Storie originali > Nonsense
Segui la storia  |       
Autore: AmetistaCassandra    20/01/2011    4 recensioni
Fu in quel periodo della mia vita che iniziai a concepire l'idea del piano malefico che avrebbe per sempre cambiato la faccia, per non dire la voce, del mondo.
Fu in quel periodo della mia vita che decisi che avrei assassinato la musica.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Molti anni dopo, davanti alla corte d'appello, il mio avvocato avrebbe cercato con ogni mezzo a sua disposizione di farmi dichiarare che era stata la musica a iniziare le ostilità.
A onor del vero avrei ammesso che nella mia scelta non vi fu l'ombra di un'emozione o di un movente.
Fredda e indifferente come il più esperto dei sicari avevo accettato la realtà delle cose con l'indifferenza di chi sa con certezza di non avere scampo né alternativa. Come l'uomo che si sa per natura mortale, avevo scelto di vivere consapevolmente la mia invalidità, cercando di menomare il mondo di ciò che avrebbe potuto ricordarmela ogni istante. Mandante di me stessa, non mi ero promessa premio o compenso: sarei riuscita nel mio intento o sarei perita nel silenzioso fallimento.
Non amavo il silenzio.
Per quanto fosse l'unica bolla di fluido sordo capace di lenire in me l'estraniamento da suono, quella strana tregua confusa risvegliava in me sensazioni fastidiose e sbagliate. Nei momenti di vero silenzio, mi sentivo parte della specie umana, quando il suono non era determinante, diventavo una di loro.
A Berlino esiste una stanzetta piccola ma famosa chiamata "la stanza del silenzio". I meccanismi del mio ordigno mortale erano già in moto da tanto tempo il giorno in cui, più per caso che per intenzione, mi ero ritrovata a entrare e a guardami intorno cercando di frenare la parte di me che mi diceva di fuggire. In mezzo al vuoto più totale, tre vecchie signore lasciavano riposare le borse sulle panchette, godendo a occhi chiusi di quel momento in cui persino il loro animo sembrava concordare con il loro corpo nel tacere. Assaporando in anticipo la morte, se ne stavano immobili e incoscienti con le calzamaglie arrotolate alle caviglie e le sottane spiegazzate sotto le gonne da tutti i giorni. Nessuna di loro aveva aperto gli occhi o voltato la testa verso di me quando, a passi leggeri ma scostanti, mi ero avvicinata a una panca per fare silenzio in mezzo a loro, come era uso lì dentro.
Era stato allora che mi ero accorta che tutte loro si stavano sforzando.
La più vecchia delle tre, una signora grassoccia infagottata in un grande impermeabile verdognolo, strizzava gli occhi e respirava a fatica come se temesse che l'aria che usciva dalle sue narici avrebbe potuto disturbare le persone a fianco a lei. Pensai che fosse talmente presa dal non far rumore da non accorgersi della calma che era andata a cercare là dentro.
Non so dire per quanto tempo rimasi in quella stanza ma fu sicuramente molto meno di quanto credetti di sentirne trascorrere. Eravamo tutte là, sedute il più lontano possibile l’una dell’altra, e niente sembrava preoccuparci più del non farci sentire.

Il tempio della pace si era trasformato nell’arena dei leoni. Era una sfida, una lotta spietata senza esclusione di colpi. Inaspettatamente avevo sorriso quando la donna alle mie spalle si era lasciata sfuggire un colpo di tosse contro il fazzoletto bianco premuto sulle labbra. Pur senza vederla sapevo che aveva abbassato lo sguardo sulle ginocchia mordendosi il labbro per la sconfitta. Era proprio in quella lotta senza esclusione di colpi, in quel torneo fatto di regole non dette, che mi ero ritrovata, per la prima volta in piena consapevolezza, spiazzata. Anche la nota più bella e pura avrebbe fatto stonare la sinfonia di silenzio a cui stavamo assistendo.
Ero una di loro. Non diversa, non peggiore.
Avevo le loro stesse possibilità di fallire, le loro stesse possibilità di sconfiggere le altre, prendendomi la rivincita su quell’insormontabile schiera di anziane intonate. Nel silenzio cessavano la mia diversità e il mio scopo, tornavo a essere una persona apparentemente normale che, ormai da anni, dedicava la sa vita alla rovina della propria specie.
Non mi ero pentita, non avevo nemmeno accarezzato l’idea, allora, di poter risparmiare l’umanità dal supplizio di una vita senza musica: avevo lasciato scivolare la mano nella tasca, assaporando il contatto con il metallo freddo del revolver silenziato che nell’ultimo anno aveva freddato un primo violino dell’opera, sei clarinetti, due noti pianisti e dodici direttori d’orchestra. Mi ero chiesta se sarei stata in grado di battere anche loro al gioco del silenzio.
Uscita da quel buco nero di familiarità col genere umano avevo ucciso un oboe senza troppe esitazioni, giusto per confermare il fatto che la danza delle anime silenziose della saletta di Berlino non era che un ricordo.


