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Autore: Silver Pard    28/01/2011    2 recensioni
Un’ombra vuota. Un idolo vacuo.
Tu la chiami tortura, ma in cuor tuo sai che è giustizia.
Genere: Generale, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Cloud Strife, Sephiroth, Un po' tutti, Zack Fair
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII, Advent Children
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(Erebo)





(17 ore, 2 minuti)

Non siamo più lì. È veloce, un battito di ciglia, di meno, ed eccoci qui, passati da Cloud che letteralmente affoga a Tifa che affoga nella sua routine di tarda mattinata. È buffo, come uno spirito impetuoso come lei possa addomesticarsi tanto, possa legarsi in maniera così totale a una simile monotonia. O forse no.

Osservando Barret ha imparato molto – c’erano stati giorni in cui lui aveva lavorato più del dovuto, ore che persino il suo immenso corpo avrebbe voluto rifiutargli per la stanchezza, ma dopo dormiva profondamente sonni senza sogni (Sognava. Su questo non c’è alcun dubbio, sognava. Solo non lo ricordava).

Ma lei ha il suo modo personale di occuparsi delle cose. Tifa può immergersi completamente in ogni situazione possibile. Può concentrarsi esclusivamente sull’arco che disegna con un calcio alto, su come spingere tutto il corpo in un pungo, su come contrattaccare a questa mossa, su come schivare quell’altra.

E può concentrasi esclusivamente su come rigirare le strisce di bacon per cucinarle uniformemente, su come friggere le uova al tegamino (alla maniera di suo padre). Certe mattine va a correre, certe notti lavora fino a tardi; trasforma la sua vita in una serie di abitudini che può gestire.

Chissà quante persone ci saranno, lì fuori, a fare la stessa cosa.

Fissa senza realmente vederla la colazione posata nel piatto, ma non riesce a mangiarla. Ripensa ai pasti poveri di cui lei e il resto del gruppo si erano dovuti accontentare quando viaggiare veloci e leggeri era più importante dell’essere ben nutriti. L’indulgenza malsana di grasso che vede sul tavolo le ricambia lo sguardo e il suo stomaco si ribella.

L’ha preparato perché suo padre le faceva colazioni di questo tipo, l’ha preparato perché di colpo sente il bisogno di un qualche collegamento con una vita normale, che ormai le sembra nulla più che un sogno sbiadito, benché serbato a lungo.

Non è così che dovrebbe essere. Non è così che dovrebbe essere lei.

(Ci aveva messo delle settimane intere ad abituarsi alla Tifa Lockheart che aveva incontrato a Midgar.

Vestiva la parte, parlava la parte, recitava la parte. Si impegnava tanto per sbarazzarsi del suo accento, dell’innocenza e dell’ingenuità che gli altri ci sentivano dentro, si impegnava tanto per convincere tutti, lei compresa, che quello era il suo posto.

La gonna era appena un po’ troppo corta – doveva resistere costantemente all’impulso di tirarsela giù – e il top troppo stretto – gli lanciava spesso occhiate inquiete per accertarsi che la Cicatrice non fosse visibile (Dio, quanto la odiava all’epoca, quanto le ricordava di quel viso, di quegli occhi, del disprezzo che contenevano; a quei tempi non era un modo per affermare la propria vita, la prova di essere sopravvissuta dove innumerevoli altri non avevano potuto).

Trovava (trova ancora) molto più umiliante che qualcuno intravedesse quello sfregio, quella cruda cucitura di carne, che non le pratiche mutandine di cotone che nascondeva sotto la minigonna di pelle.

(Le cicatrici di Cloud sono pulite, argentee, lo ricoprono come una ragnatela di seta. La prima volta che le aveva viste nella loro interezza si era domandata se non fossero proprio quelle a tenerlo insieme, se la fragile intelaiatura di pelle sopraelevata non fosse in realtà una rete che lo avvolgeva, trattenendo dentro tutto quello che altrimenti sarebbe scivolato fuori.

In confronto a quella poesia, la cicatrice di Tifa non è che un brutto verso di una parola in mezzo ai suoi seni, una bocca raggrinzita che si è abbeverata del silenzio che il suo urlo avrebbe dovuto spezzare.)

Continuava a chiedersi quando sarebbe arrivato suo padre a prenderla per un braccio e a riportarla a casa, strillando sui valori! e la decenza! e non-ti-ho-cresciuta-perché-ti-comportassi-così!

Sarebbe stata felice come non mai di ricevere una strigliata. Ma poi ricordava che suo padre non l’avrebbe mai più sgridata, che non avrebbe mai più disapprovato i suoi vestiti o i suoi comportamenti, e si versava qualcosa da bere in un sorso solo, giusto per dimostrare la sua assenza.

A Nibelheim era una ragazza che indossava abiti provocanti con tutta l’innocenza che questo comportava, solamente per far indispettire suo padre, ma a Midgar era una donna. A Midgar aveva imparato che il suo corpo era un’arma quanto lo erano i pugni, e di conseguenza l’aveva usato.

