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Autore: bravesoul    19/01/2011    3 recensioni
A volte non sai davvero cosa dire.
Ogni parola potrebbe essere troppo, o troppo poco.
Lo stesso aprire le labbra sembra un gesto di troppo peso.
Un' anima disperata, una cartomante.
Tre carte da girare, tre carte per cambiare il destino.
L'apparenza, la realtà, il non sapere mai cosa sia giusto o sbagliato.
L' incapacità di lasciare andare, ma anche di proseguire oltre.
Un qualcosa troppo intenso.
Seconda classificata al contest 'Rock 'n Roll, Naruto', indetto da GreedFan.
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Anko Mitarashi, Kakashi Hatake, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Qui il link alla canzone di youtube =D   My Immortal

My immortal

                                                                      

A volte non sai davvero cosa dire.

Ogni parola potrebbe essere troppo, o troppo poco.

Lo stesso aprire le labbra sembra un gesto di troppo peso.

A volte non vuoi davvero dire nulla, lasciare che tutto ti passi sopra senza una ragione concreta, senza che tu faccia nulla per impedirlo, ormai solo una statua di sale in un lago d’acqua dolce. Una statua di sale che piano a piano si sgretola, si fonde, rendendoti irriconoscibile.

Ma a volte non si può davvero parlare, pronunciare una singola sillaba, perché non c’è più nulla che ti faccia rimanere a galla. La disperazione ti ha mangiato l’ anima, con gusto, lasciando solo le briciole a stringersi una accanto all’altra in cerca di calore ed affetto.

Ma, quello stringersi, è inutile. Resterà sempre il gelo.

E’ sparita troppa roba per poter recuperare una parvenza di calore ed umanità.

Gli occhi neri e profondi della zingara si attardarono sulla figura che aveva davanti.  L’ avrebbe definita una bellissima donna, se non fosse stato per quegli occhi marroni spenti, atoni, vuoti.

Carezzò, la zingara, le pieghe della tovaglia vellutata e violacea che ricopriva il tavolino di ciliegio, si passò una mano tra i capelli neri e riccioluti, sfiorò i pesanti orecchini gemmati ed appariscenti.  Le unghie viola e curate tamburellarono sul tavolo, mentre si concedeva un’ ultima occhiata alla visitatrice, una donna dal fisico piacevole, formosa ma in modo gradevole, con i capelli viola e sciolti. Una guerriera, aggiunse, a giudicare dalla muscolatura.  La gitana sospirò. Le avevano detto qualcosa in merito all’ anima di quella ragazza, qualche idiozia. Le fissò gli occhi, nuovamente.

Le avevano detto che quella era un demone, le avevano detto che aveva ucciso senza pietà, in nome di qualche ideale. Le avevano detto che era stata posseduta da un malvagio.

Ma quello che vedeva lei, non era altro che una donna che aveva perso qualcosa, qualcosa di enorme.

Qualcosa di tanto importante da portare una guerriera a chiedere aiuto a una cartomante, una fattucchiera, qualcuno che tentava di interpretare i disegni delle Parche senza tentare minimamente di cambiarli. Il contrario, la nemesi di una guerriera.

Avrebbe potuto- la zingara- chiedere di cosa si trattasse, ma dentro di sé sapeva che sarebbe stato inutile,  quella creatura non sarebbe stata in grado di dirglielo.

Accese un ramoscello d’ incenso, tracciò sottili disegni in aria.

Si aspettava una qualche reazione, un guizzo di incredulità e scetticismo.

Nulla.

Allora le proprie labbra si piegarono in un sorriso amaro.

Estrasse un mazzo di carte dal dorso vellutato.

Le Carte.

Quelle che avevano potere.

Non gli specchietti per le allodole che usava per clienti grasse, ricche ed insoddisfatte, non quelle che l’avevano resa famosa.

Estrasse il mazzo di carte che non servivano per sapere, ma per capire, entrare nel cuore e defraudare le Parche del loro regno incantato.