Non ero mai più tornata nella stanza del silenzio. Mi piaceva pensare che fosse perché i miei affari mi avevano portato lontano da Berlino ma sapevo bene che sarebbe rimasta un’incognita irrisolta per tutta la mia vita: la mia mente provava un certo, sadico, piacere a tornare sull’argomento ogni qual volta la mia ragione abbassasse la guardia. L’immagine delle panchette vuote immerse nella quiete mi sarebbe riapparsa nella mente il giorno in cui sarei rimasta immobile, bloccata tra compiacimento e orrore, a osservare con quale grazia e con quale musicalità il sedicesimo direttore d’orchestra abbandonava questo mondo contorcendosi nel sangue.
L’ennesimo musicista morto in un perfetto connubio di suoni, senza stonare una sola nota mentre balbettava, sputacchiando una sucida richiesta di mercé.
Si era spento senza privare la musica di un solo momento di gloria, portando nella tomba un orecchio assoluto, due concerti per pianoforte di sua composizione ancora incompiuti e quarantatre anni di onorati studi musicali. Il tutto senza stonare una sola nota.
Ero tornata a casa inspiegabilmente nervosa e per dieci giorni non avevo sparato un solo colpo di pistola.
Talvolta parlavano dei miei omicidi al telegiornale ma la cosa non mi aveva mai preoccupata molto: ero stata abbastanza astuta da non uccidere più di un musicista a stato per ogni mese e nessuno aveva ancora collegato tutte le morti tra di loro. I commissari di polizia non erano molto svegli nell‘epoca dell‘ipod, e, mentre quelli seguivano piste improbabili che li portavano sempre più lontano da me, io non facevo un solo passo avanti verso l’effettiva eliminazione del mio nemico, troppo impegnata a fare il bagno nel sangue dei suoi scagnozzi.

Mi ci vollero duecentosessantasette musicisti con altrettante morti intonate per capire che quella non era la via giusta.

La notte dell’uccisione del sedicesimo direttore d’orchestra non avevo chiuso occhio. L’immagine della stanza del silenzio continuava a riapparirmi negli occhi spenti, riflessa sulle tende opache e polverose della mia camera d’albergo. Avevo bruciato i suoi spartiti nel caminetto.

La Bohéme scoppiettava allegra nel caminetto mentre sedevo alla scrivania rileggendo il cartellone dell’Opera di Parigi. La musica mi scaldava la stanza mentre progettavo l’ennesima stoccata contro di essa. Avevo tracciato una grande croce sopra la programmazione del Rigoletto: il decesso del direttore d’orchestra mi sembrava una ragione sufficiente per l'annullamento dello spettacolo. L’Opera di Parigi avrebbe dovuto rimborsare il prezzo di molti biglietti. Dopo aver calcolato mentalmente il danno che la chiusura di un teatro dell’Opera avrebbe potuto causare alla musica, avevo sorriso compiaciuta e immaginato quelli che sarebbero potuti essere i titoli delle testate francesi, qualche mese dopo, quando avrebbero annunciato la morte del più famoso tenore di Francia, attualmente occupato nell’allestimento del terzo spettacolo in cartellone. Mi ero annotata il nome dell’uomo su un fazzoletto di carta e lo avevo infilato nella tasca dell’impermeabile. Sapevo che non avrei potuto ucciderlo prima di due mesi ma niente mi avrebbe impedito di fare qualche ricerca sul suo conto.

Il teatro non avrebbe potuto reggere due cancellazioni dal programma in un solo trimestre. L’idea di centinaia di musicisti licenziati a causa mia mi elettrizzava. Mi sembrava già di vederli, all'ufficio di collocamento mentre stringevano tra le mani i loro curriculum monotoni o mentre telefonavano a qualche loro vecchio amico per chiedere di qualche posto vacante presso questa o quell'altra orchestra destinata a fallire. Mi feci portare dello champagne in camera.

Uccidevo soltanto musicisti impegnati nella diffusione attiva della propria arte: le mie regole erano molto severe a riguardo.

Non avevo tempo da perdere con amatori, ragazzini, bande di paese o complessi rock. Selezionavo le mie vittime con estrema attenzione: insegnanti di conservatorio, musicisti professionisti, compositori. Una volta avevo fatto saltare un pulmino a due piani con un’intera orchestra sinfonica in trasferta. Non uccidevo minorenni né persone prive di certificazione. Non avevo tempo da dedicare ai pesci piccoli. Non avevo mai toccato un pensionato né chi, almeno una volta nella sua vita, aveva commesso un errore in pubblico.

Non rubavo mai. La mia nobile missione non doveva per nulla al mondo essere scambiata per un lavoretto da morto di fame. Lasciavo al cadavere tutto il suo armamentario di preziosi e mi limitavo a confiscare ciò che era strettamente attinente al mio mandato: strumenti, spartiti, registrazioni di vecchi concerti, onorificenze ricevute. In otto anni di servizio avevo raccolto il corrispettivo in musica del patrimonio di una piccola banca. Naturalmente avevo distrutto ogni cosa.

Fare fuori gli strumenti musicali era la parte che preferivo di ogni colpo; non mi limitavo mai a romperli materialmente: li sottoponevo a un vero e proprio stupro morale.
Mi divertivo come una bambina a lerciare e macchiare nell’anima quegli oggetti che erano stati considerati il tesoro e lo spirito dei loro legittimi proprietari.
Godevo nell’abbruttirli quando erano ancora al massimo del loro splendore.
Inficcavo flauti d’oro nei bidoni dei rifiuti organici, li imbottivo di prosciutto avariato e formaggio stantio e lasciavo cadere manciate di terra bagnata sopra di essi, lerciandomi di puzza sino ai gomiti e impastando senza pietà.  Spalmavo marmellata e olio della macchina sulle corde dei violini, dopo averli gettati a fare il bagno nel catrame e buttavo corni e fagotti delle pozze di fango dei maiali, con le ghiande. Avevo costruito una cuccia per cani con il legno ricavato da un contrabbasso da venticinquemila euro e per qualche mese avevo steso il mio bucato tra le corde di un’arpa; una volta preso il giro di servirmi in una lavanderia, avevo fatto un bel rogo e ti saluto stendibiancheria.   

 
 

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Nonsense / Vai alla pagina dell'autore: AmetistaCassandra