Nel frattempo, voglio ringraziare - come sempre - tutti quelli che mi seguono, che mi leggono e che mi recensiscono; un GRAZIE speciale a mo duinne, Alebluerose91, BBV (grazie per tutti i complimenti che mi hai fatto, spero continuerai a leggermi d'ora in poi!) e XxX_GiuliaLoveless_XxX! Davvero, non so come ringraziarvi... Recensite praticamente sempre, e questo mi fa moltissimo piacere. Spero di trovare molte più recensioni a questo capitolo nuovo, che è un po' di "passaggio". Il bello arriverà tra un po' :)
Capitolo quindici
Mi sistemai nel mio posto, quello accanto al finestrino. Che
fortuna, pensai, il posto che adoro di più. Accanto a me non
era seduto ancora nessuno, mentre tutti gli altri passeggeri iniziavano a prendere posto.
Il volo non sarebbe durato molto. Avevo deciso che avrei infilato le cuffie nelle orecchie e finto di essere in coma per tutto
il viaggio. Ero ancora nervosa, temevo che avrei potuto sbranare qualcuno a
morsi.
Certo che il mio primo giorno da non-vergine si era
rovinato ormai del tutto.
Due hostess facevano avanti e indietro per il corridoio.
Prima di prendere l'ipod ed entrare in coma, estrassi
dalla tasca il biglietto che mi aveva lasciato Alex,
quello con la poesia. L'avevo tenuto in tasca per tutto il tempo,
non avevo voluto buttarlo. Glielo avrei fatto mangiare, non appena
l'avrei rivisto, davvero.
Lessi la poesia lentamente, sforzandomi. Perché mi sembrava così familiare?
Forse mi ricordavo l'autore, perché riconoscevo quel
tipo di poesia.
Mentre riflettevo attentamente, un signore si
avvicinò.
Era un signore già avanti con l'età, poteva avere una
sessantina d'anni. Aveva degli occhiali rotondi, un panciotto piuttosto
prominente, i capelli bianchi, un po' di barbetta, anch'essa bianca. Mi sapeva
di un nonno. Mise una borsa nel porta bagagli in alto,
poi si sedette accanto a me. Ecco chi sarebbe stato il mio compagno di viaggio,
poco male. Sarebbe stato tranquillo e silenzioso come volevo. Mi fece un cenno
con la testa come per salutarmi e io ricambiai. Mi guardò un attimo anche lui,
poi distolse lo sguardo.
Appoggiai subito il mio gomito sul bracciolo, in modo che non se lo fregasse, e
ritornai a leggere il dannato pezzo di carta. Fra un po' il fumo mi sarebbe
uscito dalle orecchie.
Stavamo per partire: una voce metallica ci disse di allacciare le cinture.
L'allacciai, il signore ebbe un po' di difficoltà in
più per via del suo panciotto.
Una delle due hostess cominciò a spiegarci come uscire dall'aereo in caso di emergenza, dove vomitare, dove prendere la mascherina
d'ossigeno, con i soliti movimenti meccanici da farla sembrare un robot. E da costringermi a trattenermi dal ridere. Non prendevo un
aereo da un po', ma ormai le sapevo bene, tutte queste cose.
L'hostess andò via e ci preparammo per il decollo.
Decisi che avrei riletto il biglietto per l'ultima volta, e poi l'avrei messo via.
Proprio mentre stavo per finire, il signore accanto a me parlò.
“Le piace leggere Baudelaire, eh?” mi chiese. In
italiano, per fortuna.
“Come, scusi?”
“Baudelaire, dico. Charles Baudelaire.”
Lo guardai stralunata, non capendo. Cosa c'entrava Baudelaire?
Il signore mi indicò il biglietto che tenevo il mano,
con un movimento di sopracciglia, molto eloquente.
Oh, quello!
“A dire il vero, non sapevo neanche che fosse Baudelaire.” commentai, facendo la figura
della perfetta idiota.
Mi sembrava così familiare perché avevamo letto Baudelaire
all'ultimo anno di liceo, a scuola. Mi era piaciuto abbastanza, ma non mi ero
mai appassionata.
