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Autore: BaronessSamedi    05/02/2011    2 recensioni
One-shot molto deprimente di ambientazione circense, scritta in un periodo in cui mi sentivo abbandonata da tutti e non credevo più in niente.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il trapezista si chiamava Oliver, poteva avere undici o dodici anni, era magrissimo, lentigginoso e d’aspetto abbastanza comune, e per fare il suo numero indossava un’aderente tuta giallo oro. Non c’è molto altro da aggiungere su di lui. Nel circo dei fenomeni da baraccone, in cui ciascuno dei protagonisti si presentava al mondo col pessimo biglietto da visita della propria stranezza e diversità, l’anomalia più crudele, quella che stonava più di tutto in quel parossismo di bizzarria e disagio, era proprio l’inquietante banalità del giovane Oliver. A lui era affidata la chiusura dello spettacolo: eseguiva il suo numero volando a venti metri da terra, la spettacolare elasticità del suo piccolo corpo contrapposta alla fiacchezza di uno spirito costretto a cercare, sera dopo sera, un motivo per portare a termine la sua esibizione, per non staccare le mani dal trapezio senza nemmeno tentare di riagganciarvele. Il lavoro, gli allenamenti sfibranti, le stesse brutte facce ogni giorno, lo stesso numero: questa ossessiva regolarità avrebbe forse potuto costituire un rifugio per il piccolo Oliver, orfano e già duramente provato dalla vita quando, all’età di sette anni, era stato accolto dagli zingari a bordo del carrozzone blu notte, ornato di stelle gialle di cartapesta. Ma la banalità e la ripetizione sono assai più spaventose di quanto possano sembrare a prima vista. Oliver ogni sera individuava tra il pubblico un volto che non fosse quello di qualche moccioso viziato, accompagnato e riverito da genitori ancora più snob e incontentabili. Ogni sera questi personaggi si ammassavano sotto il tendone, in cerca di chissà quale fuga dalla realtà – e da quale realtà avrebbero mai dovuto fuggire, loro che vivevano la vita più desiderabile che si potesse immaginare, giocattoli, una casa calda e luminosa, caramelle che ti cariavano i denti? E per quella persona speciale che sedeva tra il pubblico - in cui riconosceva o credeva di riconoscere un volto amato in passato, quello di una mamma, di un papà o di un amico – Oliver eseguiva la sua danza macabra nel vuoto. Quella sera avrebbe dedicato le sue acrobazie e i suoi salti mortali alla coppia di anziani seduti in terza fila, mano nella mano. Dovevano essere vecchi davvero, la pelle sul volto e sul collo sembrava quella di due sagge tartarughe, tanto era rugosa e raggrinzita… Eppure si sorridevano e si tenevano per mano in modo così tenero. Probabilmente avevano passato insieme tutta la vita. Dovevano essere stati davvero molto innamorati, probabilmente lo erano ancora. Ci sono giorni in cui le porte del mondo dei vivi e del mondo dei morti si aprono e i due regni si compenetrano per alcuni istanti. Oliver sapeva che in questi giorni gli zombi non camminano sulla terra e i fantasmi non trascinano in giro, urlando, lenzuoli bianchi e catene. Non c’è nulla di straordinario, di eclatante o spaventoso, nel contatto con uno spettro: il più delle volte il tutto si riduce ad un sentore conosciuto, un sussurro, la sensazione di essere osservati, o di scorgere, dietro la forma di qualsiasi oggetto, un’altra sagoma che tremola e si dibatte, come per cercare di uscire allo scoperto. Glie l’aveva insegnato Margaret, la donna barbuta. Oliver sapeva anche che i morti non amano le giornate estive umide, appiccicose e cafone per andarsene in giro. Preferiscono il freddo dell’inverno, che spinge la gente volgare e scollacciata, non amata dagli spettri, sempre così discreti e riservati, a chiudersi nelle case. Era una sera particolarmente fredda per essere solo la fine di settembre, e la foschia lilla e dorata del tramonto aveva ormai lasciato posto al nero della notte. Oliver la vide arrivare da lontano, quella luce così fioca e instabile, che in un primo momento la scambiò per un fuoco fatuo, di quelli che si vedono nei cimiteri. Man mano che la luce si avvicinava, però, Oliver riconobbe la forma di due cavalli che trainavano un carretto, all’esterno del quale penzolava una lanterna accesa - dorata come la sua tuta da acrobata e come le stelle di cartapesta dipinte sul carrozzone - dall’intelaiatura di bronzo: una minuscola finestra illuminata sulla parete di una casetta di marzapane. E proprio a una casetta di marzapane somigliava il carretto, carico oltre ogni dire di balocchi e ghirlande di fiori dai colori pastello. Le ruote cigolanti arrancavano sui sampietrini della città vecchia, tutta archi, cortiletti misteriosi e vicoli bui. Mangiafuoco si scostò dall’ingresso del tendone. “Stanno arrivando”, disse, atono. “E’ ora di andare, Oliver. A domani sera”. A bordo del carro, era fissato un bancale che contrastava nettamente con l’aspetto zuccheroso e fiabesco del veicolo: era infatti addobbato con troppi nastri sgargianti e chincaglierie troppo grevi e pesanti. Seduti all’estremità del bancale c’erano i due anziani coniugi che Oliver aveva visto tra il pubblico. Mastro Sykes, il cocchiere, aiutò Oliver a salire. Quando ebbero percorso un breve tratto di strada, Oliver si voltò, per scoprire che il tendone era già stato smontato, la carovana era già ripartita, il piazzale del circo era deserto. I due sposi erano accanto a lui e gli sorridevano. Veniva per tutti il momento di fare quel viaggio, e per loro era giunto nello stesso istante. Loro erano fortunati. Il carretto dei sogni era venuto a prenderli insieme, e niente avrebbe mai più potuto dividerli. Oliver, quella strada l’avrebbe dovuta percorrere ancora molte e molte altre volte. Altrettante volte l’aveva già percorsa, dentro e fuori dal limbo dove indugiano le anime perdute degli innocenti e delle persone dal cuore gentile. Il giovane Oliver sapeva che non era ancora giunto il suo turno di essere chiamato dall’altra parte, di compiere il passaggio che avrebbe messo fine a quell’atroce non-vita, a quella perenne sospensione tra cielo e terra. Anche il cielo rifiuta chi non ha saputo farsi amare per davvero da nessuno, e Oliver lo sapeva. Chi gli si era mostrato vicino, aveva sempre avuto i suoi motivi per farlo. Gli zingari lo tenevano con sé perché il suo numero attirava gli spettatori. L’andirivieni tra i due mondi era il purgatorio che il suo spirito smarrito avrebbe dovuto affrontare per meritarsi la sua chiamata, per chissà quanti secoli ancora. Nel frattempo, Oliver avrebbe continuato ad esibirsi nelle sue acrobazie, e a intrattenere gli angeli, la luna e le stelle del firmamento, che tanto malignamente lo prendevano in giro. Intanto avrebbe pensato tristemente a quanto si sbagliano quei bambini che affermano che il Signore è tanto buono. Come poteva esserlo, pensava Oliver mentre il carretto dei balocchi scivolava silenzioso sopra le nuvole d’indaco, se riteneva giusto punire così crudelmente qualcuno per l’unica colpa di essere rimasto solo?
   
 
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