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Autore: Stregatta    23/01/2011    8 recensioni
- E poi, boh... L'idea di un oggetto freddo ed inanimato che prende vita grazie ad una collisione del tutto casuale è stupenda. Ti fa pensare che non c'è limite alle possibilità che... Che anche la situazione più estrema, in senso negativo, si possa risolvere un giorno, per caso... E per il più stupido dei motivi. Un asteroide che paragonato alla massa di un pianeta è poco più di sasso vicino ad una montagna. -
{Uno sfigato, uno svitato, uno che passava per caso.}
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Christopher Wolstenholme, Dominic Howard, Matthew Bellamy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Fisica delle particelle

(prima parte)


Al di là del “panorama mozzafiato”, degli “ampi spazi che deliziano l’occhio” e degli altri luoghi che ispirarono a John Keats la stesura di una parte del suo Endymion descritti sugli opuscoli disponibili in ogni negozietto di souvenir, c’era una verità sotterranea ma innegabile che rimaneva proprietà esclusiva della fauna adolescenziale di Teignmouth e che ovviamente non giungeva all’orecchio dei forestieri.
La verità che risiedeva nelle tre “S” della gaia Tin-muffa: Sbronzarsi, Sballare, Suonare.
Nei mesi estivi e nei week-end settembrini, tempo permettendo, chi poteva cercava di abbronzarsi sulla breve striscia di spiaggia cittadina; oppure, inforcava il motorino o si incamminava gambe in spalla e zaino sulla schiena dirigendosi verso le colline fra le quali la città era “sapientemente incastonata”, per dirla in termini da guida turistica, piantando le tende sul cocuzzolo della più alta.
Arrivati fin lì, non c’era molto da scegliere.
C’era chi si sfondava di birra e sidro, chi metteva mano a qualche bustina contenente dei funghetti che di certo non erano buoni per il risotto.
C’era chi imbracciava la chitarra e suonava attorno al falò che scoppiettava nel focolare di pietre grezze. C’erano le ragazze che si lasciavano cullare dalla melodia, gli occhi lucidi e le guance arrossate dal calore del fuoco.
C’erano le ragazze che, grazie a Dio, dopo tanto strimpellare si facevano anche scopare – la quarta “S” che per molti restava solo una fantasmagorica visione.
Poi l’autunno si riprendeva il pur sempre timido e spesso fugace sole estivo, e le fughe in collina con annessi e connessi venivano archiviate almeno fino a giugno.
Nel frattempo, c’era la scuola.

Dominic Howard era uno studente piuttosto diligente; meticoloso, determinato, poco incline a distrazioni varie ed eventuali… Tipo una vita sociale degna di questo appellativo.
Il suo primo approccio con la città era avvenuto all’età di otto anni, quando la sua famiglia si era trasferita lì arrivando da Stockport – un altro buco di cittadina che probabilmente avrebbe odiato come Teignmouth, se vi avesse trascorso l’adolescenza.
In realtà all’inizio era stato bello. Era tutto verde e bianco e azzurro, c’erano le barche e c’era il Den, quell’enorme spiazzo d’erba da percorrere da cima a fondo con un pallone ai piedi, all’impazzata.
Poi erano trascorsi gli anni e palloni, prati e barche avevano perso tutto il loro fascino.
In compenso, era arrivata la musica.
Il liceo di Teignmouth era caratterizzato non solo da una mandria di studenti troppo svogliati per indulgere in comportamenti scorretti diversi dal bigiare di tanto in tanto e da un’equipe di insegnanti vagamente demotivati seppur competenti, ma anche da un discreto complesso autodefinitosi “jazz”.
I componenti erano quasi tutti ragazzi dell’ultimo anno, quindi il ricambio generazionale era assicurato; fin da quella volta in cui aveva assistito ad una loro prova pomeridiana in primo superiore, Dominic era rimasto letteralmente catturato, desiderando far parte delle sostituzioni annuali.
Aveva gettato la spugna dopo essere stato scartato per ben due volte, alle audizioni – il complesso era un affare piuttosto serio, con provini e concorsi ai quali presenziare e tutto… Non accettavano di certo il primo venuto con ambizioni artistiche.
Una bella botta all’autostima, sentirsi rifiutati a quel modo.
L’amore che provava nei confronti del suo strumento – quella batteria che detestava venisse toccata da qualsiasi mano estranea e che continuava a volere dentro la sua camera invece che in garage – grazie al cielo prescindeva da ogni provino andato storto.
La sua piccola. L’unica entità terrestre che si era guadagnata il suo affetto incondizionato negli ultimi tempi.
In effetti non provava un’eccezionale trasporto nei confronti del genere umano – soprattutto quella parte di esso intrappolata nel lungo e pericoloso tunnel dell’adolescenza.
Non era neanche odio, o disprezzo. Forse noncuranza. Forse presunzione o insofferenza.
Fatto stava che gli ultimi amici veri che avesse mai avuto con i quali condividere degli interessi erano da rintracciare in parte nella sua infanzia a Stockport, in parte nei primi quattro anni di permanenza a Teignmouth.

