Sparsi
sul pavimento ricordi d’acqua rossa
Perfino un elfo
domestico ha dimostrato più coraggio di lui.
E’
quel che pensa Draco alle spalle tremanti di sua madre, sconfitte da una forza
misteriosa che pare spingerle verso il basso come il sorriso al contrario.
Davanti ai suoi piedi, in un ventaglio di cocci di cristallo, nel dedalo
distrutto di quello che un tempo era il maestoso lampadario d’ottone del
salone, a pochi passi dal padre svenuto che anche a quella distanza profuma del
sentore vagamente dolciastro di vino, c’è quella che lui non si è vergognato
nel definire la loro occasione di
riscatto.
Il
calice s’è infranto e se non sapesse che era questo che teneva in mano e non la
bacchetta, quel bicchiere dispensatore d’oblio e di pace illusoria che metteva
a tacere l’incertezza e la paura che ha divorato Lucius poco a poco,
addentandolo dall’interno come il più meschino dei parassiti, Draco potrebbe
pensare quasi sia sangue la pozza che s’allarga al suo fianco, sotto la schiena
riversa.
Quel
rosso cupo e traslucido dal sentore di ribes che gli inzuppa i capelli e il
rivolo che gli scivola come bava dalle labbra, aperte in un grido muto a cui
non ha fatto in tempo a dare voce.
Ma
è sangue vero quello che gocciola dall’avambraccio ferito della ragazza che lui
si è divertito a prendere in giro per anni a Hogwarts.
Un’altra vita,
pensa, un altro tempo. Altre persone.
Ragazzini
diversi dagli uomini e donne che adesso lo stanno fronteggiando con lo sguardo,
orgogliosi e sciocchi. Anche loro non hanno mostrato timore, pur sapendo nelle
sue mani fosse contenuto l’ultimo barlume di salvezza che gli era rimasto,
barbaglio di speranza.
Potter
l’ha guardato dritto negli occhi, non un gemito nel venire strattonato come uno
straccio o qualcosa di particolarmente ingombrante e contaminato.
I
suoi occhi ora sono ancorati lì però. Capelli
rossi, lentiggini… Non serviva neppure la sua conferma: Weasley, considera, e se avesse maggiore
forza imprimerebbe più disprezzo in quella riflessione.
Col
braccio destro sembra volere imprimere tutta la figura di lei, avvinghiata al
suo petto senza saperlo, le gambe piegate in una posizione innaturale, quasi
stesse per genuflettersi o cadere lì a peso morto da un momento all’altro, giù
giù in un baratro senza fine. Forse
uguale al suo.
Non
si regge in piedi eppure mentre veniva torturata, mentre Bellatrix le marchiava
a fuoco magico la parola con cui lui l’ha sbeffeggiata tutta un’età, la Granger
fissava le scale, attendeva e scalciava e si dimenava. Ha pianto e urlato, ma
mai chiesto pietà. Si è dibattuta come una farfalla tra le spire di un ragno,
intrappolata nell’intreccio della sua ragnatela. Ha pianto sì, ma per la
vergogna.
Solo
per questo e nonostante questo coraggio insensato, tutto ciò che ha visto sul
pavimento sono state un paio di scarpe incollate al suolo, che non si sono
mosse ad aiutarla. Le sue.
Si
è interposto senza saperlo tra lei e l’entrata in scena dei salvatori per
eccellenza, poco prima giungessero. Era prevedibile, ha pensato poi e si è
lasciato strappare la bacchetta dalle dita con facilità, troppa, l’ultimo filo
a tenerlo legato a quel mondo che da tempo si chiede se sia giusto, ciò che
desidera e a cui vuole appartenere.
L’ultimo
sguardo che ha incrociato poco prima scomparissero è stato quello di Potter, grigio
nel verde, reso opaco dalle lenti sporche degli occhiali pendenti su un lato.
Non
ha letto biasimo né accusa: solo una divorante, strisciante pietà che gli ha
mozzato il respiro, veleno rancido nei polmoni a bruciargli l’aria. Non c’è
stato più tempo dopo.
Lui
è venuto e altro sangue è sgorgato.
Che strano.
Accanto alle macchie lasciate dalla mezzosangue quelle più recenti che fuoriescono
da Lucius ora hanno lo stesso colore. La stessa sfumatura vischiosa; acqua
rossa.
Il loro sangue,
ha riflettuto e non sa se i brividi siano scaturiti dal raccapriccio o da
qualcos’altro, è uguale.