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Autore: LA dreamer    23/01/2011    3 recensioni
Ahsley e Alice due amiche da sempre, l'una lo specchio dell'altra, l'una la sicurezza dell'altra. E poi c'erano loro, i loro migliori amici, i loro fratelli, i loro amori, i compagni di una vita passata insieme.
New York era grande, era affollata, era piena di gente che andava e veniva, ma mai mi sarei aspettata, in tutto quel caos, di rivederlo.
Mi voltai verso destra come se qualcuno mi stesse chiamando, e dopo due anni rividi lo specchio della mia felicità. Rimanemmo in quella posizione per non so quanto tempo e prima di voltarmi per scappare da lui, sussurrai il suo nome, un nome che mi era mancato, un nome su cui tante volte avevo fatto affidamento << Matt >>
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Matthew Shadows, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E dopo secoli tornò con il capitolo nuovo. Chiedere scusa è inutile spero solo che chi ha sempre letto e recensito continui a farlo.
Inutile dire che gli Avenged non mi appartengono e tutto ciò che scrivo non ha scopo di lucro.
Ringrazio chi ha recensito e i bei complimenti ricevuti.
Enjoy it girls.

3 ANNI DOPO. Time Square nell’ora di punta era qualcosa di invivibile soprattutto se si decideva di percorrerla in macchina,schivando le leggi fisiche e qualsiasi tipo di catastrofe naturale.
Le persone diventavano parecchio irritate durante quell’ora, ed era, da una parte, capibile, c’è chi voleva tornare a casa dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro, o chi all’ultimo si era ricordato qualche commissione che non poteva aspettare il giorno dopo, così quella strada così bella e piena di vita, diventava la meta della maggior parte della popolazione di New York che si prendeva a gomitate per passare avanti anche a costo di fare un incidente.
Io avevo abolito l’auto, preferivo andare e venire dal lavoro con i mezzi oppure, come oggi, preferivo i miei piedi e mi perdevo in camminate lunghe e solitarie per queste strade così diverse tra loro, piene di odori diversi, piene di immagini e colori diversi che faticavo, spesso, a ricordarmi tutti i suoi particolari.
New York era diventata la mia nuova realtà, la mia piccola via di fuga da un dolore che non voleva abbandonarmi.
Dopo quel giorno qualcosa cambiò radicalmente nelle vita mia e di Alice,ci eravamo promesse che niente e nessuno avrebbe potuto abbatterci ancora, che loro avrebbero smesso di farci del male con false promesse e canzoni che insieme avevamo visto nascere, crescere ed esplodere dentro una sala prove di un garage ormai abbandonato e sostituito con grossi studi di registrazioni. Avevamo cercato in tutti i modi di rifarci una vita da zero, ma il passato,spesso,tornava a farci lunghe visite e nonostante provassimo a non farlo entrare, lui risultava sempre più forte e tornava a tormentarci con ricordi dolorosi che ci laceravano l’anima facendo pulsare di nuovo la ferita che il nostro cuore sopportava da tre anni a questa parte.
Quando decidemmo di partire avevamo appena diciotto anni, pochi soldi in tasca e tanto odio nell’anima, ma facemmo il passo più grosso della nostra vita per poter ricominciare dal nulla, come se prima non fossimo mai esistite. E così accadde. Appena arrivate a New York trovammo un lavoro grazie a piccole conoscenze dei nostri genitori. Io iniziai a lavorare in un giornale locale, mi occupavo di vendita di spazi pubblicitari e anche se non era esattamente ciò che volevo fare, me la cavavo alla grande ricevendo complimenti e ricompense alte da parte del mio capo. Alice invece si dedicò alla fotografia trovando lavoro in uno studio fotografico inizialmente come aiutante per poi diventare, come si suol dire, il braccio destro del suo capo.
Riuscimmo a trovare un piccolo appartamento sulla quinta strada che aredammo con naturalezza e semplicità e una volta finito ci sentimmo un po’ più a casa. Avevamo abolito, di comune accordo, la musica dalla nostra vita, qualsiasi band musicale, qualsiasi canzone non ne avrebbe fatto più parte. Con quella vita noi non centravamo più niente. Ashley Sanders e Alice Baker non erano più quelle di una volta e nessuno avrebbe saputo chi davvero fossero state e da dove venissero, il passato rimase un angolo oscuro delle nostre personalità. Alle persone era dovuto sapere poco e quanto bastava.
Questo discorso valeva anche per i nostri ragazzi.
Avevamo cercato di escludere anche l’amore dalle nostre vite, ma quando conobbi Danny al bar una sera dopo il lavoro, trovai in lui una nuova speranza, trovai in lui una nuova luce da seguire, ma ben presto mi resi conto che Danny, per me, era solo una scusa per non pensare a ciò che ancora mi tormentava, esattamente come Josh lo era per Alice.
