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Autore: Ronnie02    23/01/2011    0 recensioni
Essere soldati della prima guerra mondiale non sarà stato così semplice. Vediamo in chiarezza uno di loro. Cedric Nelson.
(nome di fantasia; nessun riferimento storico se non il contesto)
Genere: Guerra, Horror, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Sangue.

Attorno a me c'era solo tanto, troppo sangue ormai. Non osavo nemmeno aprire gli occhi, ma l'odore di ruggine e sale cominciava a farsi sentire. Il mio braccio non rispondeva ai comandi, e se provavo a cercare la mia mano un dolore atroce mi colpiva in pieno e l’aria mi usciva dai polmoni lasciandomi quasi soffocato.
Bene, avevo perso il braccio. Se l’erano preso i tedeschi!
Però non solo sentivo sangue, ormai a quell'odore ci ero abituato. Nella mia testa c'era quel dolore sempre più forte e nelle mie orecchie le urla dei miei compagni
Anche loro erano stati colpiti. Anche loro avevano qualcosa in meno. Anche loro stavano soffrendo come bruciati dal fuoco. Anche loro si fingevano morti. Anche loro volevano vivere.
"Credi che siano i soliti attori?", chiese un altro soldato in lingua tedesca.
Mi toccò il braccio, o quello che rimaneva del mio braccio, facendomi soffrire di un dolore che nemmeno all'inferno si poteva provare. Anzi, quello non era peggio dell’inferno perché lì era l’inferno. La guerra era un inferno.
Nonostante tutte le torture che mi fecero, restai fermo e immobile. Soffrivo, come un pazzo certo, ma avevo il 10% di possibilità in più di riuscire ad uscire da questo schifo un giorno.
"Questo è morto. Il braccio è così frantumato che si vede quasi l'osso", disse l'altro. Probabilmente quello che mi aveva toccato. Mi sfregò ancora la ferita e, tagliandomi ancora chissà cosa, rise soddisfatto. “Ora invece si vede proprio!”.
Che schifo! Mi facevano davvero schifo!
Ai miei compagni non andò tanto bene come a me, se si poteva considerare il fatto di essere torturti come un bene. Alcuni si fecero scoprire e quei maledetti tedeschi li ammazzarono senza scrupoli.
Eravamo bestie, non uomini, in quella guerra.
Le urla dei più sfortunati si intrecciò alle loro sporche risate e la neve, che cominciava a cadere prematuramente essendo inizio novembre, fece cadere a pezzi il mio cervello. Svenni.

