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Autore: LesFleurDuMal    02/02/2011    0 recensioni
Tre vite che si raccontano, a vicenda. Tre nomi che si inseguono nel corso di una storia che deve ancora nascere. Un Segreto, un tradimento, un romanzo che sa di confessione e le verità dell'Ermete Trismegisto.
C’era il segno nel cielo quella notte ed io lo sentivo sulle mani, sulla fronte, sul cuore… mi pulsava in gola graffiante come la polvere. Era fumo, aspro e rovente. Era un taglio sulla tela in cui dipingevamo insieme il mondo. C’era il segno nel cielo e lo sapevano le quattro Torri quando sono arrivato in quella via stretta che portava alle stelle. Lo sapevi anche tu.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Introduzione

Questa storia nasce dalla necessità che, qualche tempo fa ho avuto, di mettere nero su bianco emozioni e sensazioni che ho provato in modo confuso in quel momento. Non sono sicura che tutto quello che scriverò risulterà chiaro a quanti avranno la pazienza di leggermi; in parte per la limpidezza con cui ho messo me stessa in queste pagine (che risulta sempre quantomeno opaca a chi legge senza conoscere chi scrive), in parte perchè nel corso della storia ci saranno frequenti (credo di si) riferimenti di tipo alchemico.
Sarò in ogni caso pronta a spiegare in nota il significato di tali riferimenti per chi di voi volesse scendere nel dettaglio a sondare i miei pensieri.
Qualcuno, poco fa, mi ha detto che "una storia non deve sempre capirsi", ed è a queste paroline che devo la scelta, infine, di aver pubblicato qui la prima parte di questa sorta di contorto diario a cui ho dato inizio in un periodo particolare della mia vita e quindi colgo l'occasione, in queste poche righe, per ringraziare questa persona. La ringrazio per avermi buttato addosso un po' di luce, senza neanche saperlo, forse. Non ne cito il nome perchè, infondo, credo che si sentirebbe troppo toccata e forse non le piacerebbe, ma lei sa di essere questa persona a cui spero piacerà quel che leggerà.
Questo scritto resta tuttavia, nella sua totalità, dedicato a Benedetta Carla Maria Luigia Dall'Olio, che non ha neanche la più vaga idea di quanto sia stata e sia tutt'ora per me importante

Capitolo Primo
 
-Lettera Aperta ad un Amore Antico-
Capitolo Primo
 
                                                                            «Quotation»
-Auctor: From-
 
Sono passati quasi diciannove anni e non è cambiato niente qui, è tutto così uguale che mentre ieri tornavo a piedi dalla stazione verso casa e respiravo l’aria di quei cantieri aperti già da prima che partissi, con il loro odore di mattoni arrostiti al sole e la polvere di intonaco che si attacca alle dita e le irruvidisce, mentre facevo su e giù sugli alti e bassi delle colline su cui questo paesino è arroccato mi è sembrato di avere diciannove anni di meno e una tracolla sulla spalla con dentro le ansie dell’esame di stato. Ne ho sorriso, è surreale. In realtà quella tracolla sulla spalla ce l’avevo, ma dentro ci sono: un inglese migliore, ricordi in cartolina, una laurea, un paio di storie importanti, una patente, qualche busta paga, tante cose da dire e poco tempo per farlo. Ci sono dentro pressappoco diciannove anni di vita nella forma in cui diciannove anni di vita possono essere materiali, certe cose, però non si possono mettere in borsa.
Perché sono tornata? Non lo so.  Resterò? Non lo so.
Partire è un po’ morire, dicono. Tornare a casa è un po’ cosa? Mi è bastato mettere la punta del piede sul tappeto prezioso oltraggiato dalla polvere nella nostra stanza da letto, per vederlo lì. Lui è sempre lì, nella stessa posa sulla sedia accanto al letto, con lo stesso sorriso arrogante che gli è valso uno schiaffo dalle mie mani, ancora di bimba. Lui e quelle sue labbra disegnate che sapevano di tabacco.
Il letto è sfatto, come se ci avessi dormito questa notte; il disordine regna sovrano, come se qualcuno qui avesse vissuto, ma in realtà qui non ci entra più nessuno da quasi diciannove anni e il tempo sembra essersi fermato intrappolato in una prigione di cristallo che profuma di lui e delle sue strane manie, che canta il nome che io non ho più avuto la forza di pronunciare ad alta voce, ma lo porto ancora sulle labbra, come l’inverno, anche il più freddo, porta con sé sempre la promessa di una primavera, quale che sia. Che cosa ho fatto in tutto questo tempo? Sono sparita dal mondo, mi sono chiusa in varie me, ho indossato maschere e qualche volta struccato il volto per mostrarlo a chi non mi ha chiesto di vederlo: graziosa consapevolezza e dolore composto, hanno detto. Ho viaggiato. Per qualche tempo ho cercato una risposta e poi quando ho cominciato ad intravederla da lontano ne ho avuto paura, allora ho smesso di pormi la domanda…