Danny e Josh conoscevano le nuove Alice e Ashley, Sapevano ben poco del nostro passato. Sapevano che venivamo dalla California, che eravamo scappate per un sogno chiamato New York e sapevano che eravamo figlie uniche, per il resto loro non chiedevano e noi non ci spingevamo oltre con spiegazioni del tutto inutili da sapere.
Eppure nonostante i nostri propositi erano ottimi, c’erano momenti in cui ci guardavamo in faccia e scoppiavamo in un lungo pianto senza fine e pieno di orrore. In quei momenti ci stendevamo abbracciate nel letto senza dire niente, solo i singhiozzi e i nostri respiri profondi facevano da padrone alla situazione. E li, come sempre, promettevamo l’una all’altra che ce l’avremmo fatta che presto i fantasmi del passato ci avrebbero lasciato libere e spensierate, che un giorno non avremmo più sentito il nulla dentro di noi, ma un nuovo sentimento chiamato rinascita.
Aspettavamo quel giorno da tre anni e ancora ora la notte mi svegliavo sudata e col panico addosso rivivendo quella scena, rivedendo la me stessa piccola e indifesa in mezzo ad una strada che implorava il loro ritorno.
Se solo avessi potuto vederci quel giorno, se solo avessi sentito il nostro dolore avvolgerci, saresti o sareste mai tornati indietro sui nostri passi?
In questi anni vi siete mai chiesti come stavamo? Se eravamo ancora vive?
E ancora mi stupisco di come possa farmi certe domande cercando una risposta, cercando un qualcosa che mi faccia capire che qualcosa ancora contiamo per voi, che non siamo solo un vecchio ricordo dimenticato nell’angolo più scuro di un armadio, perché per noi questo siete, un ricordo amaro, un ricordo scomodo da tenere in testa. Abbiamo cercato di andare avanti come potevamo, ma non potevamo negare a noi stesse che voi eravate la nostra vita, che contavamo su di voi per tutto e forse , da una parte, questo era terribilmente sbagliato, ma quegli anni che ci hanno costruito, hanno lasciato in noi uno vuoto immenso che nessuno potrà mai colmare.
Avevamo chiesto I GAVE MY HEART TO YOU. Attimi di terrore in uno sprazzo di luce.
Le gambe tremanti.
Il cuore che cessa di battere.
Sento la terra sotto i miei piedi mancare.
Sento il respiro corto pronto a fermarsi.
Ti cerco. Vi cerco. Non vi trovo.
I miei occhi hanno per un momento deciso di chiudersi per poi non riaprirsi più.

I giorni passavano lenti,
Le ore sembravano prendersi gioco dei miei respiri.
Vivere la mia vita come sempre, pensando che, però, stavolta, avevo un qualcosa in più. Avevo lui.
Studiavo, seguivo i loro successi, organizzavo insieme a Alice i loro concerti e aspettavo ogni sera il suo arrivo sulla porta di casa, pronta a riceverlo tra le mie braccia.
Ogni sera quella piccola routine mi faceva stare bene nonostante odiassi la routine, amavo il rischio, amavo le novità.espressamente ai nostri genitorni di non nomirarli, di non farci sapere niente, di tenere per loro qualsiasi notizia e loro avevano esaudito il nostro desiderio. Quando parlai l’ultima volta a mia madre prima di partire non piansi, in quelle parole c’era tutta la mia immensa tristezza, nei miei occhi si poteva vedere il nulla più totale, ma vedevo nei suoi il dolore e cercai in tutti i modi di tranquillizzarla, di non farle vedere come realmente stavo, ma mi era impossibile, mia madre aveva capito, aveva accettato la mia decisione di partire e non mi aveva ostacolato, esattamente come aveva fatto con mio fratello. Erano tre anni che non tornavo ad Huntington Beach, erano tre anni che mia madre, mio padre e i genitori di Alice venivano a New York per vederci trovando ogni volta un cambiamento in più nelle nostre personalità.

Quel giorno uscì presto dall’ufficio, avevo portato a termine tutti i miei appuntamenti con probabile clienti e mi ero data da sola il permesso di uscire prima e godermi il tragitto a casa senza pensare che un altro giorno stava terminando e la notte era vicina. Salutai i miei colleghi con un sorriso cordiale e finalmente mi feci avvolgere dalle braccia di una New York alle cinque della sera.
