Gabbia
Tetra, scura, immersa nel
buio, se non fosse stato per
quelle luci artificiali così tremendamente bianche.
E tu, che per la prima volta
percepivi quella sala
operatoria come una gabbia, cosa che per te non era mai stata.
“Non riesci a
tenere in mano nemmeno il bisturi,
guardati!” ti aggredisce, puntandoti minaccioso una mano
avvolta dal guanto.
Non sopportavi quando
qualcuno – per giunta al tuo stesso
livello professionale – ti insegnava a fare qualcosa che
già avresti dovuto
saper fare o ti rimproverava sul come lo facevi.
“Quante ore hai
dormito stanotte?” continua il suo
monologo da padre esasperante ed esasperato.
Il bisturi tra le tue mani
non smetteva di tremare, anzi,
le parole di Malosti sembravano trasmettere il nervosismo che avresti
dovuto
provare, e che invece non provavi, direttamente a quello strumento.
Ti volti verso Giulia, che
da dietro la mascherina ti
guardava con quella che ad occhio e croce sembrava compassione. Davvero
facevi
così pena ai tuoi colleghi? E davvero la pensavano tutti
come Malosti, ma non
erano così diretti dal farti presente che eri un chirurgo
quarantenne e non
potevi permetterti di sgarrare nemmeno per una sera?
Abbassi lo sguardo verso le
mani della donna, a cui cedi
il bisturi.
Esci da quella gabbia di
cemento e asetticità senza dare
spiegazioni, perché, per una maledetta volta, ti potevi
concedere di non
svolgere il tuo lavoro.
Te l’aveva detto
Riccardo, no? Non eri in grado di
operare, e ti saresti salvata dai suoi commenti almeno fino a quando
non ti
avesse trovata per la strigliata finale.
Decidi di non farlo
attendere, e, dopo aver sommerso in
un paio di visite di routine i tuoi sensi di colpa per aver mancato di
compiere
il tuo dovere, torni di fronte all’ingresso della sala
operatoria, dove
attendi, appoggiata al muro, la tirata d’orecchie che speravi
fosse la più
veloce e indolore possibile.
“Eccola, la nostra
ragazzina. Ti darei quattordici,
massimo quindici anni.”
“Tu invece stai
superando i settanta.”
“Non sarei qui a
prenderti in giro, cara la mia
dottoressa. Pantofole, sedia a dondolo, copertina sulle gambe,
mogliettina che
prepara la cena…”
“Mogliettina? Ma
chi ti sposa, a te? Sei insopportabile
anche preso a piccole dosi, figurarsi ogni ora del giorno!”
“Ma dimmi te
chi può prendere una donna che alla sua età non
ha ancora capito cosa fare
della sua vita e che va in giro di notte con un ragazzo che potrebbe
essere suo
figlio!”
“Sei
geloso?”
“No!”
grida, evidenziando il contrario.
Ti viene pericolosamente
addosso, stringendoti al muro
senza che i vostri corpi potessero toccarsi.
Inspiri forte, guardando di
fronte a te l’unico uomo che
avresti voluto avere in quelle notti che lui tanto odiava.
“Solo vorrei
sbatterlo al muro così” ti prende per i
fianchi e si porta ad aderire contro di te, che ti lasci sfuggire un
gemito per
l’impeto. “E sfondargli lo stomaco.”
Invece di odiarlo per le
violente parole che stava
rigurgitando a pochi centimetri dalla tua bocca, non fai altro che
protenderti
verso di lui inclinando il capo, assaporando per quei limitati istanti
il
sapore provocante che aveva la sua vicinanza.
Era quella,
l’unica gabbia che avresti potuto eternamente
sopportare.
Quella delle sue braccia e del
suo corpo, sospesa di
fronte a te, ad insultare chi aveva osato prenderne il posto.