Forse avevamo letto persino questa poesia, in classe?
“Eppure mi sembrava molto attenta e concentrata nelle sue numerose letture.”
“Il fatto è che...” esitai un
attimo, prima di continuare. Ma in fondo chi se ne
importava? Non l'avrei mai più rivisto questo strano signore, quindi tanto
valeva dirgli la verità. “Il ragazzo che amo mi ha
lasciato questo biglietto, per poi andarsene da me, e non capisco ancora il
perché. Non ricordavo chi fosse l'autore della poesia.
Per questo, mi stavo sforzando di capire.”
Il signore mi guardò un attimo negli occhi prima di rispondere, poi annuì.
“E' Baudelaire, il poeta maledetto Francese.
La poesia s'intitola Rimorso Postumo.”
Rimorso Postumo.
Rimorso.
Rimorso.
Rimorso.
Rimorso...
La parola fece una vera e propria eco dentro la mia testa.
Era questa la verità?
“Quando tu dormirai, mia bella tenebrosa, in una tomba di marmo nero,
non avrai più un letto e castello, solo una tomba gocciolante e un buco
profondo,” cominciò a recitare il signore, leggendo di sfuggita il mio foglio,
facendomi praticamente la parafrasi.
Io stavo dormendo, quando lui se n'era andato, e il mio letto era diventato una
tomba, perché lui se ne stava andando via. Era vero.
“Quando la pietra della tomba, cioè il marmo, opprimerà il tuo cuore
impaurito e i tuoi fianchi ammorbiditi di una dolce pigrizia, impedirà anche al
tuo cuore di battere e volare, e ai tuoi piedi di correre verso un'avventura,
verso altro; la tomba conscia del mio sogno infinito (perché essa comprende
sempre il poeta), durante quelle lunghe notti senza sonno, ti dirà: "A cosa
ti serve, cortigiana malriuscita, di non aver conosciuto quello che i morti
piangono?". Credo si riferisca alla vita, forse. Il verme roderà la tua pelle come un rimorso.”
Rimasi senza parole.
Non era possibile, la nostra notte d'amore, per lui, si
poteva riassumere in questi versi dolorosi, persino offensivi, per me?
Mi veniva da piangere. In quel momento, i miei occhi si riempirono di lacrime,
e il signore davanti a me si appannò in maniera acquosa. Ma
scossi leggermente la testa, e ritornarono indietro, perse chissà dove.
Ero sempre più arrabbiata, anzi. Allora era davvero solo uno stronzo.
Bene, forse io sarei stata più stronza di lui.
Non era accettabile il fatto che per lui quella notte non avesse significato,
perché l'avevo sentito, c'era troppo anche da parte sua. Stava
solo fingendo, aveva solo paura, lo conoscevo ormai. Credeva di risolvere i
problemi fuggendo da essi, invece ne creava altri.
Ma quella poesia, davvero, poteva risparmiarsela. Mi
doveva molte, molte spiegazioni. Non mi aveva neanche lasciato il tempo
di parlare, di chiedere, di spiegare alcunché, in
fondo, e un po' era anche colpa mia. Mia e della mia
voglia di lui.
Ripiegai il biglietto e lo infilai in tasca, riprendendomi da quell'attimo di
smarrimento.
“Grazie. Come fa a sapere tutte queste cose?” chiesi
al signore.
“Ero un docente di lettere. E Baudelaire
era già il mio poeta preferito, quand'ero un'adolescente. A diciotto anni,
avevo già riletto più di venti volte Les Fleurs Du Mal. Per questo,
non ho resistito, quando ho visto che stava leggendo una sua poesia, mi scusi.”
“Ma si figuri, davvero, anzi, mi è stato molto d'aiuto.” Annuii, facendo
un sorriso stiracchiato. Il signore sembrò capirmi.
“Signorina, non si preoccupi, questa poesia forse non vuole dire niente.”
“Non ne sono sicura, comunque sto andando proprio a
trovare il diretto interessato.” commentai, con una
smorfia.