Vedersi riflessa negli occhi di Cloud dopo tanti anni la stupì. Si era in qualche modo convinta di essere rimasta quella di sempre sotto lo sporco di Midgar, la stessa ragazza acqua e sapone della Nibelheim incendiata, la bambina che gli aveva chiesto di farle una promessa; non riconobbe la donna che vide lui, la donna che conosceva a menadito il trucco e i suoi vantaggi, che sapeva ancheggiare senza sembrare o sentirsi stupida, che conosceva cento scollature diverse per le mance migliori, che sapeva promettere tutto in uno sguardo senza poi dare niente.

No, non l’è piaciuta la Tifa Lockheart che ha incontrato a Midgar. Ma ci sono volte in cui le è così grata, volte in cui ha avuto talmente bisogno di quella donna dura come l’acciaio, che seppure si facessero tornare indietro le lancette dell’orologio e si fermasse Sephiroth prima che impazzisse, non saprebbe dire se non rifarebbe comunque tutto daccapo.

Oggi è uno di quei giorni in cui ha bisogno di lei.)

Raccoglie il giornale davanti all’ingresso, ancora in vestaglia, il titolo in grassetto tocca qualche corda dimenticata – nel suo piccolo, ha dato una mano affinché si compisse l’impresa eccezionale che è stata sbattuta in prima pagina – prima di voltarsi e tornare dentro, chiudendo la porta a chiave (contro cosa?).

Il mondo. La data. Tutto e tutti. Dentro casa sua (non la chiama così, ma col tempo l’accetterà come tale) non vuole che entri niente di quello che sta fuori, niente delle persone che ha aiutato a salvare, niente del suo passato e sicuramente niente di quello che potrebbe diventare il futuro. Se volesse, potrebbe chiudere fuori Cloud. Getta il giornale sul tavolo quando gli passa accanto, oltrepassando il cibo che si sta raffreddando e che un anno fa avrebbe messo fuori perché lo mangiassero gli uccelli, e che metterà lì anche stavolta se i bambini non lo vorranno. Sale di nuovo le scale, le spalle accasciate. Noi la seguiamo.

È questo che fa a se stessa, per mettersi in condizione di sopportare il peso del vivere, problema che si pone quando la tua vita fa parte di una grande storia. Le storie sono fatte per finire. Ma raramente, se non mai, finiscono con te. Finiscono su un monte, sull’apice della tua vita (non conta che tu abbia venti o ventun anni, e la tua vita non dovrebbe essere tanto piena, tanto vuota per gli anni a venire) e quando tutto si conclude tu devi comunque continuare a vivere.

Sparsi per casa, se ci si prende la briga di notarli, ci sono i segni della presenza di un’altra persona che vive qui almeno per qualche periodo. Nessuno di questi segni punta a Cloud, ma d’altro canto, anche Prima, lui non è mai stato bravo a stabilirsi in un posto, a essere una piccola parte della piccola vita di paese (… Non che Edge sia piccola, di per sé).

Certo, lui pensa che se potesse tornare indietro a quando aveva sedici anni (è stato a quattordici che tutto ha cominciato ad andare a puttane, ma chi tiene il conto?) sarebbe maledettamente contento di quella vita piatta. (Nessuno di noi è d’accordo. A quattordici anni, Cloud aveva grandi sogni e poco buon senso, ma adesso ne ha ventidue, ha visto cose che nessun’altra persona al mondo avrebbe la forza di reggere, e sogna in piccolo ma ha la stessa quantità di buon senso.

I piaceri semplici intrinseci dell’essere un uomo non può averli più – sotto mano ha delle cose più grandi, come gli attacchi al Pianeta e gli incubi di un uomo morto. Non si preoccuperà mai di figli, di partecipare all’adunanza comunale, di qualcosa di così banale e importante.)

Adesso sta entrando nel bagno, strofinandosi distrattamente il sonno dagli occhi con una mano e passandosi l’altra tra i capelli flosci; fa una smorfia, sentendo per un breve istante la disperata certezza che questa sarà una brutta giornata (è passato molto tempo da quando la sua percezione di “brutta giornata” è diventata così semplice).

Sta ancora pensando a noi. Apre l’acqua, trasalendo per la sua freddezza, prima di slacciarsi la vestaglia, togliersela tranquillamente con una scrollatina di spalle e appenderla.

(Non riusciamo a distogliere lo sguardo abbastanza in fretta (porca miseria, porca miseria nera, è Tifa. Spikey mi ucciderebbe).

Aeris si copre gli occhi con le mani, voltandosi (ed è divertente come ogni volta che lo fa), io cerco di trovarmi nello specchio, mentre Sephiroth la squadra con calma, un sopracciglio delicatamente inarcato in un’espressione che potrebbe significare una miriade di cose, prima di girarsi e mettersi a studiare tutti i prodotti per l’igiene e di bellezza con ammaliata repulsione.

Shampoo, risciacquo, balsamo. Le piace l’acqua calda sulla pelle fredda. Il vapore ci avvolge, appanna la finestra e sgocciola, lasciando fuori i contorni di edifici grigi e facendo entrare soltanto la debole luce del sole.