***
Per l’ormai ennesima volta in vita sua Rebecca Redaelli, confusa diciottenne dall’aria distratta e il profondo interesse per ciò che, infondo, non ha alcuna utilità -O almeno così dicono- stava tentando di scrivere un romanzo. La sua era una missione di vita che regolarmente, di tre mesi in tre mesi, reiterava senza successo. Abbastanza testarda da non arrendersi aveva deciso che quella, forse, sarebbe stata la volta buona, come lo erano state le altre trenta precedenti. Seduta comodamente nel suo angolo di camera scriveva rapidamente martoriando la tastiera del computer e lasciando che il suo sguardo occhialuto seguisse le lettere che, come per magia, comparivano su quel monitor pieno di ditate e decorato o rovinato, a seconda dei punti di vista, da frasi di canzoni che nella sua infanzia aveva amato e perdurava nell’amare. Le aveva scritte con un pennarello indelebile, ma il tempo non aveva avuto rispetto neppure dell’autorità che l’aggettivo “indelebile” gli conferiva e con assoluta noncuranza le aveva lentamente sbiadite benché fossero ancora abbastanza leggibili da far intuire quali fossero state le parole originarie, o forse Rebecca le conosceva talmente bene che non aveva bisogno di leggerle per sapere cosa ci fosse scritto.
Dopo aver pigiato un tasto della sua tastiera vecchiotta e rovinata, inserendo un punto fermo nel susseguirsi di parole del suo romanzo, guardò il monitor con una certa soddisfazione quasi che quel punto segnasse una svolta di particolare peso nel suo scritto. Si levò gli occhiali con un gesto semplice e disinvolto che rivelava la sua abitudinarietà e li ripulì grossolanamente nel cotone della canottiera azzurra e verde che indossava, intonata ai pantaloni; nel farlo si passò la lingua sulle labbra scrutando avanti a sé quella luce azzurra, bianca e nera trasmessa dallo schermo del PC che le parve fosca, ovattata e lontana, priva di una forma e di un ordine senza l’ausilio dei suoi amati occhiali da maestrina schiacciati sul naso.
Rebecca porta gli occhiali, anche in quest’era in cui le lenti ormai sono solo a contatto. Porta gli occhiali e li indossa con un certo orgoglio sostenuto anche dall’abitudine: è talmente abituata a indossarli, infatti, che si dimentica di averli addosso, non li toglie neppure quando si spoglia o fa la doccia (almeno fino a che le gocce d’acqua che impattano sul vetro delle lenti non le suggeriscono che è arrivato il momento di separarsene per una mezz’ora).
Non è proprio facile descrivere una persona che neppure ti guarda in faccia, anche quando la conosci a menadito, pertanto al momento preferisco parlarvi di ciò che vede lei mentre scrive. E’ seduta alla sua scrivania un po’ troppo piccolina per ospitare tutte quelle cose che, in effetti, ospita, tanto piccola che presumibilmente rientra completamente nel campo visivo della nostra scrittrice alle prime armi, anche quella fastidiosa lucina che indica che le casse sono accese, chissà perché poi, dal momento che non sta neppure ascoltando musica cosa che, chi la conosce bene sa, mentre scrive fa spesso.
Alla sua sinistra, appena accanto alla tastiera sono impilati diversi CD, un corso di inglese per principianti che avrà si e no usato un paio di volte, ma che si ostina a tenere sulla scrivania elogiandone giustamente l’utilità che scioccamente non sfrutta. Non le farebbe certo male usare un po’ più del suo tempo per studiare, soprattutto ora che Agosto è agli sgoccioli e l’apertura del nuovo anno scolastico inizia già a salutarla con un certo calore, per modo di dire, si intende. Come può un nuovo anno di scuola salutare con calore? Saluta con speranze, con sadismo, con curiosità e con… l’Everest di compiti a casa e il Deserto dei Tartari di nozioni apprese e come ovvia conseguenza seppellite sotto tonnellate di “cultura”. Sì, lo ammetto, sto un po’ esagerando, se vogliamo dirla tutta, infatti, Rebecca, fin da bambina, ha sempre amato lo studio, soprattutto delle materie letterarie e questo non ha fatto altro che alimentare quell’insana passione per la scrittura che la porta oggi a tentare, per l’ennesima volta, di scrivere un romanzo: il suo sogno più grande.