Presi un caffè macchiato doppio alla caffetteria sotto l’ufficio e iniziai a camminare in direzione casa, concedendomi una deviazione per allungare la strada, Alice non sarebbe rientrata prima delle sei e di andare a casa da sola dovendo dare spiegazione a Danny dell’ennesimo incubo notturno non ne avevo proprio voglia. Per quanto cercassi di tenere la musica fuori dalla mia vita mi era impossibile visto che il mio compagno faceva il giornalista in una rivista di musica Rock Metal e il compagno di Alice il fotografo per lo stesso giornale. Questo significava che ogni santo giorno c’era un gruppo nuovo da ascoltare, un concerto a cui dover presenziare, ma riuscivo a starne fuori prolungando le mie ore lavorative o le mie uscite con Alice per qualche incontro extra con i propri capi. Erano bugie lo so, non dovevo dirne a quel ragazzo che era perdutamente innamorato di me, ma non potevo perdere tutto ciò che, con fatica e devozione, mi ero ricostruita, non potevo permettermelo.
Guardai le vetrine illuminate di Time Square che riflettevano la loro luce sul mio volto stanco e assonnato, mi incantai davanti a un negozio per bambini così pieno di giochi, ricordando la mia infanzia felice e ormai lontana, a quanto speravo di trovare i miei giocattoli preferiti sotto l’albero ogni Natale, rimanendo contenta o delusa allo stesso tempo. Avevo sognato un intero futuro con lo stesso ragazzo che nel giro di ventiquattro ore mi aveva abbandonata con una misera lettera codarda e senza un vero perché. Forse avevo viaggiato troppo con la fantasia, ma credevo davvero in quel futuro.
Non appena ricominciai a camminare, qualcosa tornò a vivere in me. Quella strana e ossessionante sensazione che mi aveva accompagnato durante tutto quel giorno tornò viva e feroce a farmi visita. Mi fermai di scatto, facendo inferocire i passanti, con il bicchiere a mezz’aria che poco dopo cadde dalla mia mano spargendo il caffè per tutto il marciapiede. Mi guardai intorno in preda al panico, mi sentivo osservata e seguita, ma cercavo di convincermi che era solo una fottuta sensazione. Credevo di essere al sicuro invece non era così e lo sapevo solo non volevo rendermene conto. Accellerai il passo trovandomi al semaforo che mi avrebbe permesso di attraversare quella strada, uscirne viva, ma soprattutto farmi raggiungere la strada di casa.
New York era grande e affollata, piena di gente che viene e che va, chi si ferma per sempre o chi è solo di passaggio, pensavo di essere al sicuro, ma avevo messo in conto che per quanto fosse grande tutto ciò da cui ero scappata mi si sarebbe ripresentato davanti agli occhi in carne ed ossa e quel giorno era arrivato.
Alzai di scatto la testa come se qualcuno mi avesse chiamata e dopo tre anni di totale silenzio e di fatica per dimenticare quel e quei volti, rividi quegli occhi in cui tante, e forse troppe volte avevo trovato la mia felicità. Dall’altro lato della strada mio fratello mi stava osservando nascosto dietro i suoi classici rayban a specchio. Rimanemmo in quella posizione per non so quanto tempo, il semaforo aveva fatto in tempo a diventare due volte verde, che noi eravamo ancora li a fissarci come se fosse la prima volta che ci vedevamo. Lui con le mani in tasca, io con le mie che stringevano la tracolla della borsa cercando di fermare tutte le emozioni che era scoppiate nel mio corpo. Volevo piangere e allo stesso tempo ridere, avrei voluto corrergli incontro e abbracciarlo come facevo come quando ero più piccola, ma l’altra parte di me mi diceva di scappare e ignorare quella persona che in poco mi aveva completamente agnentato, distruggendo la ragazzina che stava crescendo in me, costringedola a diventare una donna troppo presto.
Scossi i miei pensieri tornando alla Ashley che ora New York conosceva e aveva aiutato a diventare così. Lo guardai ancora una volta cercando di fargli arrivare tutto il mio odio e prima di andarmene pronunciai quel nome che tanto avevo amato in passato, un nome che da tre anni a questa parte non riuscivo nemmeno a pensare. Sistemai la borsa sulla spalla e voltandomi cercai di allontanarmi il più veloce possibile da quel maledetto semaforo, da quella maledetta realtà. Sentivo il cuore pulsare e la mente troppo piena di ricordi che mi facevano male e ad ogni passo la mia ferita squarciava la mia anima provocandomi dolore, un dolore che avevo cercato di dimenticare. I fantasmi del passato erano rientrati in me facendomi sprofondare nel buio più nero e profondo.
Ma sapevo che mio fratello non era uno che lasciava correre, Matt era più testardo di me quando voleva e in quel momento volle esserlo ancora una volta. Cercai di camminare più veloce che potessi, ma i tacchi impedivano la mia disperata fuga. Tutto si scatenò quando la sua mano arrivò a toccarmi la spalla facendomi girare, trovandomelo a pochi centrimetri dal mio corpo avvolto da spasmi di rabbia. Il suo profumo tornò tra i ricordi che avevo cancellato.