 
"Come si chiama soldato?", chiese una voce appena riuscì ad aprire gli occhi. Era sempre una delle solite e gentili infermiere che ci raccattavano dal campo di battaglia per curarci. Portavano anche i morti per metterli in delle grandi fosse comuni. Se non altro avrebbero avuto una quasi degna sepoltura.
"Cedric Nelson, signorina", le risposi. Essere un gentiluomo feceva parte dell'essere soldato.
"Bene, Nelson. Credo che resterà in mia compagnia per molto tempo. Fino a marzo non potrà tornare in battaglia; il suo braccio è stato mutilato… e non poco", m'informò. Anche per loro essere gentildonne faceva parte dell'essere infermiere in guerra.
"Lei come si chiama?", chiesi prima che se ne andasse. Se fossi rimasto solo e zitto in quel dolore sarei riuscito anche a tentare il suicidio. E non lo avrei accettato dopo quello che mi avevano fatto passare.
"Penelope Cecil", disse vergognandosi un poco.  E la capivo anche. Che diavolo ci faceva in guerra una Cecil? Erano dei riccastri quelli.
"Il paparino è in crisi?", chiesi anche un pò da sbruffone.
"Per sua informazione è stata una mia scelta. Secondo, se io non fossi stata qui lei sarebbe molto. Deve molto al mio... paparino!", disse ripetendo le mie parole popolane.
Certo, lei abitava in palazzi. Io ero un poveretto che si guadagnava da vivere aiutando un artigiano con le spedizioni. Per lei era stata una scelta, per me un obbligo.
"Cos'è oggi?", chiesi cercando di essere più gentile mentre mi cambiava la fascia al braccio. Non osai guardare quello che mi era rimasto.
"Oggi ne abbiamo 8, del mese di novembre. Anno 1918", disse precisamente la Cecil.
«"Guerra finita" dicono gli italiani e i francesi» , annunciò la radiolina vicino al letto su cui ero sdraiato. Penelope la spense, quasi arrabbiata.
"Sono settimane che continuano a ripeterlo, ma qui arriva sempre più gente. Ieri abbiamo pure trovato un ragazzo di soli 15 anni con in mano un fucile e indosso la tuta. 15 anni! Se la guerra fosse finita i bambini non sarebbero qui!", disse stringendo la benda.
"Eric".
"Eric?", chiese mugugnando.
"Si chiama Eric quel ragazzo. O meglio, si chiamava. E' morto prima, quando sono riuscito a restare immobile. Ho sentito le sue urla", sussurrai stringendo i denti dal dolore che la ferita al braccio provocava. "Non l' hanno fucilato. L'hanno fatto spostare un bel paio di mentri e gli hanno lanciato addosso una granata. L'ho sentito piangere... ho sentito l'odore di sangue invadere l'aria".
"Quei tedeschi sono proprio fantasiosi quando si tratta di torture", continuò Penelope.
"Ha mai visto una granata... una granata che uccide?", chiesi.
"No... non l'ho mai vista. Ma le assicuro che curare il danno di una granata è peggio che vederla scoppiare", sussurrò. "Il suo braccio, per esempio. A lei da fastidio guardarlo senza benda, io invece ci ho fatto l'abitudine".
"Lei non ha mai visto un uomo ucciderne un altro. Non ha mai impugnato un fucile. Lei non ha mai ammazzato per vivere, per mangiare, per essere libero", dissi stringendo ancora i denti.
"Credo, signor Cedric, che lei abbia ragione, e mi creda: non ho mai messo di pregare per il nostro esercito, mai", disse finendo di fasciarmi. "Ed ora riposi".
 
