non sai niente di me.» Il rosso scosse la testa, piegando un angolo delle labbra. «Sul serio.» Sbuffò una nuvola di fumo e lanciò il mozzicone in un cestino a caso.

«Già, forse.» Nicholas alzò lo sguardo verso il cielo sereno e ammutolì un momento, poi si rivolse di nuovo a Drew, intento a studiare una giovane coppia straniera. « Sai, quando ero piccolo in America io e i miei fratelli facevamo un gioco. Dieci cose che non sai di me, si chiamava. E consisteva appunto nell’elencare dieci cose a testa, dieci cose mai dette a nessuno; di solito alla quinta mi ero già guadagnato un nuovo amico.»*

Andrew sgranò gli occhi, sorpreso. Parve riflettere per un momento, infine scoppiò a ridere di cuore in faccia a quel giovane ragazzo americano che era piombato così velocemente nella sua vita da non lasciargli il tempo di rendersene conto.

«Numero uno: Non sorrido mai.»

*

Mentre le prime luci dell’alba coloravano il cielo di sfumature rosate e purpuree, l’aeroporto brulicava di gente. Il ritmico ticchettare dei tacchi sul pavimento lucido era il solo rumore a rimbombare nel corridoio del primo piano. Gwen lanciò l’ennesimo sorriso in direzione Diana, altrettanto eccitata: l’ora della partenza si avvicinava ed entrambe non stavano nella pelle.

Come tutti gli anni, la direttrice della rivista per cui lavoravano, Moira Johnson, aveva organizzato una trasferta a Parigi in vista della settimana della moda. Perfect Style** era una dei periodici femminili più venduti di quell’anno, e la donna e le sue assistenti preferite non potevano di certo mancare. Gwendoline già esibiva un meraviglioso –firmato- capotto blu, lungo, ma non tanto da nascondere le gambe supersnelle, fasciate in deliziosi collant neri. Portava con elegante disinvoltura un paio di scarpe che una donna media avrebbe definito ‘trampoli’ ed i capelli biondo cenere intrecciati in un morbido chignon. Ma Diana, accanto a lei, non sfigurava. Riusciva ad essere abbastanza ‘alla moda’ anche con un semplice jeans scuro e giacca nera, Ugg grigi per stare più comoda. Stavano raggiungendo il loro capo al Gate quando una voce le interruppe. La rossa si voltò con grazia, e per un attimo le mancò l’aria. Un uomo dagli occhi incredibilmente verdi guardava nella sua direzione, tendendo la carta d’identità in cui stava ripiegato il suo biglietto. La stessa carta d’identità che qualche ora prima si era infilata in fretta e furia nella tasca destra del giubbino, ora –come poté costatare infilandoci istintivamente dentro una mano- vuota.

«Mi scusi, questa … deve essere sua.» Kevin Jonas sorrise di nuovo dopo un lungo periodo di astinenza. La giovane donna che portava il nome di Diana Robin Fawn arrossì lievemente nello sfiorare casualmente la sua mano, mentre si riprendeva i documenti. L’aveva già vista da qualche parte, ne era certo.

No.”Si disse. “Se l’avessi già vista, a quest’ora non sarei sposato.”

«Grazie.» Pigolò la ragazza quando, pochi secondi dopo, riacquistò la facoltà di parlare. «Molte. Grazie molte

«Non c’è di che.»

Sebbene in cuor suo avrebbe voluto restare con lei o quantomeno seguirla, Kevin sapeva di non doversi mettere strane idee in testa. Non aveva bisogno di altri problemi, così ordinò al suo cervello di costringere le gambe a muoversi e la salutò con un cenno del capo.

«Insomma, ti muovi?» Starnazzò Gwen quando la sua migliore amica la raggiunse. «Ti comporti come se non avessi mai visto un uomo in vita tua! E siamo orribilmente in ritardo, per l’amor di Dio!» Kevin si voltò a guardarla un’ultima volta, prima di sparire dietro l’angolo.

«Okay, okay, ci sono. Andiamo.»

Ma non era vero, non c’era. Non del tutto, almeno, e continuò a pensare allo sconosciuto dagli occhi verdi ancora per molto, prima di addormentarsi nel bel mezzo del viaggio, in aereo.

*

«Che giornata.» Borbottò Kev tra , mentre i bagagli iniziavano a comparire lungo il nastro.

Sperò vivamente che la sua valigia –valigia nera, doveva tenerlo a mente- fosse ancora tutta intera … e che quella ragazza ricomparisse, magari proprio di fianco a lui, pronta ad afferrare un borsone abbinato ai suoi splendidi ricci, che gli sorridesse come aveva fatto poco prima. Scosse la testa, per ritornare sulla terra, e allungò il collo per appurare che la sua valigia non fosse già passata senza che lui se ne fosse accorto. Ma comparve poco dopo e, chiedendo ‘Permesso!’ a una donna di mezz’età, tirò giù il trolley nero, quasi del tutto integro.

Lo osservò, ripensando di nuovo ai capelli di Diana, ai suoi occhi, il suo abbigliamento semplice ma perfetto. Fu un anziano signore a riportarlo tra i vivi, colpendogli involontariamente una spalla con l’ombrello. Ripassò una mano sulla stoffa ruvida per controllare che non ci fosse effettivamente nessun danno, e solo allora si premurò di controllare il cartellino col nome.

Charlotte Anne Whistler” non era esattamente il suo, di nome. Forse … oh, insomma, non lo era e basta. Si impose di rimanere coi piedi piantati per terra e lanciò un’altra occhiata al nastro. Sobbalzò nell’avvistare un’altra valigia nera … la sua valigia! La rincorse fino alla ragazza che l’aveva raccolta, una ragazza molto giovane. Capelli castani mossi, lunghi, labbra dischiuse come se stesse respirando con la bocca. Si era già chinata per ispezionare l’oggetto quando Kevin le si avvicinò.

«Mi scusi,» Disse, per la seconda volta in quella giornata, e Charlotte Anne Whistler trasalì, proprio come aveva fatto Diana Robin Fawn. «Credo che ci sia stato un errore. E’ lei Charlotte Whistler, vero?»

«Errore?» Si tirò in piedi, le sopracciglia aggrottate. «Scusa, come conosci il mio nome?»

Kev avvertì subito la tensione nascosta nelle sue parole. «Non preoccuparti. Ci siamo semplicemente scambiati le valigie. Controlla, c’è scritto Paul Kevin Jonas, giusto?»

Charlie annuì. «Oh, giusto.» Sgranò gli occhi. «Ma dove ho la testa oggi?»

«Sta tranquilla, non sono in condizioni migliori.» Scoppiarono a ridere e si scambiarono nuovamente i trolley, poi si strinsero la mano.

Nicholas Jonas osservò suo fratello oltrepassare la ragazza con cui stava parlando e dirigersi verso di lui.

«K2!» Lo salutò, e quando l’ebbe raggiunto l’abbracciò, come due fratelli cresciuti insieme si abbracciano dopo esser rimasti per mesi separati da un oceano immane.

«President.» Kev sorrise, notando quanto era cresciuto.

«Kevin, questo è … Andrew

Il ragazzo rosso era scomparso. I due fratelli si guardarono intorno, senza riconoscerlo nell’ingresso semivuoto.

 

«Che ci fai tu qui?»

«Che t’importa? Pensavo di essere morta per te.»

«Lo sei, infatti»

Charlie fissò Drew con aria afflitta.

«Non cresci mai»

  
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