“Fa bene. Comunque, piacere, io sono Roberto.”
“Piacere, Adrienne.”
Ci fu una stretta di mano.
Ad ogni modo, quelle rivelazioni mi avevano proprio scosso.
Ormai stavamo proprio per partire, l'aereo faceva i
giri della la pista.
Roberto mi sorrise. “Quando saremo in aria, le offrirò
un po' del mio panino con tonno, pomodoro e maionese. Forse dovrei mangiare più
sano, ma non resisto. Le piace, Adrienne?”
Annuii, e mi venne di nuovo da piangere. Non per Alex, ma per la gentilezza che mi veniva
offerta da un colto, strano, anziano signore con la pancia grossa per via dei
suoi panini imbottiti. Il mio primo giorno da non-vergine
si ristabilizzò di un po', ma non troppo.
L'aereo vibrò lanciandosi in aria, e il mio cuore rimase giù, lì, sul mio
letto, sulla mia tomba stillante, a Parigi.
***
Eccola.
La casa della mia infanzia, della mia adolescenza.
La casa che mi aveva visto entrare felice, arrabbiata, triste.
Mi aveva visto tornare a maniche corte, lunghe, con i capelli bagnati, con
pacchi in mano, con lo zaino sulle spalle, da sola, con qualcuno.
Era tutto come l'avevo lasciato: la disposizione delle cose, il vaso nero
rotto, il giardino, la porta bordeaux, i colori, gli
odori, la strana calma. Ecco, calma. Ormai la mia casa non era più quella,
avevo avuto una vita altrove, ma quel posto riusciva ad infondermi una
sensazione di strana calma. Una sensazione... familiare. Proprio la sensazione che mi serviva, in quel momento.
E' solo una stupida villetta con uno sputo di giardino, ma sarà la prima
cosa che comprerò, quando sarò ricco.*
Il trolley faceva un rumore strano lungo il vialetto,
strideva.
Ma riuscii a trascinarlo fino alla porta d'ingresso. Sospirai, poi suonai il campanello.
Improvvisamente, sentii che dentro la mia casa, scoppiava una grande agitazione. Sicuramente, pensai, Edoardo aveva letto
la mia email - per fortuna.
Aspettai una manciata di secondi e la porta d'ingresso
si aprì.
Un raggiante Edoardo e un'altrettanto raggiante mia
madre, apparvero davanti a me. Feci un balzo in avanti e diedi un bacio a mia
madre, abbracciandola, poi feci lo stesso con mio fratello. Mi erano mancati,
davvero. Il mio cuore si sciolse, mi sentivo più
tranquilla. Mi sentivo... A casa. Già.
“Adrienne, eccoti, finalmente!” disse
mia madre.
“Mamma! Hai tagliato i capelli, vero? Bel golf.” le
dissi.
Trovavo mia madre più giovanile con i capelli a caschetto
e aveva indosso davvero un bel golfino. Mi sembrava di riconoscerlo: forse gliel'avevamo regalato io ed Edoardo, il Natale scorso. Non
ricordavo bene.
Poi, lui, Edo, era sempre lo stesso. Era il mio unico, prezioso, indispensabile
fratello. Se pensavo a tutto quel tempo in cui ci eravamo
detestati... Era stato solo tempo perso. Gli avevo sempre voluto bene,
ovviamente, ma per me, ormai, era come se fosse un mio amico. A pari merito con
Eveliss, nel mio cuore.
“Anche io ti trovo molto bene, tesoro.” commentò mia madre.
Strano, dato che ero parecchio stressata e avevo dormito
poche ore, in pratica. Il pensiero di quella notte, fatto davanti a mia
madre, mi fece arrossire.
Edoardo prese il trolley e lo portò dentro casa, chiudendo la porta.
“Ho bisogno del bagno,” dissi, e ripresi il mio
trolley in mano. “Ci rivediamo tra cinque minuti in salotto.”
“Certo, intanto prepariamo del caffè. Edoardo, dammi una mano!” disse la mamma, avviandosi verso la cucina.