Questa è la sua ricompensa per essersi svegliata un altro giorno (che stupore, quando si era svegliata a Midgar, quanto si era detta sicura che non avrebbe più dato per scontato l’ordinario miracolo di respirare). Questa è la sua ricompensa per aver avuto abbastanza fede da alzarsi e mettere il pilota automatico. La doccia lava via la mattina e il passato e lascia solo il presente, una quiete oscura che si trova più comunemente nel grembo materno.

È qui che si lascia in contemplazione del nulla. È questo l’unico luogo in cui il pensiero di Cloud non entra, e può essere soltanto Tifa.

Qui, può convincersi che le lacrime siano semplicemente acqua. Di non avere nulla per cui piangere, e che se anche ce l’avesse, la doccia piangerebbe per lei.

Non avrebbe mai voluto essere una di quelle donne patetiche dei romanzetti rosa che aspettano che un uomo le salvi. Ha imparato le arti marziali per potersi salvare da sola, non per perdersi nelle abitudini, e nei rimpianti, e nel pensiero di un viso dagli occhi scintillanti.

Finalmente capisce perché i più crudeli degli dei si armavano di frecce acuminate.

Chiude gli occhi e nasconde il volto tra le mani, ascolta l’eco del battito cardiaco nelle orecchie, il rumore irregolare del suo respiro che quasi assomiglia a un singhiozzo, sente il calore dell’aria che espira tornarle riflesso. Finalmente ci lascia andare, e scivoliamo oltre, fuori, giù per le scale, e corriamo sul marciapiedi, evitando macchine e persone come se fossimo ancora vivi.)



Per Cloud, Tifa sarà sempre la prima ragazza.

Per questo non funzionerà mai.

Ricorda perfettamente la prima volta che l’ha vista, e non aveva visto la figlia del sindaco o la ragazza della porta accanto o l’ennesima bambina pronta a rendergli la vita un inferno (e quanto ride questi giorni quando ci pensa, conoscendo il vero significato delle parole “rendere la vita un inferno”).

Lui aveva sei anni, lei cinque. Erano nel cuore di luglio, e lei era seduta al pozzo, i piedi sporchi e scalzi, i capelli legati in una treccia disordinata che già cominciava a sfaldarsi, e stava canticchiando a labbra serrate la sigla di un programma del sabato mattina, e per Cloud il sole brillava solo per lei.

Fu come se fosse stato colpito in pieno petto. Fu come se qualcosa dentro di lui si fosse azionato di scatto. Tutto d’un tratto sapeva chi sarebbe diventato da grande, sapeva di essere più forte di quanto non avrebbe mai creduto, e allo stesso tempo si sentì patetico, e ferito, e piccolo, e pensò non guardarmi, ti prego, fammi scappare via adesso, e pensò guardami.

Voleva girarsi, voleva fuggire, rimanere semplice, ma i suoi piedi si erano incollati al terreno. Poi lei si voltò e gli sorrise, e per lei quel sorriso non significò nulla, era solo un’espressione, ma per lui fu come se Dio gli avesse sfiorato la spalla, come se il mondo si fosse ristretto al suo viso, al suo sorriso, e s’innamorò perdutamente di lei in un istante con tutta la schiacciante semplicità del primo amore, e con il suo cuore di bambino capì che avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni a vivere per quel sorriso.

È così che comincia. Sempre. (Se descrivessi il mio primo amore non sarebbe molto diverso.)

È così che finisce. Sempre.

Poi lei se ne va. Tu la guardi mentre si allontana. Prende il braccio di un altro ragazzo, o la osservi da dietro il vetro di una finestra quando parte, o la vedi correre in un prato o semplicemente sorridere a qualcun altro nel modo che tu precedentemente, stoltamente, avevi pensato fosse riservato solo a te.

Ma in qualunque modo succeda, in qualunque momento succeda, lei se n’è andata, e tu ti senti vuoto, come se ti fosse stato strappato via qualcosa. E qualcosa ti è stato tolto – la parte di te che sapeva cosa significasse amare, e pensi che non riuscirai mai più a sostituirla, che non amerai mai più, che nulla ricrescerà mai in quel posto vuoto che prima occupava lei.

E forse è così, forse quel posto rimarrà vuoto per anni, ma alla fine sì, qualcun altro entrerà in quel posto reso possibile da lei, dalla prima ragazza di cui ti sei innamorato, e la ringrazierai, perché per quanto ti abbia ferito (che sia nel profondo dell’anima o nulla di più di un graffio) ti ha dato la possibilità di poter amare quel qualcuno.

Ti butti alle spalle il tuo primo amore, sempre, perché è così che vanno le cose. Forse con lei ci hai vissuto anni, forse l’hai vista una volta soltanto, solo per qualche secondo, il risultato non cambia. E forse non volevi, forse l’hai rincorsa gridando il suo nome, forse hai urlato e ti sei tormentato per lei, ma comunque te la butti alle spalle.

