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Autore: rhys89    27/01/2011    2 recensioni
Una storia di sport, amore ed amicizia.
Una storia che racconta una passione pura e sincera con gli occhi di chi, della vita, ha visto soltanto la primavera.
«Aspetti… vuol dire che sono… titolare
L’uomo si fermò un momento, lo sguardo fisso davanti a sé.
«No. Non se non ti impegnerai a fondo per meritartelo.» Poi uscì dalla palestra, lasciandosi dietro un ragazzo ancora incredulo.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angolino dell'autrice

Saaaaaaaalve a tutti!!! ^-^
Bon, eccomi di nuovo qui con una storia semi-nuova! Perché semi-nuova? Perché in realtà questa storia l'ho iniziata tanto tempo fa, in quinta superiore (tre anni fa quindi... uh mamma, quanto tempo! O.O). Poi però l'ho abbandonata per dedicarmi a Forse... "insieme" (Pubblicità!! xD) e questa povera piccola storiella era caduta, come si suol dire, nel dimenticatoio. Adesso l'ho ripescata e ve la propongo, soprattutto perché nonostante tutto credo abbia delle potenzialità e voglio condividerla con voi.
Sarà una storia strana, almeno secondo me, incentrata soprattutto sul basket e sulla passione del protagonista per questo sport. Ci sarà anche una vena di sentimentalismo, naturalmente, ma il pallone a spicchi sarà la vera e indiscussa star.
Che altro dire... non è una storia conclusa ma in itinere, quindi purtroppo l'aggiornamento non sarà veloce né costante (come del resto tutte le mie altre storie -.-"). Se però avrete la pazienza di seguirmi, io prometto che farò di tutto per non deludervi! ^_-

Buona lettura a tutti! ^-^

Capitolo 1
Tommaso

È buio. Una notte d’estate, serena, tranquilla, piacevole… ma pur sempre notte.
A Timmy non piaceva la notte. E non gli piaceva neppure quel soprannome che gli aveva dato sua madre: dall’alto dei suoi quasi undici anni vedeva quel nomignolo infantile e irritante.
Tommaso dunque, o Tom, era perso nei suoi pensieri mentre camminava distratto per il giardino attorno alla sua nuova casa. Si era trasferito da un posto che adorava, vicino a tutti i suoi amici, per andare…
«In mezzo al niente!» Sbuffò.
Era inutile, non riusciva proprio a capire i suoi genitori. Sapeva che anche loro erano felici nel vecchio quartiere e quella decisione l’avevano presa per lui, per la sua salute odiosamente cagionevole…
Sapeva anche che avevano cercato in ogni modo di indorargli la pillola e che si erano dati tanto da fare per riservargli un piccolo terreno dove poter giocare liberamente, ma nonostante tutto lui… lui…
La sua mente si bloccò. I suoi occhi erano fissi, ma accesi e attenti come mai fino ad allora.
Nel buio dei cespugli c’era qualcosa di strano… sembrava una lampadina, eppure Tom era sicuro che non ci fosse nessuno laggiù.
«Mamma… cos'è?»
La donna volse lo sguardo verso quel piccolo insetto che tanto aveva affascinato il suo bambino e sorrise: lui non aveva mai visto una lucciola.
«Secondo te?»
«Non lo so…» sussurrò, prima di aprirsi in un dolcissimo sorriso «però mi piace!»
Molte stelle brillavano in cielo, ma presto abbandonarono il proprio lavoro e si concessero un meritato riposo, cullato dalla dolce carezza dell’alba. E ad essa seguì il giorno, poi il tramonto e di nuovo la notte, in una corsa senza vincitori né vinti, solo l’immutabile movimento di un eterno meccanismo…
Passarono così settimane, mesi e anche anni.
I caldi raggi entravano ancora una volta nella piccola stanza, ostacolati dalle leggere tende azzurre.
Accarezzavano quella pelle delicata, quegli occhi verdi, ma nascosti dalle palpebre nella tranquillità del sonno, quei capelli biondi, tanto chiari da confondersi col candore del cuscino.
Ma il volto che, dispettosi, solleticavano, non aveva più la tenerezza dell’infanzia: gli zigomi più pronunciati, le labbra carnose e un lieve accenno di barba non fatta…
“For Ancelot
the ancient cross of war,
for the holy… CLICK!”