Edoardo sbuffò divertito e poi la seguì, sparendo oltre la cucina.
Nessuno aveva ancora detto niente, riguardo al mio ritorno. Beh, ero appena
entrata in casa. Però, prima o poi mi avrebbero
chiesto qualcosa; specialmente mia madre, che di tutto poteva aspettarsi, meno
che un mio ritorno.
Immaginai che Edoardo avesse ricollegato gli avvenimenti, quindi speravo con
tutto il cuore che non mi chiedesse niente, davanti a
mia madre. Al massimo avrei raccontato a mio fratello, ma a lei? No, sarebbe
stato troppo imbarazzante. Avrei dovuto inventarmi qualcosa,
non sarei scesa per niente nei particolari.
Salii al piano di sopra trascinandomi ancora una volta il trolley,
con qualche difficoltà. Lo mollai in camera mia. Era ancora come l'avevo
lasciata, anche lì, la disposizione delle cose non era mutata. Però avevo davvero bisogno del bagno, quindi avrei rimandato
il festival della nostalgia a dopo.
Dopo aver espletato i miei bisogni fisiologici,
ritornai nella mia camera da letto.
Cominciai a frugare nei cassetti. Le poche cose rimaste erano tutte al loro
posto, come le avevo lasciate il giorno della mia
partenza. Penne, quaderni di scuola, i miei vecchi diari,
qualche collanina, e altre cianfrusaglie. Dentro l'armadio c'era ancora
qualche vestito appeso, una felpa ormai troppo vecchia, una maglietta che mi veniva stretta, delle Converse logore, bucate.
Le lenzuola erano state cambiate, come avevo chiesto ad Edoardo, e
probabilmente la mamma aveva messo a lucido la stanza.
Mi faceva un certo effetto stare lì. Mi sentivo così diversa da quella che ero una volta, da quella adolescente che passava la maggior
parte delle sue giornate dentro quelle quattro pareti, ascoltando musica,
studiando, leggendo, stando al telefono con il suo fidanzatino;
dall'adolescente tremante ed inesperta che provava a fare l'amore con lui, su
quello stesso letto. Mi sentivo come se Adrienne,
quella ragazzina, fosse fuggita via, e avesse lasciato il posto ad una giovane
donna, che ero io.
Mi sentivo come se fossi stata via per anni, quando erano passati una manciata di mesi. Era tutto così strano, così irreale.
Parigi mi aveva cambiata - in meglio, pensai. Chissà se era vero, però.
Decisi di tornare giù. Avrei sistemato la valigia dopo, con più calma.
Piombai il salotto, e capii che la mamma si era resa conto di un certo mio
cambiamento. Il caffè era sul tavolino accanto al
divano, servito nelle tazze del servizio buono, e sul vassoio che veniva usato per le occasioni importanti, quello con i
piccoli gigli bianchi disegnati. Forse mia madre mi stava finalmente trattando
come un'adulta? Non mi aveva mai degnato di tali attenzioni.
O forse era come se... fossi un'ospite in
quella casa?
Era tutto così strano, non sapevo che pensare.
Era seduta sulla poltrona, e mi sistemai sul divano di
fronte a lei, a gambe incrociate. Edoardo uscì dalla cucina con dei biscotti al
burro in una scatola di latta, che gentilmente mi porse.
“Grazie,” gli dissi, prendendone uno e
sgranocchiandolo. Lui si sedette al mio fianco. In quel momento calò il
silenzio e mi sentii improvvisamente in soggezione.
“Allora sorella, cosa ci racconti di Parigi? Avrai un
bel po' da raccontare, non è la stessa cosa che leggere delle e-mail.” disse subito Edoardo.
Sorrisi. “Parigi è fantastica, davvero. Non potete immaginarvela. E' tutto...
Nuovo, eccitante, scintillante. Così diverso da qui.”
Mia madre sorseggiò il caffè. “E' una grande metropoli, è ovvio.”
“Sì, la vita è totalmente diversa.”
“Questa casa non ti è mancata nemmeno un po'?”
“Certo che mi è mancata...”