(Ormai avrete capito che non stiamo veramente parlando di Cloud, vero?)

Forse, come i miei genitori, ti sposi questo primo amore, e rimani sposato e probabilmente morirai sposato a lui o lei. Questo dovrebbe annullare la mia tesi? No. Perché è impossibile, assolutamente impossibile che la bambina di cui si è innamorato mio padre (la prima volta che l’ha vista, lui aveva nove anni e lei stava malmenando il suo vicino di casa perché le aveva tirato le trecce – per la precisione gli aveva dato un pugno tanto forte da farlo cadere nel terreno) sia la stessa donna che mi ha detto di stare attento, scrivere spesso e chiamare di più.

Il primo amore può diventare l’ultimo, può diventare “vero amore”, ma non può mai rimanere il tuo primo amore, mi seguite? Chiamare qualcuno il tuo primo amore implicherà sempre che a un certo punto hai cominciato ad amare qualcun altro, anche se non hai mai smesso di amare lui o lei.

Qualcuno mi ricorda perché stiamo discutendo dell’amore?

Oh, giusto. Tifa. Tifa… ha un motto. Fa così: non arrenderti mai. (Scusate, ho dimenticato le maiuscole. Fatemi riprovare: Non Arrenderti Mai.) Se Tifa si facesse un tatuaggio, sarebbero queste parole. Non “Combattere Fino alla Fine” o “Fino alla Morte” o robe simili. No. Con quelle si indicherebbe qualcosa di finito. Vorrebbe dire che prima o poi sì, arriva il punto in cui ti fermi.

Tifa non saprebbe quando fermarsi nemmeno se qualcuno le desse un pugno in faccia (o provasse a tagliarla a metà, che forse calza meglio). Mai significa davvero mai, significa che continui a mettere un piede davanti all’altro, nonostante tutto sia contro di te, nonostante il fatto che una qualsiasi persona sana di mente avrebbe cercato di limitare le perdite e sarebbe scappata tempo fa.

(L’ordine è sbagliato. Lei ha già perso.)

Tifa per Cloud è la prima ragazza. Quando pensa a lei, in fondo all’immagine che ha di lei c’è questa bambina che fa dondolare i piedi avanti e indietro e canticchia una sigla. È talmente radicata, talmente coperta da altre impressioni che la si scopre solo scavando a fondo, solo strappando e mettendo da parte tutti quei ricordi fragili, solo sbrogliando tutte quelle visioni intrecciate.

Cloud aveva una scelta, quando era inginocchiato nel reattore, e lei gli sanguinava sulle mani. Poteva scegliere tra Tifa, la prima ragazza, e il dio che aspettava nel cuore del reattore. Ha scelto Sephiroth. Si è buttato il resto alle spalle.

Quello non conta, potreste controbattere (lei potrebbe controbattere). Era una questione di vendetta, lei l’avrebbe voluto (oh, se lo voleva), è stato tutto troppo veloce e confuso per essere una decisione consapevole.

Balle. Dalla prima all’ultima: balle. Sì, è stato un qualcosa di veloce e confuso, secondi, non minuti. Ma lui ha scelto di inseguire Sephiroth, ha preferito la vendetta a lei, ha deciso in quel preciso istante che ucciderlo era più importante di lei, della ragazza che sarebbe diventata la donna che tutti (chi sono questi tutti?) si aspettano che sposi. (E poi fu molto difficile pensare a quanto amasse la ragazza della porta accanto quando per i cinque anni seguenti era un po’ impensierito dalla sua possibile morte. Stranamente, cose come l’amore della tua vita impallidiscono fino a perdere significato quando ti trovi davanti a cose del genere.)

Però il primo amore non si scorda mai. È per questo che Cloud scappa, ma mai troppo lontano. È per questo che ha smesso di rispondere alle telefonate, ma non butta via il cellulare.

(… Ecco perché smetti di amare qualcuno anche quando non vorresti:

Perché se non lo fai, distruggi te stesso e distruggi l’altra o l’altro. Ci sono certe persone, lasciate dalla prima ragazza, che non smettono di telefonare, che piangono, gridano, fanno lo sciopero della fame, minacciano soluzioni drastiche. E l’altro, l’oggetto della loro adorazione, benché conscio dell’errore, torna e continua a tornare. E anche quando non ci sono, accecano gli occhi dello sciocco, che non riesce a vedere nessun altro.

Per questo te lo butti alle spalle. Perché non è una scelta. Perché devi.

Vi racconto la storia dalla parte di Tifa? Quanto mi piace divulgare segreti.

Vediamo. Tifa non ha mai amato nessuno in vita sua, non nel modo in cui ti aspetti di amare qualcuno nel segreto del tuo cuore.