Con un gesto assonnato, dettato più dall’abitudine che da un pensiero razionale, Tommaso pose fine alle urla del suo cellulare-sveglia.
Come ogni mattina aveva la tachicardia (e, in effetti, il metal non conciliava esattamente un dolce risveglio), come ogni mattina muoveva a tentoni la mano sul tappeto ai piedi del letto pensando di cambiare suoneria… e come ogni mattina si rassegnava a lasciar perdere, sapendo che per riuscire a svegliarlo servivano le maniere non forti… drastiche!
Portò di nuovo il braccio sotto il cuscino, crogiolandosi ancora un po’ nello stato di dormiveglia. Poi, con un sospiro, si liberò dal lenzuolo e scivolò sul pavimento, prima di rialzarsi con un colpo di reni e dirigersi in bagno.
Dopo essersi sciacquato lo specchio al muro gli restituì uno sguardo finalmente sveglio, catturato dal gioco delle mille goccioline che, dal viso, colavano rapide sul collo. Gli occhi seguivano attenti quelle scie perlacee e fresche che avevano raggiunto il petto nudo, segno del calore portato dalle notti di maggio, scendendo agli addominali definiti, al ventre piatto, fino all’ombelico, dove crearono un piccolo laghetto, e ancora più giù… per poi finire assorbite dal bordo dei pantaloni del pigiama, rigorosamente blu per un capriccio nato alle elementari e mai abbandonato.
Sorrise alla sua immagine riflessa, soddisfatto di sé.
«Finalmente la palestra sembra servita a qualcosa.» Sussurrò.
Da poco meno di cinque mesi aveva riscoperto una passione da anni sopita, soffocata, che si affacciava timida nelle partitelle a “21” e negli svogliati tiri liberi… ma che era esplosa con violenza in quella fatidica mattina di gennaio.
Faceva freddo, allora. Le vacanze di Natale non erano ancora finite e lui approfittava del tempo libero per stare tranquillo con i suoi amici.
Quel giorno stavano passeggiando lungo alcune vie poco trafficate per sfuggire alla calca del mercato quando una voce nota chiamò «Melli!».
Tommaso si voltò verso il suo compagno di classe e gli andò incontro alle porte di un campetto in cemento. Lui, Marco Sarti, era a maniche corte nonostante il freddo. Aveva il fiatone, infatti si era appena fermato a riposare da quella che doveva essere una partita di basket, visto il pallone arancione che ancora teneva stretto.
«Ehi Melli, ti va di giocare?»
«No, non mi fa voglia…»
«Dai, non rompere… ci manca uno e ci stanno stracciando! E poi ti fa bene muoverti un po’…» Concluse strizzandogli l’occhio.
Alla fine Tom cedette e, salutati quei suoi amici che non rimanevano, entrò in campo.
Era in squadra con Marco e un altro suo compagno di classe. Gli altri non li aveva mai visti, ma questo per lui non era mai stato un problema.
«Allora, a quanto stiamo?»
«15 a 2 per loro.» Gli rispose Andrea Carli, l’altro ragazzo che conosceva.
La palla era stata data proprio a lui, e così iniziò a palleggiare…
TUMP!
Che strano, era diverso da quando lo faceva in palestra, a scuola…
TUMP!
Aveva un qualcosa di intrigante, come se rievocasse vecchie sensazioni che credeva perdute…
TUMP!
Gli si avvicinò un avversario per rubargli la palla ma lui lo scartò con naturalezza, come se non avesse mai fatto altro.
«Tom passa!»
Senza riflettere lanciò in direzione della voce ed iniziò a correre verso il canestro avversario. Quando gli fu di fronte si ritrovò di nuovo quel piccolo sole a spicchi tra le mani. Quasi senza accorgersene saltò, accompagnò il pallone con un movimento flessuoso fino a lasciarlo volare brevemente, picchiare piano contro il tabellone e infilarsi dentro l’anello, dove la retina tremolante annunciava la fine di una splendida azione.
Calò il silenzio, rotto soltanto dai respiri un poco affannati dei ragazzi.
Nessuno disse niente, forse per un tacito accordo o forse perché, davvero, non c’era niente da dire.
Solo sorrisi, una pacca sulla spalla e il gioco riprese.
Poco dopo la partita finì 32 a 30 per l’altra squadra: nonostante tutto non erano riusciti a recuperare lo svantaggio, ma Tom, come gli altri, non se ne curava minimamente.
Dopo brevi saluti i giocatori se ne andarono e lui si avvicinò agli amici che lo stavano aspettando, prendendo la giacca e l’acqua che Eleonora gli porgeva. Sorrise alla sua migliore amica e bevve a grandi sorsi: il movimento gli aveva seccato la gola.
Sulla via di casa chiacchierarono del più e del meno. Alessio e Melania li salutarono poco dopo per stare un po’ soli e Tom ed Ele si sedettero sulla panchina davanti casa di quest’ultima godendosi il tepore del sole e la reciproca compagnia.
«Non sapevo che giocassi a basket.» Disse Ele dopo un po’, guardandolo attraverso la lieve barriera dei ricci castani che le nascondevano in parte gli occhi, marroni anch’essi.
«Infatti non ci gioco. Non più.» Aggiunse a un’occhiata scettica dell’altra. «Ero nella squadra della scuola alle medie, tutto qui.»
«E come mai hai smesso?»
Già… come mai? Neanche lui lo sapeva. Aveva iniziato perché, dopo il trasferimento, i suoi genitori dovevano accompagnarlo in macchina al vecchio quartiere, dato che era piuttosto distante dalla nuova casa, e gli allenamenti erano un’ottima scusa per vedere i suoi amici quasi tutti i pomeriggi.
O almeno questa era la spiegazione che si era dato. E forse era per quello che alle superiori aveva smesso: per i quattordici anni aveva ricevuto il motorino e ormai andava e veniva a suo piacimento… non aveva più bisogno di scuse.
Ora però, dopo quella partita… non ne era più tanto sicuro.
Ripensò a pochi minuti prima, alla ruvida sensazione della palla contro il suo palmo, alle urla di incitamento, all’adrenalina degli scatti e dei passaggi veloci, alla rabbia di essere superato ed alla gioia quasi selvaggia del fare canestro… e tutto questo mischiato insieme, unito in un vortice di emozioni quanto mai strano per un ragazzo come lui – sempre pacato e tranquillo – ma allo stesso tempo vivo, reale, sincero.
«Ehi bimbo, ti sei incantato?» Una voce dolce lo riscosse dai suoi pensieri.
La guardò un attimo, come per trovare le parole giuste, poi disse semplicemente «Ripensavo alla partita».
C’era molto di più dietro quella frase ed Ele sembrò capirlo quando gli propose con finta noncuranza di tornare a giocare.
«Marco e Andrea sono in una squadra e di certo sarebbero felici se giocassi con loro… perché non glielo chiedi?»
Silenzio. Poi uno sguardo, un sorriso… e infine un sussurro:
«Perché no?»
   
 
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