I denti bianchi della cartomante scintillarono.

Mischiò le carte, canticchiando una nenia dal sapore antico, amaro, quasi agonizzante.

Le poggiò sul tavolo, baciò la prima carta del mazzo, senza lasciare alcuna traccia sul dorso vellutato.

- Taglia il mazzo- Disse dolcemente alla spettatrice.

Gli occhi neri incontrarono quelli marroni della guerriera, che rilucettero per un singolo secondo.

Anko fissò la gitana, e con aria di sfida allungò una mano e tagliò il mazzo.

- Scegli una carta.-

Anko scelse una carta, poi la porse all’ altra donna.

Gli occhi scintillarono per un secondo mentre la carta veniva girata e il potere fluiva, attorniando le due donne e sigillando quel luogo finché la narrazione non fosse finita, sinché le Parche non fossero state brutalmente uccise e si fosse brindato col loro sangue. Ma - prima di tutto - finché Anko, la dura, non fosse riuscita a riacquistare qualsiasi cosa avesse perso.

La morte.

Prima carta.

La gitana carezzò la carta con la mano sinistra, con la stessa mano sfiorò il volto della guerriera, le sue labbra, il suo mento. Si avvicinò, e con dolcezza le baciò le labbra.

Insinuò la lingua in quella grotta senza fondo, svegliando il drago addormentato.  L’ altra rispose al bacio rapita da qualcosa, qualcosa nell’ aria.

La zingara le morse le labbra dolcemente, poi continuò il bacio, sfiorandole i capelli con una mano e con l’altra estraendo una nuova carta dal mazzo.

 

La Torre.

Seconda carta.

Non si staccò dal bacio, ma la cinse sempre di più, sempre di più, mentre la lingua scavava,  scavava senza posa, l’ incenso entrava nelle narici della guerriera, inibendone le difese, sciogliendole i muscoli.

Le lacrime sottili cominciarono a scendere piano piano per le guancie di Anko, il corpo  venne scosso dai sussulti.

La cartomante la strinse, la soggiogò sempre più in un bacio senza posa, rubandone l’energia latente, ma anche il dolore, la pena e la solitudine.

Un peso enorme le calò addosso, mentre la storia di quella creatura e l’ inevitabile sorte le riempivano la mente con immagini distorte dal dolore.

Si staccò dal bacio, passò una mano sulle palpebre della guerriera, che crollò svenuta sul tavolo.

Le carezzò i capelli, poi estrasse l’ultima carta.

 

La giustizia.

Terza carta.

Passato, presente e futuro.

 

Chiuse gli occhi.

Sentì l’ anima dell’ altra soverchiarla, irretirla, soggiogarla.

E si lasciò andare.

Volle entrare in quella cupa disperazione, volle conoscere la morte, la torre e la giustizia.

Passato, presente e futuro di quella creatura.

Ma non dalle carte.

Dalla voce stessa di colei.

 Una quarta carta le cadde dalle mani.

Ma non se ne accorse, era troppo tardi.

Si accasciò al suolo, rovesciando il tavolino, rovesciando le tre carte, rovesciando il mazzo.

Ma l’ incantesimo non si ruppe.

Il parricidio iniziava.

L’ anima della gitana stette, immobile, ad ascoltare quello che l’ anima mortale aveva da dire.

Il potere fluì, racchiudendola in una nenia senza fine.

 

My immortal.

 

Fa così freddo qui.

Fa tanto freddo da star male.

Si è a pezzi, qui.

E’ una merda, qui.

La pioggia cade, ma non me ne importa nulla.

Continua a picchiettare inclemente sulle finestre di questo maledettissimo posto, senza lasciarmi requie.

Potrebbe lasciarmi in pace, almeno lei.

Dove sono?

Non lo so.

So solo che mi sento strappata in pezzi, macerata, calpestata, dissanguata.

So solo che qui manca tutto.

Manca l’ aria, manca il caldo, manca il cibo, manca l’ alcool.

