Ollellè, ollallà, dai
che ce l’ho fatt, dai che ce l’ho fatt!
♪
Eccomi qui, dopo più di un mese, ce
l’ho fatta a finire anche il sesto capitolo. Mi sento un mostro per il ritardo,
ma avevo predetto che con scuola e roba gli aggiornamenti sarebbero stati molto
irregolari. Perciò, ora andiamo a commentare il nuovo capitolo.
Bene cose da dire: Nella prima parte
troverete citata una leggenda, la leggenda di Gesù e il pettirosso, che a me
raccontavano da piccola e che ho immaginato anche Nick conoscesse, ma
probabilmente in realtà in America nemmeno circola.
Nella seconda parte, invece, nomino la
settimana della moda di Parigi, che ho sentito menzionare ne ‘Il diavolo veste
Prada’ (?), in quanto di moda ne so poco e niente. Quindi se non esiste, l’ho
inventata. Se esiste … l’ho inventata lo stesso, mi scuso per eventuali
incoerenze.
Mh, che dirvi … nuovo anno, più sorprese!
;D tenetevi forte.
Bacione, Sheep.
*Il gioco delle dieci domande è stato teoricamente
ideato da me, e, se esiste, non so come in realtà funziona.
**La rivista è di pura fantasia e, se
esiste un settimanale femminile con questo nome, questo non ci ha assolutamente
niente a che fare.
E ora, i ringraziamenti (che vi spedirò anche attraverso il simpatico
strumento ‘rispondi alle recensioni’)
Mar: Visto? Ho postato :D La tua recensione
è chilometrica e sebbene l’abbia riletta mille volte non riesco a ricordarmela
* Alzheimer* … comunque, non posso che dirti grazie. Grazie perché mi sostieni,
grazie perché sopporti le mie crisi quando mi salta la voglia di non
pubblicare, grazie per tutta l’ansia con cui attendi ogni nuovo capitolo.
Grazie perché le tue recensioni mi tirano su quando sono giù di morale :3 Grazie.
Hedley:
E beh, sì, c’è una caterva di grazie
pure per te. Grazie perché, tra tutte le fan fiction di cui questo sito è
inondato, hai scelto proprio The last rose. Grazie perché è soprattutto per te che posto, oltre che per Marta e Mary
–loro leggerebbero comunque, ma ci tengono per la sezione e per la storia
stessa-, perché tu sei una delle lettrici/recenstrici
più assidue e perché so che se interrompessi non potresti sapere come va a
finire. Grazie perché alla fine ti sei affezionata a Drew e la combriccola,
grazie di tutto. :)
Mary: Vabbè, Blood, pure per te GRAZIE è poco. Grazie per tutto quello
che fai per noi. Per me e per Drew e per The Last Rose. Grazie per gli scleri, i consigli, il volto di Gwen che non so perché la
tua finestra di msn mi ha ispirato *muor* Grazie perché,
nonostante tutto, la recensione hai voluto lasciarla lo stesso. All’ultimo
momento, ma hai voluto lasciarla comunque. Grazie.
E grazie anche a voi, lettrici
silenziose, se ci siete. Grazie a tutte, Lettrici Fedeli. <3 Vi voglio bene.
Ma bando al miele … il capitolo volete
leggerlo o no?
Capitolo 6
Dopo l’ennesimo incontro con Drew, questa
volta allo Starbucks, Nicholas aveva intuito che c’era qualcosa in quell’assurdo ragazzo coi capelli rossi, qualcosa che
qualcuno dall’aldilà –supponendo che esistesse sul serio un aldilà- stava
cercando di comunicargli. Perché -ne era
certo- non era statisticamente possibile che due quasi-sconosciuti
s’incontrassero così spesso in una città grande come Londra.
Beh, per un attimo aveva anche preso in
considerazione l’ipotesi di star diventando paranoico e basta, che forse
era quella più giusta, ma alla fine, per
evitarsi una lunga serata all’insegna
dell’autocommiserazione, aveva optato per “segno del destino”.