Ti aspetti, nel profondo, di amare qualcuno nel modo di cui nelle storie non si parla mai. Non credi veramente nell’amore a prima vista, o alla seconda, o alla terza. Non ti aspetti di essere sopraffatto dall’attrazione verso qualcuno e finire così nel genere di relazione in cui vorresti passare il resto della tua vita. Ti aspetti, nel profondo, che sia lento, che si sviluppi nella fiducia, nell’affetto e nell’amicizia, una trasformazione naturale di cose preesistenti, non un colpo di fulmine a ciel sereno. In segreto, è così che ti aspetti di amare la persona della tua vita.

Tifa ama come…

(—Un boa constrictor, propone seccamente Sephiroth. —O una stalker.

—Sta’ zitto, prima che ti strozzi io, sbotta Aeris.)

… come una foresta che va a fuoco. È bellissimo, è il genere di amore di cui narrano le leggende, è il genere di amore che fa sospirare le ragazzine che si immaginano principesse, ma è letale e irrazionale e non…

Guardi un amore come quello di Tifa bruciare, e lo ammiri da una distanza di sicurezza e ringrazi la tua buona stella che non c’entri niente con te anche mentre menti a te stesso e ti chiedi con un sospiro come sarebbe essere amati così.

È distruttivo fino all’estremo. Non puoi amare così senza scottarti. Non puoi essere amato così senza consumarti. È questione di chi finisce in cenere per primo.)

Un giorno, credo, Tifa vincerà. Non dovrebbe, perché dopotutto, cosa vi ho appena detto sul primo amore? Ma vincerà.

Fino ad allora, è un circolo vizioso, e stupido, e buffo, e macabro come quello che intercorre tra Seph e Cloud. Non arrenderti mai. Anche quando dovresti.



(15 ore, 43 minuti)

A Barret non sono mai andati giù i sentimentalismi strappalacrime.

(—Bugiardo, sussurra Sephiroth, inalando l’ipocrisia e rotolandosela sulla lingua come fosse un pasticcino squisito, assaporando le menzogne che il leader dell’AVALANCHE dice a se stesso, dolci e amare, amare e dolci.)

Ma quando si parla della ShinRa, e di quello che stavano facendo, non può fare a meno di fare un po’ il sentimentale (un po’? Un altro pizzico di zucchero e i tuoi denti anziché cadere si dissolveranno). Quando affronti problemi così grossi, è difficile non farne una questione di bambini vecchi-giovani e di parole sulla libertà, sulla luce del sole e sulla felicità.

Si ripete che ha fatto ciò che ha fatto per i bambini (per la sua bambina), per tutti gli uomini e le donne che hanno sofferto sotto l’oppressione della ShinRa (per se stesso, per sua moglie, per la sua città, per placare il rancore cocente che gli corrodeva lo stomaco). Ha fatto discorsi, ha persuaso altri alla sua causa (la sua giusta causa), ma ha sempre saputo, da qualche parte dietro gli impeccabili scudi dell’abnegazione, di star mentendo.

Ha fatto quello che ha fatto perché aveva bisogno di vendetta. Punto. Ha detestato (detesta) Strife dal momento in cui ha visto quel bastardello arrogante perché Strife non sentiva alcun bisogno di mentire, di mascherare il suo semplice bisogno di vendetta con discorsi poetici e parole glorificanti sull’oppressione, la morte e le persone da salvare. Spikey dava le sue ragioni e non si vergognava a riconoscere che la sua era rappresaglia personale.

(Certo, ora sa che Cloud ha mentito su una scala molto più vasta delle sue piccole glorificazioni veniali. Ma questo l’aveva colpito, quando ancora Cloud era un mercenario e non il guscio rotto e crepato di un uomo che si nasconde alle proprie responsabilità.)

Si vergogna vagamente delle ragioni egoistiche che l’hanno inizialmente attirato in questo qualcosa che avrebbe poi avuto conseguenze di una portata tanto ampia, questo qualcosa che avrebbe dovuto essere disinteressato.

Però, pensa, se c’è qualcuno che può capirlo, che può togliere la punta dolorosa a tutto ciò, quella è Aeris. Per questo oggi è in visita alla chiesa, mentre Cloud sta seduto nudo (purtroppo non ci ha chiamato) accanto al lago in cui ha cercato di affogarsi e lascia che il sole gli asciughi la pelle e i vestiti, chiedendosi se non sia il caso di tornare a casa, se solo riuscisse a capire casa sua dov’è.

Marlene è fuori che saltella, e Barret racconta ad Aeris la sua giornata con parole titubanti e incerte, le cose grandi e piccole della sua vita, desiderando di essere stato benedetto da quel tipo di intelletto che crea poesia e bellezza dal nulla.

S’impappina e vacilla, ma continua, ostinatamente, risolutamente (ha fede. Lui crede), offrendo pure l’ennesimo, piccolo sacrificio a un altare di fiori e all’imago di una donna trasformata in dea.

(Un giorno erigeranno una statua. Per allora, Sephiroth sarà l’orribile meraviglia di un incubo, un drago nero che spiegherà l’ala dalla spalla sbagliata, le zanne che spuntano dalle labbra stirate in un sogghigno beffardo, gli occhi forgiati con piccoli smeraldi deformati in un’espressione degna di Hojo mentre scrutano torvi il suo avversario – che sarà alto un metro e ottanta e grosso come un carro armato e non l’esile ragazzo dai capelli arruffati che a stento ha cominciato a essere un uomo.

