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Autore: Lady Gardenia    26/01/2011    2 recensioni
Roma. Una notte senza stelle.
Nel buio si spegne la speranza di chi ha saputo sognare per l'Impero.
Nel buio un ultimo messaggio.
Un uomo dell'imperatore e un uomo di Roma: un ultimo incontro...
Genere: Malinconico, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Damnatio Memoriae

 

Quella sera non c’era la luna. Non c’erano le stelle. Il cielo non offriva conforto, né speranza, né bellezza. Cupo, oscuro, coperto. Un cielo muto, chiuso nei suoi pensieri, sordo alle invocazioni dei miseri mortali che invano lo scrutavano in cerca di risposte.

Era una strana notte. In notti così, notti sospese, notti nelle quali gli dei stessi non prestano occhio ai capricci dei mortali, bisognerebbe starsene chiusi in casa. In notti così, bene e male perdono i loro contorni, sfumano e si fondono inscindibilmente l’uno nell’altro. In notti così, tutto è possibile e nulla è auspicabile, perché dove manca la luce del creato, è estremamente facile perdere se stessi.

Aurelio Claudio lo pensava seriamente, e rimpiangeva di non poter riferire il suo messaggio in una notte baciata dagli dei. Ma si sa, l’impero ha i suoi tempi, e i tempi di un impero che brucia troppo in fretta quasi mai coincidono con i lunghi, sterminati eoni degli immortali.

Il giovane romano percorse il breve viale che conduceva alla domus. Domus, poi, era una parola forse eccessivamente pretenziosa per quelle poche mura spoglie. Che triste e amara ironia, che una luce così strettamente imparentata con il buio avesse deciso di spegnersi definitivamente proprio lì, nello squallore. L’Imperatore avrebbe gradito. Lui, non poteva farlo.

La sua mano chiusa a pugno si tese verso la porta di legno, meno ferma di quanto avrebbe desiderato. Un paio di colpi discreti sarebbero bastati. Il suo era un annuncio che non richiedeva strepiti.

Nel silenzio si spegne la speranza. Nel silenzio muore il tradimento.

Dovette attendere solo pochi istanti, prima che la porta si aprisse, pochi centimetri di diffidenza che lasciavano passare una sottile lama di luce. Il giovane che aveva aperto lo scrutò con malevolenza mista a timore. Aurelio poteva capire perché: nella sua toga ricercata, nel curato taglio dei capelli, nel volto dai lineamenti fini, si rifletteva indiscutibilmente la sua posizione. Era un nobile, un uomo dell’ imperatore. E, palesemente, non recava buone nuove.

“Chi sei?”

Aurelio mise nella sua risposta tutta la formalità e la grazia che mancava nelle due parole del ragazzo “Aurelio Claudio. Annunciami al tuo padrone. Ho bisogno di parlargli con grande urgenza.”

“Aspetta qui.”

La porta si richiuse con un tonfo secco. Aurelio sogghignò. Che strana accoglienza. Era stato maltrattato da uno schiavo. Se il momento non fosse stato tanto drammatico, ci sarebbe stato da ridere. Arrabbiarsi? No. Era semplicemente la riprova del fatto che la nobiltà del sangue scorre in alcuni, prescelti e amati dagli dei, e in altri no.

Alcuni passi concitati all’interno lo misero in guardia, ma la porta si spalancò di scatto e, stavolta, inquadrato nel piccolo vano di luce, non c’era il giovane schiavo.

“Aurelio! Cosa ti porta qui, nella mia umile dimora, dopo… anni?”

Aurelio dovette fare appello a tutto ciò in cui credeva, al sangue, agli avi, all’impero, agli dei per mantenersi fermo. Anni. Si, tanti anni, troppi anni. Troppi anni che non contemplava quel corpo sottile che tante volte aveva sentito fremere sotto il suo tocco. Troppi anni che non lasciava scorrere lo sguardo su quella pelle così bianca, quelle labbra così rosse, quei lineamenti affilati, gli zigomi alti sopra i quali si aprivano due laghi di un azzurro tempestoso. Occhi che avevano sempre una furiosa scintilla vitale, che pure proiettava invariabilmente in quelle iridi l’ombra della morte. Occhi venati di follia. Occhi ardenti nella furia di un discorso in grado di domare le folle. Occhi in grado di scioglierlo, di soggiogarlo, di plasmarlo.