Era la mattina del ventidue dicembre
mentre richiudeva la porta di casa, col viso illuminato da un sorriso
spontaneo- e chiunque nel mondo si sarebbe dimostrato concorde nell’affermare
che non c’era niente di più bello del sorriso spontaneo di Nick Jonas. Faceva
freddo, e la neve sembrava intenzionata a rimanere goffamente appollaiata nei
viali e sui marciapiedi e sui tetti e sui rami rinsecchiti degli alberi ancora
per molto; tipo per sempre.
Un pettirosso zampettava sull’asfalto con
aria allegra e Nicholas si fermò ad osservarlo prima di avviarsi alla macchina.
Gli piacevano i pettirossi. Ricordava nitidamente di quando, una decina di anni
prima, suo nonno gli aveva raccontato la storia di quell’affascinate uccellino,
grande più o meno quanto il pugno di un bambino. Secondo una leggenda, quando
Gesù si trovava sulla croce, in punto di morte, mentre tutti gli altri uccelli
volavano nel cielo indifferenti, uno di loro si era fermato, mosso a
compassione, e, non sapendo cosa fare per il Signore, gli aveva tolto dalla
tempia una spina che gli doleva più delle altre. Così una macchia di sangue era
schizzata sul petto della bestiolina e Cristo, per ricordare quell’atto
d’amore, gli aveva concesso di conservarla per sempre. Il bambino altruista e
orgoglioso che Nick era stato si era ripromesso di tenere a mente quella storia
come esempio di vita e comportamento.
Annegato nei ricordi montò sulla Mustang
che ancora profumava di nuovo e accelerò verso il centro della città. Aveva
finalmente un po’ di pausa dal lavoro e voleva prendersi del tempo per comprare
dei regali; era una cosa che proprio gli piaceva. Forse qualcuno l’avrebbe
giudicato un po’ troppo sentimentale, tuttavia per lui era davvero meraviglioso osservare le facce compiaciute dei destinatari
al momento dello scambio. Ok, forse suo fratello Joe con quella barba non aveva
proprio una bella faccia, ma andava
bene comunque. Rise tra sé, svoltando a destra, e si guardò intorno alla
ricerca di un posto libero.
Fortuna volle che una Plymouth stesse lasciando
la sua posizione di fronte a una tabaccheria proprio in quel momento e Nick ci
si infilò senza pensarci due volte. Tirò il freno a mano e scese, poi, facendo
oscillare le chiavi con la mano destra, prese a camminare verso Oxford Street.
«Buon Natale!» Gridò un babbo natale dalla
pelle color caffè agitando una campanella verso i passanti. «Buon Natale!»
«Buon Natale, amico.» Fu la risposta
quasi sussurrata del diciottenne, nonostante la pulsante consapevolezza che la
sua festa preferita sarebbe arrivata solo dì lì a un paio di giorni.
Quell’atmosfera gli metteva allegria; gli ricordava che non tutto era destinato
a finire. Gli permetteva di essere di nuovo bambino, solo per un po’.
Andrew lo stava aspettando all’angolo
della strada, il cappuccio della felpa calato dalla testa, i capelli rossi davanti
alla faccia e una sigaretta a penzoloni tra le labbra carnose. Senza
skateboard, per quella volta, ma lo riconobbe subito. Sarebbe stato inconfondibile
in ogni caso.
«Ehilà.» Lo salutò.
Drew alzò lentamente la testa e gli puntò
in faccia gli occhi color ghiaccio. «Yo.»
Avanzarono a fatica, fianco a fianco,
lungo la via superaffollata, l’uno l’antitesi dell’altro, come acqua e fuoco,
cane e gatto, diavolo e acqua santa, quando Nick osservò: «Non sapevo che
fumassi.»