In effetti, Rebecca è un personaggio curioso: una ragazza non troppo carina con qualche kilogrammo in eccesso e qualche centimetro in difetto. Abbiamo già detto che porta gli occhiali e ha occhi non troppo grandi ma di un colore stupendo, benché sembri non apprezzarli particolarmente, non si può neppure stabilire con esattezza di che colore siano: tra il castano e il verde l’iride è screziata di pagliuzze dorate e circondata da una corona di un azzurro spento che riassume in sé quella tavolozza con la discrezione della bellezza muta. I capelli mossi, lunghi fin oltre metà schiena, sono di un castano scuro a tratti rossiccio, retaggio di antichi colpi di sole rossi che con il tempo hanno perso la loro vitalità sfumandosi nel castano naturale e conferendo qua a là alla chioma un tocco di indecisione. Il naso è regolare con una piccola cunetta sulla quale posa gli occhiali, le labbra rosee sono di solito mordicchiate o screpolate dal freddo o dal nervoso e le guance paffute e colorite sono ornate di lentiggini nel modo completamente privo di logica che le lentiggini hanno di posarsi su un volto. Ciò di cui non manca assolutamente sono i nei: ne ha talmente tanti e sparsi per tutto il corpo che ci si potrebbe giocare una partita a “unisci i puntini”; qualcuno dei suoi amici l’ha fatto con l’aiuto di una matita nera per gli occhi. Era stato divertente. Le sopracciglia sono scure e abbastanza marcate cosa che la contraria oltremodo da sempre e contro cui lotta costantemente sfoltendole molto spesso con l’ausilio di pinzette e all’occorrenza di ciò che trova. E’ una ragazza che qualcuno ha osato definire giunonica, molto simile a sua madre almeno nei lineamenti del volto, ma dal momento che Giunone non le è molto simpatica lei preferisce, se proprio deve associarsi a una divinità dell’Olimpo, pensarsi come Latona: madre del Sole e della Luna. Doveva pur essere una gran donna la madre dei due astri più importanti del nostro cielo, no? E C’è un che di tragicamente ironico in questo fatto.
Rebecca in questo momento è perfetta nella sua camera, forse per il suo vestiario verdazzurro che richiama la colorazione delle pareti della stanza da letto, spugnate da lei stessa qualche estate prima in verdino e in azzurro, il verde per la sua metà di stanza l’azzurro per la metà di suo fratello. A un occhio attento come il mio, che sono qui per essere anche i tuoi occhi, la metà azzurra della camera appare terribilmente spoglia; anche il letto non può neppure più chiamarsi tale: ne restano solo una rete di doghe in legno e un materasso. Per essere il più chiaro possibile, lettore, ti dirò che la divisione dei colori sulle pareti della camera non è sufficientemente marcata per differenziare i due spazi poiché, per una scelta che premia il gusto estetico della nostra Rebecca, la linea di divisione scelta è trasversale e a marcare veramente la divisione della stanza è una scrivania bianca sistemata esattamente nel punto dove la linea trasversale s’interrompe sul pavimento. Quella scrivania bianca un tempo era appartenuta al fratello di Rebecca. Già un tempo…