Occhi a cui, finalmente, un giorno, aveva detto no.

Ringraziò gli dei, invocando nuovamente quella forza non sua. “Cinque anni, Marco Quintiliano. Posso entrare?”

Marco sorrise “In una notte come questa, è meglio stare in casa. Sii il benvenuto.”

Si fece da parte per lasciarlo passare. Aurelio notò senza commentare che la veste di Marco era color porpora, il colore imperiale. Oh, Marco. “Ti ringrazio per la tua ospitalità.”

“La tua visita giunge inaspettata. Mi sarei preparato meglio al tuo arrivo, se tu mi avessi avvertito. Sai, dopo… quanti anni hai detto? Cinque? Dopo cinque anni, come avrei potuto supporre che avresti bussato alla mia porta proprio oggi.”

Aurelio sospirò, prendendo posto su un triclinio e ossevandolo accomodarsi su quello di fronte. “Non ha importanza. Non sono qui in visita di piacere.”

Marco si scostò dal viso i capelli castano chiaro. “No?”

Quel tono leggermente allusivo! Che maestro di retorica era Marco Quintiliano. Che enorme spreco. “No. Ti pregherei di ascoltarmi.”

Marco gli tese una coppa “Del vino? Renderà più sciolta la tua lingua…” un altro cambiamento di tono. Una sottilissima stilettata celata dietro una carezza. Oh, Marco, perché? Aurelio tese la mano. “ti ringrazio.”

La coppa era splendida, il vino speziato e lievemente addolcito da una goccia di miele puro. Eppure la casa era quasi plebea, in contrasto con quei piccoli piaceri lussuosi. Per un istante, la curiosità ebbe il sopravvento. “Non capisco, Marco. Perché una dimora così umile? A giudicare da questi oggetti, le finanze non ti mancano.”

Marco giocherellò con una catenina che portava al collo “Non ti piace, Aurelio Claudio?”

Risposta semplice “No.”

Marco rise piano “Troppo plebea, per i tuoi gusti?”

“Decisamente. Quale squallore. Come ti sei ridotto, Marco Quintiliano?”

La risata si intensificò “Per una casa? A me piace.”

Le sue dita stringevano ossessivamente la catenina. Aurelio gli lanciò un’occhiata colma di disprezzo “Ancora la porti?”

“Sempre.”

Aurelio sbuffò. Il primo scandalo di Marco Quintiliano. Il giorno del suo passaggio dall’infanzia all’età adulta, si era rifiutato di togliere dal collo la bulla. A nulla erano valsi gli insulti del padre, i pianti della madre, le invocazioni di sventura dei sacerdoti. Aurelio era presente, indossando già da un anno la toga virile. Ricordava il sorriso caparbio di Marco “Non rinuncerò mai totalmente alla mia parte infantile. È la parte dei sogni, e Roma ha bisogno di sogni.”

“Stai forse ricordando la mia cerimonia di passaggio, Aurelio?”

“ E tu continui a sognare, Marco?”

Il sorriso sul volto di Marco si spense. “Sempre. Ma mi ingannavo. Ero un bambino, e mi ingannavo. Roma non ha bisogno di sogni. Roma ha bisogno di ideali che diventino fatti.”

“Roma ha bisogno di quello che ha.” Il tono di Aurelio si fece duro, gli occhi scuri accesi di collera.

Marco rise ancora “Servi striscianti intorno a un inutile fantoccio… mentre il popolo soffre e muore? Come t’inganni, Aurelio. Sei forse stato al Colosseo, di questi tempi?”

Aurelio si ritrasse impercettibilmente “Che cosa vuoi dire?”