-Che diavolo vuoi?.-gli chiesi spostandogli il braccio con rabbia.
-Ashley.-soffiò il mio nome togliendosi gli occhiali da sole. I suoi occhi così uguali ai miei. Gocce marroni in un infinito verde.
-Oh che strano ti ricordi di me.-commentai acida.
-Mio Dio sei…sei cambiata tantissimo.-sorrise imbarazzato guardandomi da capo a piedi. Era vero ero cambiata, non ero più la ragazzina tutta rock’n’roll che lui stesso aveva cresciuto, ora ero una giovane donna chiusa in vestiti che non amavo e in scarpe troppo eleganti per me, ma il mio lavoro lo richiedeva e io avevo dovuto adattarmi a tutto ciò anche per cancellare il mio passato.
Non risposi a quel commento mi limitai solo a fissarlo.
-Come stai?.-mi chiese ancora notando il mio silenzio.
-Non sono cose che ti riguardano e ora scusa ma devo andare.
-Ash.-tremai davanti a quel nomignolo.-ti prego aspetta.
-No Matthew non aspetto e men che meno ho voglia di ascoltarti, quindi risparmia il tuo fiato e sprecalo con chi ha voglia di farsi prendere per il culo da te. Io ho avuto già abbastanza.
-Scusami Ashley.-abbassò la testa torturandosi le mani. Erano lacrime quelle che stavano per uscire dai suoi occhi?
-E’ troppo tardi Matt per le scuse, non me ne faccio nulla, sono passati tre anni, io e Alice abbiamo cambiato vita.- a quel nome Matt alzò la testa guardandomi.- siamo cambiate noi, abbiamo ricominciato da zero dimenticando il passato.-risposi convinta con la stessa rabbia nella voce. Non volevo cedere, non dovevo farlo, volevo solo andarmene da li.
-Ashley non potevamo fare diversamente.
-Ho detto che non mi importa.-alzai un po’ la voce, ora iniziava a farmi arrabbiare davvero.-non me ne frega un cazzo di quello che hai da dirmi. E ascoltami bene, ora me ne andrò e farò finta di non averti mai incontrato, cerca di fare lo stesso, perché per me tu come tutti gli altri non siete altro che uno fottuto ricordo dimenticato, tu per me non sei altro che un signor nessuno, uno sconosciuto. Ah un’ultima cosa, non vi azzardate a cercarci, continuiamo come in questi tre anni, ignoriamoci a vicenda tanto in questo sei bravissimo.-mi voltai e feci per andarmene, ma ancora una volta Matt mi fermò per un braccio.
-Ashley…
-HO DETTO DI LASCIARMI.-urlai forse un po’ troppo questa volta attirando non solo gli sguardi curiosi dei passanti, ma anche l’agente di polizia che se ne stava appoggiato al cofano della macchina con un giornale aperto in mano. Lanciò il giornale in macchina e sistemandosi la cintura si avvicinò a noi.
-Signori è tutto a posto?.-ci chiese con tono professionale.
-Si ci scusi agente.-rispose Matt grattandosi il braccio. Quando era nervoso lo faceva sempre.
-Signorina questo ragazzo la sta importunando?.
-No agente.
-Mi scusi agente, cercavo solo di parlare con mia sorella.-continuò Matt cercando di risultare il più innocuo possibile.
-Me lo conferma signorina che questo ragazzo è suo fratello?
-No agente, questo signore non è mio fratello, io sono figlia unica, ha sbagliato persona.-dissi queste parole fissando Matt negli occhi, vidi nei suoi occhi disperazione e tristezza. Me ne andai ignorando ciò che si stavano dicendo, ignorando la sua figura e i suoi occhi che mi pregavano di tornare indietro e ascoltarlo, ma non volevo, non volevo più scuse o tentativi di ricucire un qualcosa che da tempo era rotto e irreparabile. Mi allontanai velocemente da Time Square, corsi, per quel poco che potevo, fino alla metropolitana per fare poche fermate. In tutto quel tragitto non riuscì a pensare a nulla se non a quell’incontro, a quel momento, a lui e di conseguenza a tutti loro. Non sentivo il vociare sommesso delle persone presenti sul vagone della metro, non vedevo il paesaggio che scorreva davanti ai miei occhi, niente di tutto ciò che era reale veniva percepito dalla mia persona. In quel momento rividi la mia vita in California, tutta la mia vita con loro fino a quel giorno di Giugno in cui tutto quanto morì sotto il primo temporale estivo di Huntington Beach.
Nel momento in cui entrai nel portone del palazzo in cui vivevo, mi appoggiai alla parete fredda e umida lasciandomi scivolare fino a terra, scoppiando in un pianto silenzioso, liberandomi, finalmente, dopo tanto tempo, di tutto il dolore che aveva avvolto il mio cuore e la mia mente.
  
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