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Autore: Main_Rouge    31/01/2011    0 recensioni
Originale in tre capitoli, drammatica, a tinte un po' noir.
estremamente introspettivo, il testo racconta uno scorcio della vita di Terrence Powell, professore americano dal passato tenebroso.
In fuga da se stesso, Terrence vive nel suo piccolo appartamento a Trenton, New Jersey, dove si è da poco trasferito. Qui incontrerà Jen...
fiction 3° classificata (umpf) al concorso "Specchio" di Mattichan
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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La sua mano ruvida si posò stanca su quella superficie così liscia, così fredda. Tremava, mentre pesantemente ansimava una fatica che non voleva più dover sopportare.
I suoi capelli umidi ondeggiavano lenti davanti agli occhi neri, segnati dalla fatica.
Con l’altra mano, si stringeva il cuore, nel disperato tentativo di placare la sua forza.
Fece scorrere a fatica il palmo rigido sullo specchio, lasciando opachi segni rossi. Con un guizzo, si stacco da quella lucente trappola di vetro.
Alzò lento gli occhi, mentre una smorfia di dolore andò a spezzare il suo viso diafano.
Era ancora lì.
-Oh, ma che scenetta divertente Terrence. Potresti fare l’attore; sei così naturale- disse una figura alta e fiera, che lo guardava con superiorità schiacciante.
Aveva un abito scuro da cerimonia, le maniche sporche di sangue scarlatto e un sorriso sprezzante.
-Che cosa vuoi ancora, mostro?- sibilò dolorosamente l’uomo accasciato –Perché continui a tormentarmi?-
-Cosa? Sarei io a tormentarti? Ma se sono anni che mi costringi a seguirti ogni giorno e ogni notte? Sei tu che tormenti me-. Un’espressione di ironica noia si impossessò della sua faccia giovane ed altezzosa.
Con estrema fatica, Terrence appoggiò ancora le mani sullo specchio, e con la loro scia sanguigna coprì il suo opprimente interlocutore.
-Chi ti ha mai chiesto niente- fece arcigno al vetro.
-Sei stato tu, non ricordi?-.
Una voce calma, moderata, padrona, lo apostrofò alle sue spalle.
Sentì i suoi passi avvicinarsi a lui, ma non aveva più la forza di opporsi a quel mostro in borghese.
Due mani forti afferrarono Terrence per le spalle, e con un gesto rapido lo fecero girare su se stesso, fino a portarlo con la schiena rivolta allo specchio.
-No, non ricordo di aver comprato lo specchio di Biancaneve-.
Una risata folle gli si ruppe in gola mentre, con gli occhi rossi e traboccanti di furia, quell’uomo gli strinse la gola.
-Vedo che hai ancora voglia di scherzare- disse avvicinandosi pericolosamente al suo viso, per fissarlo negli occhi –Ma in te non sento la forza necessaria a scacciarmi. Sento rabbia, paura. Sento disperazione ed una vita che non aspetta che di spegnersi-.
Strinse ulteriormente le sue forti mani intorno al collo di Terrence, mentre tastava avido la carne morbida che proteggeva la sua fragile gola.
Con i pollici, puntò con forza sotto la mascella del suo perseguitato, costringendolo ad alzare la testa e a rantolare la sua debolezza.
-Come dici? Vuoi che ti lasci andare? Beh, se me lo chiedi con tanta gentilezza…-.
E gradualmente mollò la presa sul collo ormai tinto di rosso della sua controparte, agonizzante.
Appena libero dalla morsa, Terrence cercò con foga il pavimento da cui era stato così brutalmente staccato, ma non lo trovò.
Iniziò a precipitare senza controllo, mentre lacrime di sangue gli piovevano dallo sfondo nero che gli faceva da cielo e da orizzonte. Cadde per molto tempo, arrancando nel vuoto alla ricerca di un invisibile appiglio, ma tutto ciò che trovò alla fine della sua corse nel cielo fu una larga pozzanghera rossa, in cui affondò completamente. Tentò di tornare a galla, ma, raggiunta la superficie, trovò solo una spessa parete gelida, oltre la quale lo guardava torvo il mostro.
-Allora, professore, come ci si sente dall’altra parte?- disse graffiando la parete di vetro sporco con lunghe unghie animali.