Marco insistè “Ci sei stato? Si, lo leggo nel tuo sguardo, in quell’espressione sulla difensiva. Hai visto ciò che il nostro beneamato idiota fa, invece di governare Roma… uccide uomini disarmati. Macella carni innocenti…

Aurelio lo interruppe con foga “Innocenti? Sono schiavi. Sono prigionieri. Dà a Roma qualcosa per cui divertirsi. Marco… ognuno ha i suoi piaceri. Un po’ di sangue schiavo non toglie il sonno a nessuno…

“Non parleresti così se fossi uno schiavo. Aurelio… che cosa ti hanno fatto? Parli come loro. Pensi come loro. Brami sangue come loro. Aurelio…perché?”

Aurelio sospirò, ricomponendosi e bevendo un altro sorso di vino. “Non bramo sangue. Forse alcuni divertimenti dell’imperatore sono…eccessivi. Allo sguardo di un bambino. Ma io sono un uomo. Io non porto più la bulla, io ho accettato serenamente e orgogliosamente di portare la mia toga virile. Io non mi orno di colori non miei. Io so distinguere cosa è importante da cosa non lo è. Lui è l’imperatore. E tanto basta per far si che lo serva con dedizione. Lui è Roma.”

Marco si sollevò dal triclinio, l’ira fiammeggiante negli occhi “Non insultare Roma! Non insultare la mia patria, non in casa mia. Non puoi pensare che la personificazione di Roma sia quel debole folle, Aurelio!”

Anche Aurelio abbandonò la posizione supina “Sei tu che la insulti, Marco! Tu…e le tue cospirazioni contro di essa.”

Qualcosa sul viso di Marco Quintiliano mutò. La mascella si contrasse, lo sguardo improvvisamente colmo di nuova consapevolezza. Una nota di paura. “Non capisco…

“Capisci perfettamente. La congiura è stata scoperta.” Marco si accasciò sul triclinio, una mano sul volto. La voce di Aurelio si fece più dolce. “Oh, Marco…in quale guaio ti sei cacciato?”

Una esile risata “E quando mai non sono stato nei guai?” Una ridda di immagini si affollò nella mente di Aurelio. Marco cacciato dalla schola, a dodici anni, per aver espresso con appassionati accenti un’opinione contraria a quella del Magister. Marco picchiato dal padre per aver offerto asilo ad una schiava fuggiasca, a tredici anni. Marco espulso dalle raffinate cerchie ristrette dei patrizi per il suo… talento nel sedurre i giovani rampolli. E ancora, le appassionate arringhe di Marco al foro, nella difesa dei più infimi plebei. Era un grande avvocato. Il migliore. Avrebbe potuto avere una carriera fulminante, essere ammesso al senato…cosa di cui si era sempre burlato. Risse, scandali , scritti blasfemi che prendevano spietatamente in giro personaggi illustri. Era stato bandito, era stato diseredato. Aveva rinunciato al suo sangue, al suo onore, al suo nome.

Aurelio provò per lui un’infinita compassione. “Che pena, Marco, nel vederti ridotto così. Hai sputato sul tuo sangue, calpestato il tuo onore…e sei stato sconfitto…i tuoi sogni sono distrutti.”

Marco si alzò lentamente dal triclinio, si avvicinò, gli posò in grembo un braccio troppo candido sul quale spiccavano le sue sottili vene bluastre “Scorre ancora.” Mormorò “Il mio sangue scorre ancora, Aurelio. Finchè avrò vita, i miei sogni vivranno con me.” Si alzò, indicandogli la porta con mano ferma “è meglio che tu ora vada.”

Aurelio chiuse gli occhi per un istante. Era il momento. Il momento di annunciargli che era tutto finito. Dei, datemi la forza. “No, Marco. Sono qui per riferirti un messaggio. E non ti piacerà.”

Marco sedette nuovamente, rigido, immobile, lo sguardo acceso, le labbra socchiuse su una parola che non osava pronunciare. Aurelio si appellò alla sua voce, che non tremasse, che non si incrinasse, che non rivelasse quanto fosse dannatamente disperato “Vengo ad offrirti la morte onorevole del romano.” Nulla, in Marco Quintiliano, rivelò che avesse inteso “Suicidati, Marco. Poni fine alla tua vita con onore. Quell’onore che non hai conquistato in vita, conquistalo nella morte.”