Dietro al Campione, Aeris sorriderà serenamente, le mani giunte, e verserà lacrime di sangue.)

Individua un fiorellino avvolto nella plastica. Non ha bisogno di guardarlo da vicino per sapere che è lo stesso fiore che un mercenario spaccone regalò a sua figlia prima che tutto andasse a rotoli. Si chiede chi l’abbia messo lì, chi l’abbia schiacciato, se Cloud l’abbia visto.

Stupido, si rimprovera. Cloud ci vive in questo maledetto posto, certo che lo sa. E sente quella piccola fiamma di risentimento attizzarsi di nuovo per l’autocommiserazione insita in un’azione del genere. La spegne ricordando quella faccia da ragazzo contratta di paura e orrore una volta capito di aver consegnato la Black Materia a Sephiroth.

Tiene ben stretta quell’immagine, prova a fonderla con altre che ha (mercenario burattino leader sano intossicato di Mako spaurito deciso perso) e quella gli scivola tra le dita come un fantasma, un camaleonte che svanisce nell’ambiente circostante malgrado i suoi più strenui tentativi di farlo rimanere di un solo colore.

Lui odia i SOLDIER. Per quanto gli riguarda, tutto ciò che c’era di sbagliato nella ShinRa può essere riassunto negli occhi di un SOLDIER. Fottutamente contro natura.

Ma tutto ciò che c’è di sbagliato nel mondo può essere riassunto in Cloud Strife.

Quando è sincero (leggasi: talmente sbronzo che è un miracolo che sia vivo), a Barret non piace Cloud. (Non è tanto strano come possiate pensare. Per le persone che conoscono solo il Cloud emerso dalle ceneri di Nibelheim non è facile che vada a genio.)

Può rispettarlo, ma non gli piacerà mai, non annegherà in litri di birra con lui come fa con Cid, né sentirà lo stesso desiderio paterno di proteggerlo che nutre per Tifa, che ha solo un anno di meno; non può neanche condividere con lui quell’esitante cameratismo che può avere con Vincent.

C’è qualcosa in Cloud… qualcosa in Cloud e nei suoi occhi (e forse… nel modo in cui pronuncia quel nome, nel modo in cui ogni tanto guarda le persone attraverso, come se tutto e tutti non significassero nulla) che è di gran lunga più terrificante di un Turk che diventa un mostro se messo sotto stress. In fondo al cuore, Barret ha paura di Cloud Strife.

(Come se Barret potesse mai aver paura di quella mezza sega, si dice, come se quel biondino ossuto potesse spaventare lui. Barret dubita che dentro sia grande abbastanza da non dover andare più a scuola, il fatto che beva/guidi/fumi/salvi il mondo conta poco.

Ma quando li guarda come li ha guardati la notte del Lifestream, quando li guarda così… dimenticate Sephiroth, che poteva fargli sprofondare il cuore negli stivali, Strife può trapanargli gli stivali e la terra e spedirgli il cuore all’altro capo del Pianeta.)

Barret non conosce i dettagli che hanno fatto di Cloud l’equivalente di un SOLDIER. Il brivido freddo che gli percorre la spina dorsale gli dice che sta bene così. Pensa a Sephiroth, che per lui è sempre stato la fotografia di un poster o una tremolante immagine televisiva, pensa che è impazzito per un paio di stramaledette parole e ha provato a ridurre tutto in polvere e si dice, se il Generale può impazzire

Se il Generale, l’uomo che dicevano non avesse emozioni, può impazzire così per qualche frase e un paio di eccessive modifiche apportate ai SOLDIER, cazzo, poi grazie che Cloud si nasconde in questo posto.

Ma questo non significa che dovrebbe.

A Barret frega dell’autocommiserazione altrui ancora meno della ShinRa.

(—Ipocrita, mormora Sephiroth, facendo penetrare con astio le dita nella spalla di Barret e chinandosi verso di lui, dove ripete la parola, gliela sibila all’orecchio come una maledizione.

(Il vuoto, la futilità dell’esistenza di Barret prima che scoprisse l’AVALANCHE, prima che si rendesse conto che c’era qualcosa che potesse fare lì fuori. La disperazione più nera di quando tutto, tutto si è sbriciolato e gli è stato portato via – sua moglie, il suo migliore amico, la sua casa, gli era rimasta solo una bambina non sua che lo guardava con gli occhi della moglie del suo migliore amico e gorgogliava allegramente come se lui fosse il buono della situazione, come se avesse una qualche vaga idea di come prendersi cura di lei, di come proteggerla.

Il Pianeta, la completa mancanza di significato di ogni cosa, la desolazione. Le voci al buio che lo schernivano, le fiamme che vedeva ogni volta che sentiva la parola ShinRa, e la vergogna, pesantissima anche sulle sue ampie spalle.)