Terrence batté i pugni su quella lastra di pesante ghiaccio, ma i suoi colpi erano deboli, e il rumore che producevano ovattato.
-Io non sprecherei le mie forze così, amico mio- lo apostrofò il Terrence in borghese schiacciando il volto, infiammato dall’eccitazione, sullo specchio –perché lì dentro, c’è tutta l’oscurità del tuo cuore-.
Lentamente, un lungo tentacolo nero uscì dall’oscurità che inondava gli abissi di quel mare di sangue; afferrò Terrence ed iniziò a tirarlo in profondità. L’uomo, nel panico, iniziò a contorcersi per liberarsi da quella morsa, ma riuscì a resistere solo quel poco tempo in cui il suo riflesso incise poche parole con le unghie sulla fredda e liscia superficie che li divideva.
Mi hai molto deluso.
E mentre il professore veniva ingoiato dalle tenebre, una risata convulsa si insinuò, violenta, nella sua testa.

Una goccia di gelido terrore gli scivolò lungo la fronte mentre, nel buio della sua stanza, Terrence apriva impassibile gli occhi. Un altro incubo.
Si mise a sedere, passandosi una mano tra i capelli appena sudati. Per quanto avrebbe resistito? Si alzò in piedi, prese una sigaretta sottile dalla tasca della giacca e, con fare indolente, la accese per succhiarne il dolce aroma pungente.
Dopo una prima ampia, intensa boccata, alzò lo sguardo, fissandolo sulla porta scura del ripostiglio.
Aveva acquistato quell’appartamento pochi anni prima, quando si era trasferito nel New Jersey. Era piccolo, disadorno, ma accogliente in fondo. Inoltre, solo lì dentro riusciva a distogliere la sua mente dagli incubi che, come squali voraci, lo attaccavano dai più remoti abissi del suo pensiero.
Ma in quell’armadio, c’era ciò che ogni giorno lo costringeva a ricordare, ciò che per il resto della sua vita gli avrebbe scoperto il marchio del peccatore che, ardente, cercava di nascondere alla vista del mondo.
In un certo senso, non avrebbe potuto fare a meno di quello specchio. Non voleva chiudere quei pensieri sciagurati in un piccolo cassetto della sua memoria, per poi perderne la chiave; non sarebbe stato giusto.
Ma nessun altro avrebbe dovuto impossessarsi del suo segreto.
Oltre quella sottile ed insignificante porta, c’era un grande specchio, rinchiuso da molto tempo.
Ma nonostante fosse segregato, Terrence sentiva gli occhi di ghiaccio del suo riflesso addosso.
Sapeva che, nonostante in quel momento fosse sveglio, l’incubo non era finito, e non lo sarebbe stato mai.
Avvertiva chiaramente che quel mostro era ancora lì.

-Hey, ciao Lily, come sono andate le tue vacanze?-
-Oh, Sam, ciao, quanto tempo! Tutto bene, mi sono divertita tantissimo, e tu?-
-Oh, sai, un po’ di mare, un po’ di montagna. In ogni modo, sto cercando Jen, l’hai vista per caso?-
-No, credo non sia ancora arrivata-.
Samantha; un metro e settanta scarso, capelli biondi come il grano.
Iniziò a scrutare la folla di studenti che, come ogni anno, al richiamo della campanella si presentavano sull’attenti davanti alle molte scuole di Trenton.
Con lo sguardo attento ed un’espressione insoddisfatta, vagava tra i jeans attillati e i corpi abbronzati dei liceali, ancora fermi, nel pensiero, alle vacanze.
D’improvviso, vide nella folla una piccola ragazza che, con fare calmo e lo sguardo basso, si avviava verso l’entrata del Columbus, il più grande istituto scientifico della città.
-Ah, eccola! Jen! Jennifer! Vieni qui musona!- disse scherzosamente l’amica.
Jennifer aveva lunghi capelli rosso fuoco, di solito lasciati sciolti, la pelle chiara e qualche sparuta lentiggine ad ingraziosirle il viso.
Gli occhi nocciola, di solito scattanti ed espressivi, erano quel giorno spenti, senza vita.
Sentita la voce della ragazza, Jen forzò un sorriso e le andò incontro.