Qualcosa nella rigida postura del congiurato parve infrangersi, la sua schiena dritta si incurvò, le mani a coppa ad accogliere il viso, i capelli ricaddero attorno alle guance a chiudere una tenda tra due dolori infinitamente diversi. Infinitamente uguali. Le spalle sobbalzarono in una risata che conteneva il pianto. “Perché tu?”

“l’imperatore vuole la tua morte. La morte di tutti i congiurati. Tu sei un nobile, hai diritto alla scelta d’onore. L’ho implorato di poter essere io a venire da te.”

Marco alzò il viso, acceso di disprezzo “L’hai implorato? Hai…strisciato…di fronte a quel folle? Come uno dei servi che tanto ti disgustano?”

“Io sono un servo di Roma!”

“No! Tu sei lo schiavo di un folle! Ti dico qualcosa, Aurelio. Io non metterò fine alla mia vita perché l’imperatore lo chiede. Non lo farò…

Aurelio lo interruppe con veemenza “Vuoi essere decapitato sulla pubblica piazza? Sotto gli occhi di tutti. Sotto gli occhi degli dei. Sotto gli occhi degli avi. Nel disprezzo e nel biasimo. Senza onore.”

Marco proseguì come se non avesse sentito “ma se sei tu a chiederlo…ottempero. Vuoi che mi uccida?”

Aurelio chiuse nuovamente gli occhi. No. No, Marco, no! “Si. Non hai alternative. Qualunque cosa tu faccia, ti attende la morte. Le porte degli inferi sono già spalancate per accoglierti.”

Un lampo di speranza brillò in quello sguardo azzurro per un fugace istante “C’è sempre la fuga.”

Aurelio scosse la testa “ti troveranno.” Dopo una breve esitazione aggiunse “ti troverò.”

La rassegnazione calò sul viso di Marco Quintiliano. Così pallido. Così gelido nel contrasto con quel porpora scuro, del colore del sangue. Così sbagliato per lui. Così giusto per lui. Uomo nuovo, seguace della repubblica, vestito da imperatore, in una casa da plebeo. Un sognatore? Un folle? Un eterno adolescente segnato dalla mano di divinità capricciose? Un eroe? I posteri non l’avrebbero ricordato così. Non l’avrebbero ricordato in alcun modo. Damnatio memoriae.

“Che ne sarà del mio corpo?” domandò con voce soffusa, delicata. Sfinita.

“Bruciato. In campagna. Lontano da Roma. E così tutti i corpi degli altri congiurati. E i vostri scritti. Non resterà nulla di nessuno di voi.”

Marco annuì “Non si ricorderanno di me.”

Aurelio scosse la testa.

“tu, almeno tu, mi ricorderai? Aurelio?”

Un nuovo cenno di diniego. “Non penserò mai a te. Non parlerò di te ai miei figli. Non piangerò per te.” Una lacrima solcò il viso del romano “Non piangerò per te, Marco.” La asciugò rabbiosamente.

Marco gli posò le mani sulle spalle, fissando i propri occhi nei suoi. “No. Non piangerai per me. Non piangerai. Non piangere, Aurelio.” La sua mano salì a cancellare dal viso dell’amico quelle brucianti tracce di debolezza “Non piangere, Aurelio.”

Riprendendo il controllo, l’uomo si alzò dal triclinio, mentre Marco si riempiva una nuova coppa di vino. Si avvicinò alla finestra, scrutando la notte buia “è una notte cupa, per morire.”

“Una notte vale l’altra.”

Aurelio si voltò, incontrando un volto sofferentemente composto “ti conosco. Avresti voluto dire addio al cielo. Guardare le stelle, quelle stelle che tanto hai amato, per l’ultima volta.”

Marco raggiunse l’amico alla finestra, lasciando che l’ombra della notte lo avvolgesse. “Lo farai tu, per me, Aurelio? Dirai addio al cielo stellato per me? Giuramelo su ciò che hai di più caro.”

Gli tese la mano, un gesto che aveva sempre compiuto. Aurelio la strinse.

“Sul mio onore. Lo giuro.”

   
 
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