Resto qui, ovunque sia qui, a guardare la pioggia cadere incostante, mentre il mio corpo si lacera senza posa, mentre gli occhi restano sempre aperti senza mai chiudersi, mentre il resto non si muove di un centimetro, come se fossi bloccata in questa posizione per sempre.

C’è questo sapore di terra, in bocca, un sapore di marcio, che non va più via, nemmeno a non pensarci.

C’è questa paura, sottile, bastarda, infingarda.

La paura di restare da sola.

La paura del buio.

La paura di essere qui con qualcuno.

La paura della luce.

Paura... paura di respirare, ma anche di smettere di farlo.

E poi, poi c’è questo… questo… è come se fossi tornata bambina.

E’ come se fossi a nudo, schiacciata brutalmente dalle mie infernali paure, infernali paure che non erano altro che un bastardo figlio di puttana. Non voglio tornare bambina.

La mia infanzia è stata una merda, un’ autentica merda.

Non voglio tornare ad essere indifesa, senza nessuno che mi protegga, senza la mia scorza a proteggermi, aperta al mondo  e alla sua crudeltà.

Se mi sentissi, tu, cosa diresti?

Mi stringeresti.

Mi baceresti.

E nel farlo scacceresti le tue stesse paure, scacceresti il senso di colpa.

Siamo due pezzi di merda, omae*1.

Lo sai?

Ci nutriamo ciascuno dell’ altro, dando in cambio solo dolore e sofferenza.

No, non è vero.

Ci sono quelle notti di fuoco, quel meraviglioso riscaldante sesso, che ti toglie ogni problema, ogni pensiero. Ti annichilisce di piacere. Ma anche ora sto mentendo. Non è solo sesso, lo so io, come lo sai tu, omae.

E’…. quanto fa male dirlo.

Noi facciamo l’ amore, stronzo.

Amore.

Solo a pronunciare queste cinque lettere mi pare che il mio corpo si ricopra di piaghe, che inizi a sanguinare copiosamente da ogni orifizio, tingendo questa carne bianca di sangue scarlatto, senza posa.

E tutte quelle altre ferite, le paure, l’ ansia, la solitudine, fanno più male.

Io non lo so, dove sono.

Non so …

Non so cosa stia succedendo.

So solo che piove.

E andrebbe anche  bene, se non ci fosse questo dannato ricordo del tuo corpo, della tua voce, dei tuoi occhi, del tuo cuore che batte tanto piano- a volte- da farmi temere che si fermi per noia, senza ragione. Ma, soprattutto, il ricordo di quel sapore tanto tuo. Degli insulti gridati ad alta voce, dei litigi.

Delle scazzottate, delle prese per il culo.

Delle cene che tentavo di cucinarti, bruciandole inesorabilmente.

E delle smorfie che facevi mentre tentavi di mangiare quella roba indecente, per non litigare di nuovo.

Mi ferisce, questo.

Manca troppo.

La pioggia cade, e la mia pioggia eri tu.

Vorrei che smettesse di piovere.

Vorrei dimenticarti.

Vorrei.

Ma non posso.

Sola in chissà quale cazzo di luogo, l’ unica cosa che mi assilla sei tu.

Le volte che mi consolavi.

Le volte che ti consolavo io, che ti venivo a prendere mentre te ne stavi davanti a quella tomba, a volte talmente sbronzo da non tenerti su.

Il tuo tocco gentile, quando la notte mi svegliavo urlando.

I tuoi incubi, quelli che ti facevano rigirare.

Mi coprivi.

Quando combinavo un casino te ne prendevi sempre la colpa.

Credevi che gli altri non avessero capito che tra noi c’era qualcosa?

Oh, quei bastardi lo sapevano.

Lo sapevano meglio di noi.

E io sono qui.

Immersa nel nulla.

Potresti scomparire dalla mia memoria. Potresti non essere mai esistito.

Non ti voglio qui.

Perché dove sono ora non mi puoi raggiungere.