«Tu non sai niente di me.» Il rosso
scosse la testa, piegando un angolo delle labbra. «Sul serio.» Sbuffò una
nuvola di fumo e lanciò il mozzicone in un cestino a caso.
«Già, forse.» Nicholas alzò lo sguardo
verso il cielo sereno e ammutolì un momento, poi si rivolse di nuovo a Drew,
intento a studiare una giovane coppia straniera. « Sai, quando ero piccolo in
America io e i miei fratelli facevamo un gioco. Dieci cose che non sai di me, si chiamava. E consisteva appunto
nell’elencare dieci cose a testa, dieci cose mai dette a nessuno; di solito
alla quinta mi ero già guadagnato un nuovo amico.»*
Andrew sgranò gli occhi, sorpreso. Parve
riflettere per un momento, infine scoppiò a ridere di cuore in faccia a quel giovane ragazzo americano che era piombato
così velocemente nella sua vita da non lasciargli il tempo di rendersene conto.
«Numero uno: Non sorrido mai.»
*
Mentre le prime luci dell’alba coloravano
il cielo di sfumature rosate e purpuree, l’aeroporto brulicava di gente. Il
ritmico ticchettare dei tacchi sul pavimento lucido era il solo rumore a
rimbombare nel corridoio del primo piano. Gwen lanciò l’ennesimo sorriso in
direzione Diana, altrettanto eccitata: l’ora della partenza si avvicinava ed
entrambe non stavano nella pelle.
Come tutti gli anni, la direttrice della rivista
per cui lavoravano, Moira Johnson, aveva
organizzato una trasferta a Parigi in vista della settimana della moda. Perfect Style** era una dei periodici
femminili più venduti di quell’anno, e la donna e le sue assistenti preferite
non potevano di certo mancare. Gwendoline già esibiva un meraviglioso –firmato- capotto blu, lungo, ma non
tanto da nascondere le gambe supersnelle, fasciate in deliziosi collant neri. Portava
con elegante disinvoltura un paio di scarpe che una donna media avrebbe
definito ‘trampoli’ ed i capelli biondo cenere intrecciati in un morbido
chignon. Ma Diana, accanto a lei, non sfigurava. Riusciva ad essere abbastanza ‘alla
moda’ anche con un semplice jeans scuro e giacca nera, Ugg grigi per stare più
comoda. Stavano raggiungendo il loro capo al Gate
quando una voce le interruppe. La rossa si voltò con grazia, e per un attimo le
mancò l’aria. Un uomo dagli occhi incredibilmente verdi guardava nella sua
direzione, tendendo la carta d’identità in cui stava ripiegato il suo
biglietto. La stessa carta d’identità che qualche ora prima si era infilata in
fretta e furia nella tasca destra del giubbino, ora –come poté costatare
infilandoci istintivamente dentro una mano- vuota.
«Mi scusi, questa … deve essere sua.» Kevin
Jonas sorrise di nuovo dopo un lungo periodo di astinenza. La giovane donna che
portava il nome di Diana Robin Fawn arrossì lievemente nello sfiorare
casualmente la sua mano, mentre si riprendeva i documenti. L’aveva già vista da
qualche parte, ne era certo.
“No.”Si
disse. “Se l’avessi già vista, a quest’ora
non sarei sposato.”
«Grazie.» Pigolò la ragazza quando, pochi
secondi dopo, riacquistò la facoltà di parlare. «Molte. Grazie molte.»
«Non c’è di che.»
Sebbene in cuor suo avrebbe voluto
restare con lei o quantomeno seguirla, Kevin sapeva di non doversi mettere
strane idee in testa. Non aveva bisogno di altri problemi, così ordinò al suo
cervello di costringere le gambe a muoversi e la salutò con un cenno del capo.