Indossava una maglietta nera aderente a maniche lunghe, per combattere il freddo dell’autunno, su cui si appoggiava delicata una giacca color panna con il cappuccio. Sulle gambe, stringevano appena dei leggins scuri con sopra disegnato un artistico motivo floreale grigio chiaro. Nella zona del bacino, danzava all’ondeggiare dei suoi fianchi sottili una gonna di jeans appena abbastanza lunga da staccare di cinque centimetri il ginocchio.
Le ballerine scure che aveva i piedi completavano un abbigliamento curato, ma abbastanza anonimo. Era chiaro che non volesse dar troppo nell’occhio quel giorno.
-Ma come ti sei vestita?- chiese divertita la bionda –Così rischi di congelare. Non hai freddo?-.
Ma lei non sentiva il malizioso soffio dell’autunno. Non sentiva niente.
Ma non voleva turbare le sue amiche inutilmente.
Si limitò a ricacciare la tristezza fin nel suo cuore, e a sfoderare un sorriso abbastanza convincente.
-No, affatto-.
La sua voce, così dolce e musicale, non tradì alcuna angoscia.
-Anzi, sto davvero bene adesso. Piuttosto, dovete raccontarmi cosa avete fatto durante le vacanze estive-
-Certo certo. Ora però sarà meglio sbrigarci, le lezioni stanno per cominciare-
-Già. Uffa! Non posso pensare che mi aspetti un intero anno di scuola-
-Su, su, se la prendi in allegria, vedrai che non ti sembrerà nemmeno di essere a scuola-.
In quel momento, Emily e Samantha, distratte, andarono a sbattere contro un’alto uomo vestito in maniera elegante, ma semplice.
Dopo un attimo di confusione, le ragazze si ricomposero e, impacciate per l’imbarazzo, si scusarono con l’uomo.
-Non c’è problema ragazze. Solo, cercate di stare più attente quando camminate-.
Jennifer, dopo aver aiutato le amiche a rimettersi in piedi, iniziò a guardare il volto di quel signore così gentile.
Non si poteva certo dire che fosse brutto: naso aquilino, mento appena definito, un’ombra di barba.
Gli occhiali leggeri coprivano dei profondi occhi neri, ora chiusi in un sorriso rassicurante. I suoi capelli neri pettinati all’indietro gli davano un certa parvenza di classe. Avrebbe dovuto essere appena sulla quarantina, anche se dimostrava qualcuno in meno.
-Ah, visto che ci sono, vi dispiacerebbe dirmi come raggiungere la sala insegnanti? Sono nuovo in questa scuola, e ho paura di tardare già il primo giorno-
-Quindi, lei è un nuovo professore- asserì impassibile la rossa –e mi dica, come si chiama?-
-Ah, certo, che stupido. Il mio nome è Terrence, Terrence Powell. E lei, signorina?-
-Jennifer Thompson, molto piacere-.
Davanti al sorriso triste dell’uomo, Jen non riuscì a trattenere il suo broncio, e si lasciò andare ad un sorriso tirato mentre gli porgeva la mano.
-Piacere mio-.
La mano della rossa era morbida e delicata, anche se un po’ fredda.
-Ah, scusatemi ragazze- disse guardando l’orologio, scopertosi durante le presentazioni –ma ora devo proprio andare. Troverò da solo la sala insegnanti. Ci vediamo a scuola, a presto-.
E prima che le scolare avessero il tempo di replicare, Terrence era fuggito nella chiassosa folla di alunni.

-Ehi, avete sentito? Sembra che la professoressa Campbell sia tornata in Inghilterra-
-Cosa? E perché?-
-Questioni familiari credo, ma hanno detto che non la rivedremo per un po’ di tempo-
-Peccato. E si sa già chi la sostituirà?-
-Pare che avremo un…-.
Mentre gli studenti della seconda sezione del terzo anno discutevano, la porta si aprì.
In un attimo, un uomo sulla trentina entrò nella vasta e linda aula, salutando tutti i suoi neo-studenti con un sorriso plastico.
-Buongiorno ragazzi- disse il professore sedendosi dietro la sua nuova cattedra, sbuffando appena –scusate il ritardo, ma mi sono perso nei corridoi. Questa scuola è davvero enorme, non trovate?-.
