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Autore: Beatrix Bonnie    01/02/2011    3 recensioni
Firenze, 1488. Una giovane ragazza di nobile famiglia, scappata di casa, si ritroverà coinvolta nella ricerca di un libro di preghiere, il Libro delle Ore, lasciatole da sua cugina sul letto di morte. Ma forse tutta quella storia nasconde qualcosa di più... con l'aiuto del suo ingegno e di un ragazzino brillante, costretto dal padre alla carriera ecclesiastica, riuscirà a risolvere il mistero?
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Historia docet'
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La morte di Clarice




Non sapeva esattamente cosa l’avesse condotta nuovamente in quella città. Firenze non le era mai piaciuta tanto, soprattutto perché era troppo caotica per i suoi gusti, lei abituata alla campagna tranquilla. Certo, cerano dei vantaggi anche a stare in città. Per esempio, nessuno badava a lei quando passava per le strade affollate e le numerose locande erano un ottimo posto per nascondersi tra la folla.

La porta si aprì ed entrò una folata di vento che la fece rabbrividire, strappandola dai suoi pensieri. Odiava i tavoli vicino all’uscita, ma non era rimasto che quello. Il chiacchiericcio confuso della locanda aumentò di volume quando l’oste servì da bere ai soldati appoggiati al bancone. Caterina alzò leggermente la testa, ma nessuno la stava guardando. Meglio. Significava che nessuno le avrebbe rivolto la parola. Abbassò gli occhi e finì l’ultimo goccio di birra che era rimasto nel boccale. Avrebbe voluto ordinarne ancora ma c’era troppa confusione vicino al banco e ciò significava attirare l’attenzione su di sé. L’ultima cosa che voleva.

Quasi per caso, le arrivò alle orecchie uno straccio di conversazione. «L’hai sentito anche tu?» stava dicendo uno dei soldati. L’altro, troppo ubriaco per parlare, annuì. «Cosa?» domandò un terzo. Il soldato si avvicinò agli altri due come per rivelare un segreto, ma le orecchie allenate di Caterina catturarono ogni parola. «La moglie di de' Medici sta morendo.»

«Chi, Clarice Orsini?» chiese ad alta voce l’interlocutore. «Ssh!» fece il primo. «È un informazione riservata!»

Caterina sentì una stretta al cuore. Ora se lo ricordava il motivo per cui era andata a Firenze. Qualcosa l’aveva spinta a recarsi fin là e quel qualcosa non poteva essere altro che il legame che la univa in maniera indissolubile con Clarice. Clarice, la sua amata cugina, la sua amica d’infanzia. Si morse il labbro per evitare di piangere. Non doveva attirare l’attenzione. E piangere non era il modo migliore per farlo. Involontariamente tese ancora le orecchie per saperne di più sulla malattia della sua amata cugina. «Me l’ha detto quella mia amica che conosce la sorella di una donna che lavora a palazzo. Dice che la signora non fa altro che ripetere un nome.» Fece una pausa per accrescere l’interesse dei suoi ascoltatori. «Quale nome?» domandò uno dei due, corroso dalla curiosità. Il soldato abbassò ancora di più la voce e disse quasi in un sussurro: «Caterina.»

Quelle parole le fecero gelare il sangue. Sua cugina la stava davvero cercando? Perché mai avrebbe dovuto? Era quasi un anno che non su vedevano più, ormai. Voleva darle l’ultimo saluto?

Prima che altre parole del soldato arrivassero alle sue orecchie, si alzò dal tavolo e uscì in strada. Il freddo pungente di inizio febbraio la colpì in faccia. No. Non sarebbe andata da Clarice. Non poteva permettersi di mandare a monte il suo piano. Non doveva essere riconosciuta da nessuno.

Eppure, forse, la cugina voleva rappacificarsi con lei, in modo da lasciare questo mondo nella pace di Iddio. Caterina si morse un labbro. Si maledisse infinite volte per aver preso quella decisione, ma se Clarice voleva vederla, doveva esserci un motivo veramente importante.

Percorse in silenzio la strada che la separava da Palazzo Pitti, avvolta nel suo mantello scuro per ripararsi dal freddo. Come si era immaginata, all’ingresso stavano alcune guardie a vigilare. Era vero, aveva scelto di andare da Clarice, ma avrebbe sollevato meno polvere possibile. Silenziosa come un soffio di vento, entrò attraverso l'entrata secondaria sul lato destro, quella che dava accesso ai giardini, senza che nessuno si accorgesse di nulla. Protetta dalle ombre scure della notte, entrò nel palazzo e attraversò stanze enormi e corridoi affrescati, fino a giungere a uno dei saloni principali, dal quale provenivano delle voci. Si intromise silenziosamente nella stanza: c’erano alcune guardie che circondavano un uomo di spalle. Stavano discutendo di qualcosa a voce troppo bassa perché Caterina potesse sentirli. Poi, l’uomo congedò le guardie per rimanere solo nella stanza. O così credeva.

Caterina scivolò silenziosamente fuori dal suo nascondiglio, fino a trovarsi alle spalle dell’uomo, che camminava per la stanza a capo chino e con l’aria pensierosa. Caterina allungò una mano e sfiorò la spalla dell’altro, che si girò di scatto portando le mani sull’elsa del pugnale che aveva alla cintura.

«Calmatevi, Lorenzo. Sono io.»