Il sogno in cui ero caduto mi faceva perdere la testa. Davanti a me c’era Sandy Logan, la ragazza che i miei genitori erano intenzionati a farmi sposare. Matrimoni combinati, i più odiosi. Ma almeno, al contrario dei miei amici, a me era andata piuttosto bene. Sandy era già una mia amica di infanzia. Non eravamo del tutto sconosciuti. In più lei era una bella ragazza, anzi era davvero bellissima.
Se non fosse il fatto che la sentivo solo come amica non mi sarebbe dispiaciuta la notizia del nostro matrimonio.
Infatti era proprio questo il sogno, il matrimonio. Vedevo Sandy aggiustarsi il vestito, dopo la cerimonia, e guardarmi con gli occhi luccicanti. Poi uno strano istinto mi obbligò a prenderle il viso tra le mie mani grezze di guerra e posarle gentilmente le mie labbra sulle sue. Lei, in tutta risposta,  si alzò il vestito bianco, come se volesse toglierlo.
Quando staccai le labbra dalla sua bocca, capii cosa aveva intenzione di fare, ma non fui preso da paura e colpa come le altre volte che lo avevo immaginato, ma desiderio.
Nel sogno volevo Sandy come amante, non come amica.
«Sai, ho chiesto io a mio padre il permesso di questo matrimonio. Tu ed io ci ameremo per sempre», mi diceva Sandy. Me lo diceva sussurrandomi all’orecchio, ma l’unica cosa che riuscì a capire era che mi stava portando sempre più  in un angolo nascosto e che il suo vestito si stava sempre più alzando, mostrando delle bellissime e affusolate gambe bianche.
«Cosa stiamo facendo, Sandy?», chiesi senza respiro. Avevo diciotto anni ed era normale che non mi aspettassi ancora una cosa del genere. Ero ancora… piccolo.
«Siamo sposati Cedric, per l’amor del cielo! Non sei l’unico ad aver passato le ultime due settimane a sognare questa notte. Di certo, ora, non mi impedirai di viverla», mi disse baciandomi ancora e cominciando a togliermi il mio vestito. Vedevo in lei la voglia di me e, senza sapere perché, sapevo che non l’avrei delusa. La baciai ancora e l’abbracciai forte, stringendola contro di me.
“Siamo svegli finalmente!”, cantò la voce di Penelope svegliandomi di colpo. Forse era meglio così…
“Salve. Come sta?”, chiesi dandole ancora del lei
“Non sono il suo generale, quindi mi chiami Penelope”, rispose.
“E tu chiamami Cedric”, le imposi. Mi sembrava giusto.
Si mise a ridere con una tonalità davvero da aristocratica, ma mi piaceva guardarla. Avevo la stessa sensazione di desiderio che avevo nel sogno. Sì, certo! Come se io potessi sposarmi una Cecil, nel bel mezzo di una guerra poi.
Cedric, lascia stare l’amore, non fa per te, mi dissi tra me e me.
“Oggi ne abbiamo 9, giusto?”, chiesi senza pensare.
“Già. La radio dice che a Londra già si festeggia la fine della guerra”, disse ancora scocciata. Come il giorno prima, lei non sperava in una ripresa così veloce.
“E in America?”, chiesi ancora curioso.
“Lì sono troppo occupati a sopravvivere dalla spagnola, meglio che se ne stiano a casa loro”. Uh, suscettibile l’infermierina.
“Oggi vorrei uscire”, dissi cercando di alzarmi. Il braccio, o meglio la spalla, mi bruciò terribilmente, ma non ci badai. Mi ero già stufato a quel lettino scomodo.
“Non ci pensare neanche per sogno! Tu resti qui!”, mi disse poggiando le mani sulle mie spalle, attenta a non toccare quella tagliata e distrutta. “Peggiorerai e basta”.
Infelice, tornai nel lettino biancastro e evitai di muovermi. Senza un braccio mi era più difficile conoscere lo spazio attorno a me, così rimasi fermo. Fu inevitabile, mi riaddormentai ancora.
E fu inevitabile rivedere il suo viso, il viso di Sandy, che mi voleva.
 