Eppure sono tua, il mio cervello è tuo, il mio corpo è tuo.

Senza sono come un eroinomane senza dose, impazzisco.

Sto parlando col nulla. Non sono forse già pazza?

Sì.

Pazza da legare.

Pazza da far schifo.

Pazza.

Impaurita.

Da sola.

Spezzata.

Lacerata.

Calpestata.

Torturata.

Sperduta.

Isolata.

 

Gli occhi si chiudono.

Le palpebre calano come inesorabili.

Qualcosa si avvicina, bianco, candido.

La morte?

La torre?

La giustizia?

Non lo so.

So solo che non sei tu.

E.Questo.Mi.Distrugge.

Chiudo gli occhi.

Immortale.

E da sola.

Sola con il tuo ricordo immortale.

Fanculo.

Qualcosa si avvicina.

E una carta cade al suolo.

Il profumo d’incenso mi apre le narici.

E delle campanelle tintinnano.

Gira la carta.

Dammi uno scopo.

 

La gitana aprì gli occhi.

Passò una mano tra i capelli.

Ma non erano più capelli neri e riccioluti. Si fissò le mani, non erano più curate, ma ferite ed oltraggiate, solcate da un paio cicatrici, una ingessata. 

Era dunque quello il volere delle Carte?

L’essere sorrise, un piccolo squarcio si aprì nelle sue labbra, secche e spaccate.

Avrebbe seguito le Carte.

Un rivoletto di sangue colava dalla cute della testa,  il tavolo di ciliegio era riverso al suolo, la coperta di velluto caduta da qualche parte.

Le Carte erano sparse per terra, senza un ordine preciso, alcune macchiate di sangue fresco e rosso.

Osservò il corpo della giovane dai capelli viola, che giaceva senza sensi al suolo, in modo scomposto.

Le sfiorò la cute, le baciò la fronte gelida.

Tutto quello che aveva saputo da quella giovane non gli serviva più.

Passato, presente e futuro.

La Morte, La Torre, La Giustizia.

E una quarta carta mai consultata, oramai perduta in quel marasma di carte senza senso e senza ordine preciso. Sbagliato, quelle carte avevano una volontà propria, non potevano non assumere uno schema che non avesse un significato determinato.

La morte, il passato. Uno scheletro in armatura nera sopra un cavallo bianco come la neve, sotto le zampe di questo un re, davanti ad esso un sacerdote e due bambini. Carta che indica non solo la morte corporale, ma un periodo di distruzione, in cui tutto può crollare senza alcun preavviso, con una forza distruttiva.

La torre, il presente.  Un fulmine colpisce una torre, ne scoperchia la sommità, una corona. Due persone, un uomo e una donna cadono da questa, in fiamme. Una delle due ha una corona.  Parla di difese che crollano, animi messi a nudo, certezze solide come fondamenta che si sgretolano, una vita intera che va in fumo.

La giustizia, il futuro. Una donna dallo sguardo severo, assisa in trono, coperta da un manto rosso, una spada con la punta verso l’ alto in mano,  una bilancia nell’altra.  La giustizia fa in modo che tutti sperimentino le conseguenze delle proprie azioni, chi ha commesso malvagità paga, chi si è comportato rettamente viene premiato. E’ inappellabile, infallibile, immutabile.

La creatura ritrovò le tre carte, misteriosamente cadute una di fianco all’ altra.

Le baciò una ad una.

Che destino atroce per una così giovane donna.

Un evento travolgente e distruttivo, uno sgretolamento di ogni certezza come caduta a picco, e infine una giustizia senza appello, che non avrebbe tenuto conto delle ragioni dietro certe azioni.

Le passò una mano tra i capelli.

Forse sarebbe stato meglio lasciarla in quello stato bloccata per sempre nel limbo, a sognare un amore impossibile da raggiungere, a crogiolarsi nei ricordi passati, immersa nel dolore.

Più clemente.