Il volto dell’uomo si rilassò leggermente. «Caterina Orsini? Siete voi?» Lei fece un cenno del capo e l’uomo mise via il coltello. Eccolo lì. Aveva di fronte Lorenzo de’ Medici, signore di Firenze, mecenate di tutti gli artisti, cultore di ogni arte, dalla filosofia alla scienza, e marito di sua cugina Clarice. Aveva le occhiaie scure, il volto stanco e incavato, le braccia abbandonate luogo il corpo in segno di disperazione. Caterina si levò il cappuccio e sorrise a mo’ di consolazione. «Come sta Clarice?» Lorenzo fece un sorriso tirato che evidenziò ancora di più le occhiaie. «Seguitemi. Desidera vedervi.»

La stanza era illuminata solo da un piccolo candelabro in un angolo. Il letto a baldacchino occupava il centro e la luce debole delle candele gli gettava addosso starne ombre. Caterina si avvicinò lentamente. La prima cosa che riconobbe furono i suoi capelli corvini sparsi sul cuscino. Aveva gli occhi chiusi; la pelle, candida più di quanto non fosse di solito, era ricoperta di minuscole goccioline di sudore. Un nodo alla gola le impedì di pronunciare qualsiasi parola. Rimase solo ad osservare la sua amica, così immobile e pallida da sembrare una bambola di porcellana. Una lacrima le scese lungo la guancia e, solitaria, cadde a terra. Clarice sbatté le palpebre più volte e infine aprì gli occhi. Un espressione beata le si dipinse sul volto.

«Caterina…» sussurrò debolmente. La giovane si avvicinò e le mise una mano sulle labbra. «Non parlare che ti affatichi.» Ma Clarice scosse la testa. Stava per dire qualcos’altro ma fu bloccata da un colpo di tosse violento. La camicia da notte si sporcò di sangue. «Caterina, ascolta…»

«No, ti prego. Non parlare!»

«No, ti prego io, ascoltami. Il Libro delle Ore. L’ho nascosto in un posto sicuro e tu lo devi recuperare. Il cassetto, guarda nel cassetto.»

Caterina eseguì l’ordine senza capire di cosa stesse parlando la cugina. Ormai non riusciva più a trattenere le lacrime che le rigavano copiose il viso. Nel cassetto trovò un foglio piegato a metà e lo porse a Clarice. Quando quella le vide il volto, le disse: «Non piangere sciocca. Io sto benissimo!» Un altro colpo di tosse, altro sangue. Clarice osservò un attimo il foglio e poi lo restituì alla cugina. «Questo devi tenerlo tu, ma non aprirlo adesso.»

Clarice fu scossa da violenti spasimi e potenti colpi di tosse. Caterina, impaurita, indietreggiò e osservò la cugina contorcersi nel letto. «Mio signore! Lorenzo!» urlò con quanto fiato aveva in gola. Poco dopo sopraggiunse il marito, il volto teso in una maschera di terrore. Afferrò la mano cadaverica della sposa e la stinse tra le sue. «Clarice, Clarice…» ripeteva come in una cantilena ossessiva baciando ripetutamente la mano sottile di lei. Un altro violento colpo di tosse, poi più nulla. Lorenzo, inginocchiato al lato del letto, non smise di baciare la mano dell’amata sposa, le lacrime che gli scendevano lungo il volto. Caterina, lontana da quella scena straziante, piangeva in silenzio appoggiata al muro della stanza. Rimasero in quella posizione per qualche minuto, o forse per ore finché non entrarono le ancelle e si accorsero che la loro signora era morta. Allora accadde il finimondo. Caterina perse la cognizione di quello che stava succedendo intorno a lei. Sentì solo delle mani che la afferrarono e la portarono in un’altra stanza dove fu abbandonata per un tempo incalcolabile, forse dimenticata, fino a quando entrò qualcuno che la condusse al cospetto di Lorenzo de’ Medici.

Aveva pianto a lungo e si vedeva. Gli occhi gonfi e arrossati chiedevano solamente una tregua da tutte quelle sofferenze. «Vi prego, Caterina. Voi siete l’ultima alla quale Clarice ha parlato. Cosa vi ha detto?» La giovane scosse la testa. «Nulla di importante. Farneticazioni… e qualcosa su un certo Libro delle Ore.» Lorenzo sembrò incupirsi un attimo. «Cos’è, mio signore?» chiese Caterina incuriosita. «Come dite voi, nulla di importante. È un libro scritto in oro su carta azzurra che fu regalato a Clarice come dono di nozze da Giovanni Becchi.» rimase un attimo in silenzio poi aggiunse: «Siete licenziata, potete andare.» Caterina chinò il capo e fece per andarsene, quando si girò di scatto e, fissando Lorenzo negli occhi, disse: «Io non sono mai stata qui, chiaro?»

Prima di voltarsi, catturò con la coda dell’occhio un suo cenno d’assenso del capo.



Ecco qui, come promesso, una nuova storia facente parte della raccolta “Historia docet”. Questo racconto l'ho scritto quasi cinque anni fa, quindi siate indulgenti! Gli ho dato una veloce sistemata, poi ho deciso che valeva la pena di pubblicarlo. È il mio primo racconto serio di ambientazione storica, e mi ricordo che passai giornate intere a documentarmi per renderlo credibile. Spero che il primo capitolo vi abbia incuriosito. Tendenzialmente aggiornerò una volta alla settimana, di martedì.

Alla prossima,

Beatirx

   
 
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