Passai ancora un noiosissimo giorno in quel lettino sudicio aspettando che Penelope mi desse il permesso per tornare in battaglia. Era il 10 novembre del 1918 e avrei davvero desiderato che la radio avesse ragione. Diceva «Guerra finita! Ora è sicuro!», ma intanto ancora tre miei compagni erano stati uccisi da una bomba. Volevo crederci, ma non ci riuscivo.
“Oggi ti conviene non muoverti, o il braccio peggiorerà. Quando l’ho fasciato, stamattina, non l’ho visto molto migliorato. Ti muovi troppo soldato!”, mi richiamò Penelope, come se sentisse quello che pensavo. Cavolo, volevo andarmene da questo maledettissimo posto che sapeva di morto!
Così, fregandomene delle sue indicazioni e aspettando che lei non ci fosse, mi alzai e cominciai a camminare. Faceva male, molto male, ma era passabile.
“Tu sei pazzo ragazzo!”, mi sussurrò un vicino di branda. Sapevo chi era: Brad Cook, mutilato per ben due volte. Come me, voleva sempre combattere.  Non per la bravura, non per il desiderio di uccidere, non per la passione nelle armi. Entrambi volevamo finirla in fredda. Più si combatteva e più le speranza di una fine erano vicine.
Gli feci un segno non molto decifrabile con la testa per indicare il suo braccio e il suo piede praticamente spappolati e quasi inesistenti. Anche se non avesse capito a me non importava.
Trovai la mia divisa e le mie armi in uno stanzino minuscolo e molto sporco, con quell’odore di sangue e morto che aleggiava ovunque lì dentro. Il nascondiglio era sicuramente opera della Cecil, ma cominciai a cambiarmi.
Non appena fui pronto, presi gli armamenti e attraversai dolorosamente la soglia di quel campo di distruzione e ferite anche mortali. Appena toccai il terreno nevoso con le mie scarpe rotte l’aria di polvere da sparo mi entrò nei polmoni, come una ventata di vento pulito, però non molto salutare, e la neve cominciò a bagnarmi le misere calze rotte che avevo sui piedi, entrandomi dai buchi delle scarpe.
Da quell’accampamento di malati al campo di battaglia ci volevano almeno due ore, senza contare la probabilità di un avanzamento in caso di nostra vittoria. Non avevo voglia di camminare tutto quel tempo tra la prematura neve di novembre e il gelo che mi pungeva frenetico la ferita appena fasciata con cura da Penelope, così presi uno dei cavalli che le crocerossine usavano come traino per i carretti su cui poggiavano i malati o i morti. Appena montai a cavallo Penelope mi vide, ma non fece tempo a fermarmi. Vidi solo la sua espressione mezza sorpresa e mezza arrabbiata. Comunque partii in fretta e lei rimase solo a guardarmi scappare dall’unico posto caldo in circolazione.
Cavalcare con un braccio solo era la cosa più difficile che avessi mai fatto, e il colpi degli zoccoli facevano male soprattutto alla spalla distrutta che mi si era quasi gelata per il freddo.
Ma grazie al cavallo al posto che due ore, ci misi meno di mezz’ora, e quando vidi i miei compagni, preferii non pensare a quello che vedevo. Non ne ebbi nemmeno il tempo.
I nemici stavano vincendo l’ennesima battaglia, erano nel nostro territorio, corpi che sapevo essere morti giacevano per terra e gli spari invadevano i suoni nella mia mente.
Appena quelli mi videro arrivare, si buttarono contro di me. Così presi il fucile e cominciai a contro sparare. Non avevo scelta. Per vivere dovevi uccidere, è questa la regola della guerra.
“Signor Nelson, addio!”, mi urlò Carl Brodey, un amico e compagno di guerra dalla partenza fantasiosa. Sognavamo di essere soldati e diventare famosi per aver portato la pace, invece saremmo morti tutti nel giro di poche ore.
Lo sapevo, vedevo la morte colpirmi con i proiettili dei nemici, la vedevo sui pugnali che avrebbero potuto lanciarmi contro. La vedevo sulle mie palpebre che pian piano cominciavano a chiudersi.
Cedric Nelson, soldato della guerra mondiale. Morto con onore per la patria.
 
“Mio dio! Io lo sapevo, maledetto lui e la sua voglia di giustizia!”, disse una voce. Penelope.
“Sapeva come sarebbe finita”, rispose un’altra voce.  Carl.
“Il cuore batte, ma sta per lasciarci. Il proiettile è troppo profondo, è già un miracolo che sia ancora vivo. Ma, vi informo subito, che morirà fra poco. Il cuore non reggerà fino a domani”, concluse un’altra ennesima voce. Sconosciuta stavolta.
“Cedric Nelson. Amante della pace”, dissi con un ultimo respiro senza nemmeno aprire gli occhi. Dovevano sapere chi ero, chi volevo essere e chi sarei stato, se il mio cuore non avesse cessato di battere.

 
C’è poco da dire, la guerra si vince, si perde, ma non si dimentica. La guerra non deve essere vissuta, non deve essere causa di morte. La guerra deve estinguersi
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*Questa storia è dedicata ai morti della prima guerra mondiale. Ricordo la particolarità delle date per celebrare l’11 novembre 1918, il giorno della fine della guerra, e per dire che si può morire anche l’ultimo giorno, anche quell’11 novembre, e che la guerra non finisce mai. Finisce solo quando i motivi diventato troppo futili, ma non per il numero dei morti. La guerra è spietata.
Volevo solo ricordarli, sempre.* 
   
 
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