Nell’ultimo banco, tre ragazze discutevano sottovoce senza badare il nuovo arrivato. Nulla era più importante di sapere ciò che le compagne avevano fatto in vacanza.
E così, non si accorsero che il giovane insegnante le stava fissando da qualche minuto.
-Ah, le chiacchierone dell’entrata. Come state ragazze? Volete che vi porti qualcosa, un caffè e un paio di brioches, magari?-.
Dagli alunni si alzò un basso brusio divertito.
Jennifer si alzò prontamente in piedi, senza perdere la calma.
-Ci scusi professore, non l’avevamo sentita entrare-.
Terrence la studiò per un attimo prima di rispondere.
-Non fa niente, ma ora state attente. Almeno datemi il tempo di presentarmi-.
Un sorriso pacato, da genitore comprensivo, distese le sue labbra bianche.
La ragazza, non potè che annuire e rimettersi a sedere, mentre la voce ruvida e calda dell’uomo iniziava a riempire l’aula.
-Allora ragazzi, prima dell’appello, mi sembra doveroso presentarmi. Io mi chiamo Terrence Powell, insegnante di lingua, storia e filosofia. Fino all’anno scorso, insegnavo alla Jefferson, una scuola media appena fuori dal centro che credo conosciate. Vista la partenza della professoressa Campbell, sono stato chiamato a seguirvi per i prossimi mesi.
Ci sono domande?-.
Nessuna risposta.
-Beh, allora credo che inizierò con l’appello.
Adams?-
-Presente-
-Brown?-
-Presente-

Dopo un’estenuante lezione in cui fu costretto a controllare i lavori estivi che la professoressa che aveva sostituito aveva assegnato, Terrence lasciò andare gli studenti a ricreazione.
Proprio mentre stava uscendo, però, fermò una di loro.
-Thompson, hai un momento per favore?-
La ragazza rimase per un attimo titubante, ma subito, salutati gli amici, tornò verso la cattedra.
-Si? Mi dica-.
Terrence non disse niente, ma andò con decisione ad aprire una delle finestre dell’aula. Quindi, dopo essersi fermato per un secondo ad ammirare il sole, tirò fuori dalla tasca della giacca un pacchetto di sigaretta e, messane una in bocca, la accese, e ne aspirò un intenso alito pungente.
-Non volevo turbare i tuoi compagni di classe né metterti in imbarazzo, quindi ho preferito aspettare la fine delle lezioni. Il preside mi ha informato della recente morte di tua madre, quindi volevo esprimerti le mie più sincere condoglianze-.
La ragazza abbassò lo sguardo, stupita e al contempo amareggiata.
Odiava essere compatita a quel modo.
-Volevo parlarti perché sei molto giovane, e visto che tuo padre è ancora vivo, non credo tu abbia mai dovuto tenere il lutto per una persona così vicina a te- fece una pausa per una nuova boccata di tabacco –quindi ci tenevo a rassicurarti. Il dolore non passa mai del tutto, non sarebbe giusto nei confronti dei defunti, ma dopo un po’ si attenua-.
Non la guardò mai in volto mentre parlava.
Ma a quelle ultime parole, Jennifer sentì il bisogno di guardarlo negli occhi. Cosa provava lui dicendole una cosa del genere? Rimase in attesa di uno sguardo, di un fiato che le permettesse di arrivare al suo livello, parlargli da pari. Ma era impossibile, lo sapeva. Quel sorriso triste che aveva visto in entrata gliel’aveva già fatto intuire. Terrence aveva chiuso dentro di se qualcosa, un sentimento, un’emozione, un ricordo che spingeva per uscire allo scoperto.
Ma finchè fosse riuscito a tenerlo per se, non sarebbe mai stato debole abbastanza da permetterle di capirlo.
Ma in fondo, si chiedeva, perché tanta curiosità? Come mai quello sconosciuto le destava tanto interesse? Chi era davvero Terrence Powell?
Persa in questi dedali, Jen non si rese conto del suono della campanella che sanciva la fine dell’intervallo.
Quando i suoi compagni tornarono in aula, anche lei si avvio verso il suo banco.
Fece appena in tempo a vedere, con la coda dell’occhio, il professore che usciva dall’aula per far posto alla signorina Taylor, insegnante di matematica.
  
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