Dire “Un tempo” fa sembrare che ne sia passato chissà quanto, in verità il fu-letto la scrivania e l’armadio erano stati svuotati soltanto una settimana prima, quando suo fratello e sua madre erano partiti, solo una settimana che Rebecca sapeva, tuttavia, si sarebbe allungata fino a diventare, forse, una vita intera. Questo mi sembra sufficiente per avere l’autorità di dire “un tempo..” nella mia narrazione, lettore, a te no? Non dovresti essere così pedante, dopotutto anche Rebecca sta accettando in silenzio le mie decisioni, ed è certamente più coinvolta di te in tutto questo.  Si si, va bene, torniamo a noi. Perché Giorgio e Cristina erano partiti? Per quanto fosse difficile affrontarlo per lei i genitori di Rebecca si stavano separando e fin qui poco male, ben diversa era la questione che i due si fossero appena trasferiti così lontano da lei. Principalmente era Giorgio a far sentire la sua mancanza perché lui è una vera forza della natura e quando c’è è impossibile non notarlo e per il suo iperattivismo e per il chiasso che è in grado di produrre anche solo per alzarsi da una sedia, il silenzio rendeva quasi palpabile la sua assenza. Rebecca non avrebbe mai ammesso ad alta voce quanto le mancasse quello scricciolo alto quasi quanto lei e dalla stazza temibile quanto quella di uno stuzzicadenti, per orgoglio o stupidità non è dato saperlo, ma anche dietro quella placida tranquillità che la caratterizzava comunemente, odiava dover pensare a suo fratello così lontano per quanto lui fosse in grado di mandarla fuori dai gangheri costantemente.
Vivere da sola con suo padre non era troppo male, pensava Rebecca, se non fosse stato per la difficoltà di separarsi da quella tanto detestata quanto inseparabile metà di vita, che è il fratellino, non avrebbe poi neanche sofferto troppo: Rebecca si accontenta facilmente.
Non si è mai lamentata più di tanto per il non aver mai avuto un fidanzato in grazia, nè per il non avere una vita sociale esattamente frenetica, non che invero la desideri, ha sempre preferito, da che la conosco (da sempre) una serata con gli “amici-pochi-ma-buoni” alla movida della grande metropoli. Non è certamente la ragazza che potreste trovare a bordo di una Limo per le vie dell’Upper East side di Manhattan... neanche nei suoi sogni. Non ama la solitudine ma neppure la folla, non si è mai sentita troppo sola anche quando effettivamente lo era in una casa troppo silenziosa anche per me, che non posso parlare direttamente con gli esseri umani, è una persona abbastanza forte da saper stare con sé stessa, guardarsi allo specchio e dirsi in faccia tutto, anche quello che non le piace. E non se le risparmia certo le critiche. Ben più avara di complimenti, ama chiamare le cose con il loro nome, evitando il più possibile i fronzoli inutili. Pane al pane e vino al vino, si dice così, vero?
Rebecca non ama lo sport e lo possono testimoniare i suoi abiti nell’armadio: generalmente casual più o meno eleganti a seconda dell’occasione. Non hanno un particolare stile definito cui conformarsi, non le è mai piaciuta l’idea di doversi ritrovare per forza in qualche cosa di preciso e regolamentato, non perché voglia essere sfuggente ad ogni costo (anche se forse un po’ lo è) lei è semplicemente sé stessa con tutto ciò che questo comporta senza nessuno sconto o sovrapprezzo: un animo gentile, quieto e sensibile. Ama l’arte e il bello in ogni sua forma e anche questo lo possono testimoniare chiaramente i vari libri sistemati sulla mensola bianca, dietro la porta della stanza da letto, quella mensola su cui sono sospeso io, ma anche le fotografie, i piatti, i dipinti appesi alle pareti. E', in soldoni, una persona sostanzialmente pigra e non troppo coraggiosa, anzi, facilmente impressionabile, timida e riservata. 
Rebecca sbuffò e scosse il capo prima di premere con una certa riluttanza il tasto “canc” sulla tastiera e far svanire in un colpo solo più di due pagine di scritto che, improvvisamente, non le piacevano più. Neanche un po’. Si rimise a scrivere subito dopo, con una nuova idea che le frullava per la testa.
 
 
 
 
  
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