Mi lanciai in un resoconto dettagliato del mio lavoro, della mia casa, delle
mie giornate. Mi facevano delle domande, sembravano
così curiosi, così... lontani.
Era come se loro due appartenessero ad una “vecchia” vita. Erano una delle
poche cose che mi ricordava la “vecchia me”. Ancora
una volta, provai una strana sensazione. Ma era anche
vero che adoravo quella parte della “vecchia me”, se si trattava di loro due.
Assolutamente.
“Perché hai deciso di tornare?” chiese all'improvviso mia madre, deviando la
conversazione.
Mi strozzai con quel che rimaneva del caffè. Temevo
questa domanda, e avevo fatto di tutto per evitarla, durante il mio racconto. Ma mia madre era diretta, si sapeva. Posai
la tazza sul vassoio, con più lentezza del dovuto.
“Adrienne, vuoi un altro biscotto?” intervenne
Edoardo.
Forse cercava di aiutarmi. Mi voltai verso di lui e anche se ne
avevo abbastanza, ne presi un altro comunque. “Sì grazie, sono
deliziosi. A Parigi ne vendono dei tipi simili, sai, la mattina io ne mangio
alcuni che...”
“Adrienne, perché non rispondi?” incalzò mia madre.
Mi stava mettendo con le spalle al muro. Addentai e masticai molto lentamente
il biscotto. Edoardo era accanto a me, in bilico sul divano, come se attendesse
qualcosa. Si schiarì la voce.
“La tua visita è stata del tutto una sorpresa... E' successo
qualcosa? Pensavo non avessi più intenzione di mettere piede da queste parti.”
Deglutii. “Non è successo niente di particolare, mamma. Solo, mi sono resa
conto di avere un conto in sospeso.”
“Posso sapere di cosa si tratta?”
Vidi Edoardo alzare gli occhi al cielo, come se stesse imprecando mentalmente.
Mia madre se ne accorse e lo fulminò con lo sguardo.
“Niente di preoccupante, mamma... Sono... Cose... private.” mormorai.
“Ah. Cose private.” disse lei, colpita.
“Sì. Non mi va di parlarne, scusa. Non ti preoccupare... Tranquilla,
insomma.”
“Ah... Okay.”
Dovevo averla offesa. Quand'ero adolescente, avevo sempre cercato di tenere mia
madre lontana dalla mia vita e, beh, avevo una certa
inclinazione per tenerle nascosti i fatti importanti. Non lo facevo
apposta, la maggior parte delle volte. Dopo che mio padre se n'era andato di
casa, ed era sparito dalle nostre vite, ci eravamo
riavvicinate, e mi capitava spesso di confidarmi con lei; nei limiti del
possibile, ovviamente. Comunque si era creato davvero
un bel rapporto, e a lei questo piaceva molto, e io stessa mi molto rilassata
nei suoi confronti. Eravamo state lontane, quasi estranee, per molto tempo.
Tempo perso, così come era successo con Edoardo.
Ma proprio in quel momento, non avevo voglia di raccontarle tutto. A parte
l'imbarazzo, io stessa dovevo trovare un modo per elaborare i fatti, per poi
poterli raccontare. Insomma, la ferita era ancora troppo fresca per eccitarla.
E poi, neanche a dirlo, né Edoardo né mia madre vedevano
di buon occhio Alex.
Il biscotto andò giù.
“Beh scusate, ma ho una valigia da disfare, altrimenti le spunteranno le zampe
e comincerà a camminare per tutta la casa!” esclamai, alzandomi dal divano.
Volevo fuggire da quel pesante silenzio, in cui si sentiva solo il biscotto che
veniva masticato dai miei denti.
Mia madre annuì. “Okay, io comincio a preparare la
cena.”
“Ti aiuto io mà, si sa che sono il cuoco di casa!”
intervenne Edoardo, strappandomi una risata.
“Edoardo ha ragione. Ci vediamo fra un po'!”
Mia madre fece una faccia offesa. Ritornai al piano di sopra, sospirando
di sollievo.
* Afterhours – Ritorno a Casa