Ma, qualcosa, qualcosa dentro di lui si era mosso, inspiegabilmente.

C’era qualcosa in quella donna che gli ricordava tanto … cosa?

Aveva visto quelle memorie, aveva conosciuto i tormenti di quell’anima sperduta eppure qualcosa gli sfuggiva, inesorabilmente.

Fissò le tre carte, passato, presente e futuro.

Aveva usato le Carte, prima. Non c’era una ragione precisa per cui l’avesse fatto.

O, forse, forse sì.

Sorrise stancamente.

Si passò una mano tra i capelli e ne strappò qualche ciocca argentata, chiuse un occhio, lasciando libero solo quello diverso.

Prese con sicurezza una carta voltata verso il basso, con il dorso vellutato coperto di sangue.  Avvicinò la mano ingessata a quella superficie morbida. Come la toccò un lampo lancinante di dolore gli attraversò il corpo.

Girò la carta, strappò i fili del destino.

Erano tre e solo le tre le carte che era possibile girare.

Eppure dalla mano della zingara ne era caduta una quarta, dalla mano dell’uomo la quarta era stata girata.

Con estrema sofferenza ritrasse la mano.

 Gli amanti.

Quarta carta.

Il mondo cadde.

L‘incantesimo si ruppe.

La zingara svanì.

Le carte svanirono.

Tutto svanì.

Immaginazione.

Illusione.

Potere.

Destino.

Tutto.

My Immortal.

Svanì anche lui.

 

Gli amanti.

Gli amanti aprirono gli occhi.

Meglio.

Un  amante aprì gli occhi e scagionò l’anima dell’ altro.

Un dolore atroce gli percorse il corpo.

Si svegliò urlando, annaspando e al contempo smaniando di respirare quell’ aria che gli pareva tanto nuova.

La carne avvertì la sensazione delle coperte di velluto, le mani tastarono velocemente e ansiosamente alla ricerca di qualcosa di noto.

Il cuore parve accelerare i battiti sino all’ inverosimile, il respiro si fece veloce e difficoltoso.

Portò le mani al collo.

Mancava.

Mancava quella presenza.

Mancava la concezione dello spazio.

Mancava il tempo.

Mancava la pace.

C’era solo il dolore.

C’erano ricordi sparsi.

Ma non c’era lei.

La zingara?

No.

La guerriera.

Si voltò di scatto,  chiuse l’ occhio normale.

E la vide.

La vide corporea in quelle coperte accanto a lui.

Si chiese come fosse possibile. Allungò una mano per toccarla, per accertarsi che quella non fosse solo una visone del suo cervello impazzito. Ma... lei c’era.

Le mani sfiorarono quell’ epidermide, ne tastarono la consistenza, le imperfezioni, le cicatrici.

Lei si voltò nel sonno, sorridendo beata, inconsapevole di cosa lui avesse passato.

Non era possibile… lei... lei era… morta…

Usò lo sharingan, di nuovo.

Quell’ occhio non poteva mentire.

E non mentiva.

Lei era viva.

Viva.

Kakashi Hatake era un uomo estremamente razionale. Non poteva comprendere… quello.

Lei era morta, ne aveva portato il cadavere tra le proprie braccia devastate dalle ferite di guerra. Ferite che non si erano ancora rimarginate.  L’ avevano dichiarata morta.

L’aveva creduta morta.

Aveva passato giornate intere davanti a quella stele dei defunti, troppo ebbro di dolore per poter anche solo parlare.

Aveva schivato amici e colleghi, per non dovere parlare e mentire, dicendo “ È tutto a posto davvero,  no preoccupatevi” perché a posto non era nulla.

Si era gettato nel lavoro in modo impossibile per non dovere pensare a quello che lei si era portata via, nel morire. Non solo il sesso, le risate, ma anche l’ anima di lui. Un’anima decisamente fatta a pezzi, ridotta in cenere ma comunque un’anima.

Era diventato più schivo e solitario del solito.