Quel pomeriggio, mentre fissava il volto appassito del professore di Musica e quello rubizzo della coordinatrice delle attività extracurricolari dal palco allestito in aula magna per le prove del complesso, Dominic Howard sperò per la terza volta di poter cambiare quello stato di cose solo grazie alle sue mani e al suo senso del ritmo.

- Howard… Howard Dominic.-
- Sì… Sono io. – confermò con un sorriso nervoso il ragazzo.
Si mosse sullo scricchiolante sgabello in pelle in cerca di una posizione comoda, aprendo e chiudendo le dita fredde e sudate lungo le bacchette di legno.
- Sei al terzo anno, giusto? Non sei fra i miei alunni.-
- No. - rispose rauco il ragazzo, schiarendosi la voce un istante più tardi. – Ho avuto musica solo in primo anno. -
Il professor Bowman si lisciò un sopracciglio, controllando la lista dei partecipanti alle audizioni: - Mhm… Ok. Comunque, mi pare di aver già sentito il tuo nome al di fuori di… Hai già tentato di entrare a far parte del complesso, se non vado errato.-
Fu dura ammetterlo, per Dominic: - Già… Due volte.-
Due
fottute volte. Due fottuti “Può bastare, grazie.”, che nel gergo di Bowman stavano a significare “Ok, ci hai provato, figliolo. Ora va’ a casa a meditare sui tuoi errori, eh?”
Fra gli altri contendenti seduti sulle poltrone rosse dell’aula, qualcuno soffocò malamente una risatina derisoria.
Dominic arrossì sotto l’impietoso chiarore delle lampade al neon.
La professoressa Bishop si voltò verso il resto della platea, senza dire nulla, per poi dedicare a Dominic un enorme sorriso d’incoraggiamento.
- Allora, cosa hai intenzione di farci sentire?-
Il ritmo delle mie sistole e diastole, ad esempio… Le piace l’idea?

nonono. Ok. Respiro profondo. Controllo.

Incanaliamo questa fifa porca in qualcosa di buono, Howard.

- Può bastare, grazie.-
Dopo qualche minuto Bowman alzò la mano in un gesto stanco, senza neanche sollevare lo sguardo dal foglio dei nominativi dei provinanti.
Quanto tempo impiegava un essere umano a pronunciare tre parole di fila?
Quanto tempo impiegava il destinatario di un messaggio così breve a coglierne l’esatto significato?
Dominic ci mise una decina di secondi, uno per ogni battito del suo cuore.
Poteva bastare. Poteva bastare.