«Insomma, ti muovi?» Starnazzò Gwen
quando la sua migliore amica la raggiunse. «Ti comporti come se non avessi mai visto un uomo in vita tua! E
siamo orribilmente in ritardo, per l’amor
di Dio!» Kevin si voltò a guardarla un’ultima volta, prima di sparire dietro l’angolo.
«Okay, okay, ci sono. Andiamo.»
Ma non era vero, non c’era. Non del tutto, almeno, e continuò a pensare allo
sconosciuto dagli occhi verdi ancora per molto, prima di addormentarsi nel bel
mezzo del viaggio, in aereo.
*
«Che giornata.» Borbottò Kev tra sè, mentre i bagagli iniziavano a comparire lungo il
nastro.
Sperò vivamente che la sua valigia –valigia nera, doveva tenerlo a mente-
fosse ancora tutta intera … e che quella ragazza ricomparisse, magari proprio di fianco a lui, pronta ad
afferrare un borsone abbinato ai suoi splendidi ricci, che gli sorridesse come
aveva fatto poco prima. Scosse la testa, per ritornare sulla terra, e allungò
il collo per appurare che la sua valigia non fosse già passata senza che lui se
ne fosse accorto. Ma comparve poco dopo e, chiedendo ‘Permesso!’ a una donna di
mezz’età, tirò giù il trolley nero, quasi del tutto integro.
Lo osservò, ripensando di nuovo ai
capelli di Diana, ai suoi occhi, il suo abbigliamento semplice ma perfetto. Fu
un anziano signore a riportarlo tra i vivi, colpendogli involontariamente una
spalla con l’ombrello. Ripassò una mano sulla stoffa ruvida per controllare che
non ci fosse effettivamente nessun danno,
e solo allora si premurò di controllare il cartellino col nome.
“Charlotte
Anne Whistler” non era esattamente il suo, di nome. Forse … oh,
insomma, non lo era e basta. Si impose di rimanere coi piedi piantati per
terra e lanciò un’altra occhiata al nastro.
Sobbalzò nell’avvistare un’altra valigia nera … la sua valigia! La rincorse fino alla ragazza che l’aveva raccolta,
una ragazza molto giovane. Capelli castani mossi, lunghi, labbra dischiuse come
se stesse respirando con la bocca. Si era già chinata per ispezionare l’oggetto
quando Kevin le si avvicinò.
«Mi scusi,» Disse, per la seconda volta
in quella giornata, e Charlotte Anne Whistler trasalì, proprio come aveva fatto
Diana Robin Fawn. «Credo che ci sia stato un errore. E’ lei Charlotte Whistler, vero?»
«Errore?» Si tirò in piedi, le
sopracciglia aggrottate. «Scusa, come conosci il mio nome?»
Kev avvertì subito la tensione nascosta
nelle sue parole. «Non preoccuparti. Ci siamo semplicemente scambiati le
valigie. Controlla, c’è scritto Paul Kevin Jonas, giusto?»
Charlie annuì. «Oh, giusto.» Sgranò gli
occhi. «Ma dove ho la testa oggi?»
«Sta tranquilla, non sono in condizioni
migliori.» Scoppiarono a ridere e si scambiarono nuovamente i trolley, poi si
strinsero la mano.
Nicholas Jonas osservò suo fratello oltrepassare
la ragazza con cui stava parlando e dirigersi verso di lui.
«K2!»
Lo salutò, e quando l’ebbe raggiunto l’abbracciò, come due fratelli cresciuti
insieme si abbracciano dopo esser rimasti per mesi separati da un oceano immane.
«President.» Kev
sorrise, notando quanto era cresciuto.
«Kevin, questo è … Andrew?»
Il ragazzo rosso era scomparso. I due
fratelli si guardarono intorno, senza riconoscerlo nell’ingresso semivuoto.
«Che ci fai tu qui?»
«Che t’importa? Pensavo di essere morta
per te.»
«Lo sei, infatti»
Charlie fissò Drew con aria afflitta.
«Non cresci mai»