Aveva ripercorso con la mente la dannata missione in cui lei era morta.

Aveva concluso che- per una volta- non era stata colpa sua se lei era rimasta uccisa. Ma la cosa non l’aveva fatto sentire meglio. Aveva dato tutto il possibile, non avrebbe potuto fare di meglio, ma comunque questo non era stato abbastanza.

Rimase a fissarla, ancora.

Non c’erano state  parole per esprimere il dolore passato, lui non era mai stato troppo bravo a parlare di sentimenti.

Non c’erano parole nemmeno per quella strana sensazione che gli pervadeva l’ anima in quel momento, quel caldo che dal petto si dipartiva in tutte le direzioni.

Era viva.

Era sua.

La baciò dolcemente.

Si rese conto di non volere spiegazioni.

E se era un sogno, si rese conto, che per una volta, lo preferiva alla realtà.

La strinse, mentre lei faceva lo stesso nel sonno, chiuse gli occhi respirando a pieni polmoni quel profumo tanto perso.

Due carte caddero.

Non le girarono.

Forse avrebbero dovuto.

Avrebbero dovuto.

 

La zingara rise.

Girò le carte.

Stette, allibita.

- Cercavano la strada di casa.-

Furono le sue ultime parole.

Si accasciò senza vita sul tavolino, che cedette.

Il sangue si riversò su quelle carte vellutate, tranne che su due.

Le carte che la zingara teneva in mano.

 

La Ruota della fortuna e la Morte.

La ruota e la falce sono immobili.

Basta un piccolo movimento.

E la ruota gira.

La morte arriva, implacabile.

Un sospiro.

Un giro di carte.

Un bacio rubato.

 

Un piccolo movimento.

 

Stettero immobili.

 

In bilico.

 

La ruota li rese immortali.

 

Ma vivi?

Contest & Co

2° Classificata + Premio Greed e Premio Snail

"My Immortal" di bravesoul

 

Correttezza grammaticale e lessicale: 9/10

Originalità: 10/10

IC/Trattazione dei Personaggi: 9/10

Attinenza della canzone scelta: 9/10

Giudizio Personale: 5/5

Totale: 42/45


Testo nascosto - clicca qui
 Come puoi vedere, a questa fanfiction è toccata l'onta del premio "Greed". Ma andiamo con ordine...

Dal punto di vista lessicale e grammaticale non ho nulla da dire: la shot è davvero ben scritta e curata, tanto da meritare un nove pieno. Il tuo stile è dolce e corposo, arricchisce la narrazione di dettagli e sensazioni che impediscono al lettore di annoiarsi, e lo trasportano attraverso una trama ricca e particolare, mai vista. Non ho potuto fare a meno di assegnarti il punteggio pieno alla voce "originalità", perché te lo sei meritato tutto.

Il pairing, infatti, è già di per sé poco sfruttato, e tu, coniugandolo ad un'ambientazione del tutto nuova e all'elemento dei tarocchi (quanto mai stuzzicante, per una sognatrice come la sottoscritta), hai creato una oneshot veramente magistrale.

I personaggi sono trattati molto bene, compresa la figura della narratrice. E' come se, attraverso una cortina fumosa, potessimo guardare attraverso i loro cuori, comprenderne davvero le esperienze, il carattere e la psicologia. Kakashi mi convince un po' meno di Anko, ma anche qui nulla ha potuto toglierti un nove.

L'attinenza della canzone è notevole, anche se, come tu hai giustamente detto, ad una prima lettura mi sono chiesta cosa c'entrasse My Immortal con la tua fanfiction. Dopo una seconda revisione, tuttavia, ho capito che, mai come in questo caso, la canzone si adatta davvero alla storia: non solo per quanto riguarda il testo, ma anche per la stessa atmosfera, che ricrei perfettamente attraverso le parole.

Ancora complimenti per questo ottimo lavoro, che si piazza al secondo posto senza alcuna esitazione. 

 

 jn                   nn         nnn

 

  
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