d’altronde, non si dice forse “non c’è due senza tre”?
Scendendo i gradini del palco, Dominic ripensò ai movimenti effettuati, si sforzò di individuare delle pecche nell’esecuzione appena ultimata.
Abbandonò il campo di battaglia a capo chino, camminando lungo il corridoio che divideva la platea in due porzioni simmetriche di poltroncine scarlatte.
Non aveva voglia di sapere chi si sarebbe aggiudicato il posto a cui anelava – non aveva voglia di sapere chi se lo meritasse più di lui.
Quando si trovò di fronte alla porta, dovette lo stesso bloccarsi; l’uscio era ostruito da un alto ragazzo mollemente appoggiato allo stipite con le braccia e le gambe incrociate.
- Peccato. Andrà meglio la prossima volta.-
Dominic dovette piegare il collo per fissare dritto negli occhi lo spilungone che gli sorrideva tranquillo, una massa di ricci capelli castani ad incorniciargli il volto.
Lo conosceva di vista, ma non era sicuro che il nome che gli era venuto in mente fosse quello giusto.
- Certo… Non lo sai che non c’è due senza tre e quattro vien da sé, vero? - rispose acido Dominic, già di pessimo umore per la sconfitta subita qualche minuto prima.
Che poi, chi diavolo lo conosceva quello? Che voleva da lui?
- Scusa? - il tizio non sembrava aver colto l’allusione – forse non aveva assistito a tutta la scena svoltasi poco prima.
- Lascia perdere… - sospirò Dominic, sentendosi improvvisamente svuotato.
Aveva voglia di uscire dalla scuola, di correre fuori sentendo il freddo artigliargli il viso e poi rifugiarsi in camera sua per magari non uscirne mai più.
Il ragazzo si fece da parte cortesemente per lasciarlo finalmente inseguire il suo desiderio.

Quando l’ultimo raggio di sole si sciolse in un chiarore purpureo sulla linea piatta dell’oceano i lampioni si accesero, baluginando rossastri come in un tentativo di scimmiottare il tramonto agonizzante sull’acqua.
I gabbiani planavano in orbite circolari attorno ai pescherecci attraccati in porto, stridendo dialoghi incomprensibili all’orecchio umano.
L’erba sul quale era seduto era umida e fragile; Dominic ne prese un ciuffo fra le dita, strappandone qualche filo.
Quella sera il Den era tutto per lui. I bambini che di solito vi giocavano erano rincasati da un po’ – con quel freddo, le mamme preferivano farli rientrare presto.
A Dominic importava poco del gelo, dei pantaloni oramai umidicci e del pericolo di un raffreddore.
Anzi, magari ne avesse buscato uno – avrebbe dato chissà cosa per potersene stare a letto almeno un giorno… Magari l’indomani.
Buttando all’aria la prudenza, Dominic si sdraiò sull’erba.
I lunghi capelli biondi assorbirono pian piano l’umidità del prato, così come i jeans poco prima.
Ma sì. Ma chi se ne fregava. Un bel malanno da curare col calduccio delle coperte e un sacco di TV era tutto ciò che desiderava in quel momento, a parte tornare indietro nel tempo di circa un’ora e mettere su un’esibizione stratosferica sul palco di un’aula magna per strappare un posto da batterista in una stupida band scolastica.
Ecco, un virus era più abbordabile come opzione.
Chiuse gli occhi, e il mondo divenne pura sensazione tattile ed uditiva capitata per caso fra i ricordi.
I gabbiani continuavano a berciare sospesi per aria e la Bishop gli sorrideva per tranquillizzarlo.
Il vento soffiava e Bowman lo bocciava senza mostrare un minimo accenno di interesse nei confronti della cosa.
Brividi di freddo iniziavano ad increspargli la pelle e un ragazzo dai folti capelli ricci tentava di rincuorarlo.

- Vuoi morire assiderato?-
Una voce lo sovrastò concreta, profonda e curiosa.
Quando Dominic sollevò le palpebre la voce divenne un ragazzo apparentemente della sua età o poco più piccolo; viso ossuto, capelli scuri spioventi sul viso, occhi brillanti alla luce delle luminarie cittadine.
Mise a fuoco i lineamenti il ragazzo ed immediatamente gli sovvennero un nome ed un cognome, senza possibilità di confusione.
Matthew Bellamy.
Quel Matthew Bellamy.



Cliffhanger, perché sono notoriamente malvagia. XD
Sinceramente non so cosa aggiungere, non vedo l'ora che questa domenica inattiva sia trascorsa e sono mogia da far spavento - interessante, no? :/

A presto, e grazie. ♥

Edit, perché Stregatta dimentica sempre tutto: per "fisica delle particelle" si intende questo - citare *sempre* le fonti, first of all. :D

   
 
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