Aeris afferra Sephiroth, gli aggancia un braccio attorno alla gola e fa leva con l’altro, prova inutilmente a staccarlo di lì. Lui oppone resistenza per un attimo, la pressione del suo avambraccio che cerca di schiacciargli l’esofago è poco più che fastidiosa, prima di capire cosa sta facendo e di lasciarsi trascinare via.

È morto, e confuso, e sta cominciando a odiare i vivi ancora di più di quando era vivo.)

Barret sente solo una brezza fredda, ma è sufficiente perché si alzi in piedi, si allontani e torni da Marlene. Ha finito di fare penitenza e si sente prosciugato ed esausto, anche se non è nemmeno mezzogiorno.

Riuscirà ad arrivare fino alla fine di questa giornata. Perché pensare al prezzo, quando il ricavato è tanto proficuo? La ShinRa non c’è più (Sephiroth è morto) i reattori Mako stanno chiudendo (la Materia non si usa più) il Pianeta sta guarendo (Cloud sta crollando).

Dietro di lui, un’ombra si stacca da quello che è rimasto delle travi, balza agilmente giù e atterra sugli stivali senza fare rumore, inginocchiandosi accanto ai fiori.

Barret non si volta a vedere Cloud, che si china e spegne la candela che ha lasciato dietro di sé tra le dita inguantate. (—Ne humanus crede, ringhia Sephiroth, l’espressione amara e rancorosa, le parole oscure e sinistre ma i gesti potenti e regali. Aeris sorride, esitante, diffidente – non si sente più esattamente al sicuro in sua compagnia).

Cloud gira la testa e ci sorride, il volto bagnato svuotato di vita e di lacrime.



(14 ore, 52 minuti)

Marlene salta, un due tre

Perché papà è occupato, papà sta ricordando la notte in cui la Fioraia ha mandato la Cosa Verde a combattere la roccia cattiva. Non la chiama Meteora, anche se è grande e intelligente abbastanza da capire cosa fosse. “Meteora” porta con sé una brutta sensazione; fa irrigidire di rabbia e paura soppressa la faccia di papà, ed evoca un’ombra scura di cui ha immensamente paura (complimenti, Seph, è bello vedere che certe cose ti riescono ancora bene), e non può fare a meno di provare un brivido di terrore quando gli adulti menzionano il suo nome.

Quattro cinque sei sette otto nove

Nemmeno zio Cloud lo pronuncia mai. Marlene ha un po’ paura di zio Cloud, perché anche se è carino e sembra delicato, come una delle rose della Fioraia, ha delle spine terribilmente affilate, e i suoi occhi… i suoi occhi sono davvero spaventosi. Hanno dei posti scuri, dei posti morti di ombra dove puoi perderti, e a volte, quando la guarda con quegli (artificiali) occhi vuoti, lui le guarda attraverso, e dentro, ed è come se le scuoiasse l’anima.

È stato toccato dal Pianeta e spaventato dal semi-dio, e Marlene odia che sia andata a finire così, perché lui è la persona più forte che conosca ed è così debole.

Le piace il fiore che lui le ha regalato (zia Tifa l’ha schiacciato per lei e poi l’ha messo nella chiesa della Fioraia dove zio Cloud si nasconde da se stesso), ma non incontra mai i suoi occhi se proprio non ne ha bisogno (perché, diamine, nemmeno Cloud può combattere con uno sguardo innocente).

Dieci undici dodici tredici quattordici

E zio Cloud porta l’ombra con sé, ovunque vada. Ogni volta che lo vede, l’ombra è sempre sulla sua spalla, nei suoi occhi, e ha un sorriso freddo e aguzzo come una spada, e ha occhi penetranti quanto quelli della Fioraia, senza il loro calore e la loro empatia. Sente la mancanza della Fioraia soprattutto quando l’ombra le guarda dentro con un sorriso pigro e imbrattato di sangue.

Ogni tanto ha sentito zio Cloud chiamare l’ombra “Sephiroth”, quando è vago e distratto e si permette di vederlo (ma solo per qualche secondo, tanto rapidamente che pensa di essere semplicemente paranoico. E lo è. Ma solo parzialmente, perché nessun altro può vederci davvero) e il nome riporta alla luce qualche indistinto ricordo…

Gli amici di papà, quelli partiti per la Terra Promessa, avevano detto qualcosa su di lui, tanto tempo fa (l’anno scorso, o forse era l’anno prima? Gli anni si confondono quando sei un bambino, lasciano dietro di sé solo specifici eventi), mentre discutevano di come aiutare il Pianeta e distruggere i reattori, cose come “rappresentativo” e “terrificante (brutta parola che in teoria lei non dovrebbe sapere)” e “fortuna che non c’è più il rischio di incontrarlo in un reattore…”

Questo dovrebbe voler dire che l’ombra è morta ed è ritornata al Pianeta. Ma non è così. Non fa del tutto parte del Lifestream. Lei lo sa. Non se combatte così tanto per stare vicino ai viventi.

Papà ha detto che l’ombra era un uomo cattivo, che ha fatto tornare la Fioraia al Pianeta, alla Terra Promessa, ma nemmeno questo è esatto, perché lei ha sentito la Fioraia la notte che è venuta la Cosa Verde, e papà deve sapere che quella era lei. Anche lei è ancora lì, lo sa, e lo sa pure zio Cloud. Ha sempre un’espressione vecchia e perseguitata, uno sguardo tirato e prudente.

Quindici sedici diciassette

Non fa domande sull’uomo-non-uomo che fa diventare morti gli occhi di Cloud e irrigidire la faccia di Tifa, ma un giorno è venuto zio Cid – piccola Marlene, ha tanti di quegli zii e così poche zie – e (forse aveva alzato un po’ il gomito, forse cercava di tenere testa a Cloud – non avete visto niente finché non vedete un povero illuso che cerca di battere un SOLDIER nel bere) le ha raccontato di una guerra e di un Generale, una lezione di storia che lei ha ascoltato rispettosamente, e più tardi, molto più tardi, quando probabilmente avrebbe rischiato il suicidio se avesse cercato di accendersi una sigaretta senza infiammare i fumi dell’alcol, le ha raccontato di alcuni esperimenti scientifici, e di odio, e di una lussazione.

Lei sa fare due più due, e ha capito che l’uomo di cui parlava zio Cid con riluttante rispetto e manifesta paura al tempo stesso è

(Sephiroth, mormora Cloud nel sonno, come se il mondo fosse contenuto in quella parola, in quel nome.)

Ha cominciato a fare degli incubi su un’alta ombra nera eretta in un campo di sangue, gli occhi verdi e taglienti che ridono mentre lancia la Meteora in aria e la riprende con rapidi, abili colpi di polso, e con l’altra stringe gli estremi di fili insanguinati che sono infossati nella pelle di Cloud.

diciottodiciannoveventi

Non si sveglia gridando. (Aeris l’abbraccia dolcemente; le accarezza i capelli, spazza via gli incubi con la dimestichezza di un esperto – lo fa per Cloud continuamente – e li rimpiazza con sogni di campi infiniti e risate serene.)

ventuno ventidue ventitré

Marlene salta, e anche se è una bambina intelligente, fin troppo grande per la sua età, non capisce che sta facendo la stessa cosa che fa Cloud, solo in maniera leggermente diversa: si perde nei numeri, negli schemi e nella routine per evitare di pensare a come stiano davvero le cose. Ma lei è una bambina; lei ha una scusa.

Ventiquattro venticinque ventisei

Le manca la Fioraia. Sa che il Pianeta soffre e si addolora, e vorrebbe disperatamente che la Fioraia potesse essere lì ad aiutare a lenirlo. Capisce quello che pensano tutti quanti – che non è un problema suo, non è un problema di nessuno tranne che di Cloud, perché per qualche ragione, il Pianeta l’ha scelto.

Il Pianeta ha scelto lui ora che la Fioraia è tornata dalla sua gente, e per qualche motivo questo significa che lui è ai suoi ordini, che ogni minaccia è sua responsabilità, nessun altro deve disturbarsi a pensare al Pianeta, lui non si spezza mai (si è già spezzato).

Lei vorrebbe gridare qualcosa a tutti quanti, perché aiutare il Pianeta dovrebbe essere uno sforzo congiunto di tutti, altrimenti qualsiasi cosa possa fare Cloud non sarà mai abbastanza.

Ventiset- inciampa sulla corda, e barcolla in avanti, sbucciandosi un ginocchio prima di riuscire a rimettersi in piedi. Il sangue zampilla, indolenti gocce rosse che si radunano lentamente al centro della ragnatela rotta di fragili capillari, e lei si morde un labbro, una donna adulta con i capelli scuri, cerca di legarsi al dolore, al sangue, al proprio corpo.

Ricomincia lo schema, e allenta la presa su di noi, permettendoci di andarcene. Rimaniamo un momento (un muscolo nella mascella di Sephiroth si contrae, ma nessuno di noi due ha tendenze suicide abbastanza forti da chiedergli il perché), e la guardiamo ristabilire un ritmo di rovina.

Uno due tre quattro







NdT: Tifa, esisti, ti prego, ti voglio troppo bene ;_;
Non sono molto d’accordo sulla visione del rapporto Cloti, anche se quel pezzo l’ho trovato scritto e argomentato benissimo, di una dolcezza sconfinata e malinconica – d’altro canto questa storia parte dal gioco e guarda ad AC, quindi vabbè :)
Trovo anche che sia stata un po’ inclemente con Barret, non tanto perché ne ha sottolineato l’ipocrisia che gli viene rinfacciata apertamente pure nel gioco (una delle caratteristiche che costituiscono la grandezza di FFVII, imho), quanto perché io ho una visione del rapporto Barret/Cloud pressoché opposta a quella che è stata presentata qui – ma a ciascuno le sue interpretazioni, immagino.
Ci vediamo la settimana prossima, mi sono ricordata in calcio d’angolo che erano già passati sette giorni dallo scorso aggiornamento xD
   
 
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