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Autore: XShade_Shinra    05/02/2011    3 recensioni
Lucilla è una claun, una volontaria che lavora come pagliaccio nei reparti ospedalieri di pediatria, e, per far divertire i piccoli pazienti dell’Ospedale la Croce del Sud, organizza un gioco...
[ Classificata 1° e Vincitrice del "Premio Eylis Consiglia" al contest "L'Harem e... il Pagliaccio" indetto da Eylis sul forum di EFP ]
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-Vesti la Bedlah!-
Lucilla è una claun, una volontaria che lavora come pagliaccio nei reparti ospedalieri di pediatria, e, per far divertire i piccoli pazienti dell’Ospedale la Croce del Sud, organizza un gioco...
Classificata 1° e Vincitrice del "Premio Eylis Consiglia" al contest "L'Harem e... il Pagliaccio" indetto da Eylis sul forum di EFP




Nick dell’autore: XShade-Shinra
Titolo: Vesti la Bedlah!
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 3319 parole
Genere: Fluff, Sentimentale
Rating: Verde
Credits: Lo scritto ed i personaggi sono interamente di mia proprietà. Tutti i personaggi di questa storia sono maggiorenni e comunque non esistono/non sono esistiti realmente, come d’altronde i fatti in essa narrati.
Note dell'autore: I pagliacci che lavorano negli ospedali si autodefiniscono “Claun” per distinguersi dai Clown professionisti.
La Bedlah non è altro che il tipico vestito utilizzato per la danza del ventre, e ho preso il titolo di questa storia dalla canzone “Vesti la Giubba”, meglio conosciuta con il titolo “Ridi, pagliaccio”, un’aria dell’opera “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo.
La storia è ambientata in Italia ed è presente un personaggio russo; per far capire che non ha dimestichezza con la lingua – anche se la capisce alla perfezione ha ancora qualche difficoltà grammaticale – i suoi dialoghi non saranno sempre perfetti, un po’ come ha fatto la Rowling con il personaggio di Hagrid in Harry Potter. Per cui le frasi “strane” sono volute.



- Vesti la Bedlah! -  


Il riso uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede
 [Il nome della rosa]


Il lieve rumore degli zoccoli di sorella Adelaide risuonava in quel bianco corridoio in maniera quasi grottesca, in completa contrapposizione con il trambusto delle mie buffe scarpe in plastica colorate, che facevano il classico rumore di una paperella di gomma ad ogni goffo passo.
«Non puoi cambiarti una volta là, Lucilla?» mi chiese "il pinguino", sbuffando appena.
«Sorella!» esclamai scandalizzata «Vuole che i bimbi scoprano che in realtà sono solo una semplice universitaria?» domandai; per lo stupore il naso rosso da clown mi si staccò e ruzzolò a terra, andando quasi a finire nella stanza delle signorine - per non dire zitelle - Spada e Corona.
La suora mi guardò scuotendo il capo e facendo danzare così il velo bianco che indossava.
«Lucilla, sei proprio una... una...» fece per dire, ma essendo una donna di Chiesa non fu abbastanza lesta a trovare un aggettivo adatto a me, quindi la anticipai, balzando in piedi dopo aver raccolto il mio naso rosso di lattice morbido.
«Una... claun?» chiesi gaia, mentre mi rimettevo l'accessorio sul volto e le sorridevo, offrendole una margherita che feci finta di far comparire dalla mia parrucca di arruffati riccioli azzurri.
«Esatto...» borbottò, guardandomi male, ma accettando di buon grado quel fiore.
In fondo era una brava persona, anche se i suoi modi di fare da mastino le avevano valso il soprannome di "Suor Ade", come il regno degli inferi.
«Comunque sappi che abbiamo un nuovo ospite.» mi informò. «Si chiama Tommaso ed è stato operato da poco alla testa.» disse, non mettendomi al corrente di altro per non ledere la giusta e dovuta privacy del bambino.
Annuii un po’ triste. Chissà come doveva aver sofferto.
«Ha un bendaggio in testa, quindi fa’ attenzione.» si raccomandò.
Assunsi la posizione dell’attenti e mi portai la mano alla fronte, nel gesto di saluto marziale.
«Non si preoccupi, Generale!» dissi scherzosa, ma le labbra di sorella Ade non smisero di tendere verso il basso.
Che tipa…
«Ora va’, pagliaccio.» mi disse, una volta arrivate davanti alla porta dell’ala della pediatria.
«Ok.» annuii «Buon pomeriggio, suor Ade.» sorrisi, per poi tapparmi la bocca a causa della gaffe ed iniziare a correre per non essere mangiata viva. L’avevo chiamata per soprannome!
«Cos—Cosa hai detto?! Ehy, Lucilla!» urlò con un diavolo per capello, mentre io ero già arrivata a metà del corridoio, abbastanza lontano per sperare che non mi lanciasse uno zoccolo in testa.
“Più tardi dovrò uscire dalla finestra se voglio tornare a casa intera!” pensai, spalancando la porta che recava una scritta colorata con i pastelli: “Dire la parola d’ordine”.
«Ippopotamo allo yogurt!» esclamai sorridente, sentendomi subito addosso otto paia di occhi.
«Clown Sandrino!» mi salutarono le sei bambine ricoverate, mentre il nuovo arrivato mi guardò con sorpresa. Sicuramente non aveva mai visto un claun, un volontario-pagliaccio che porta gratuitamente il sorriso nelle brulle corsie degli ospedali.
«Ciao bambini!» li salutai, piroettando verso di loro «E buongiorno anche a lei, dottoressa Kathinka!» completai il mio saluto, inchinandomi di fronte al donnone grosso come un armadio quattro stagioni che si occupava dei bambini in qualità di pediatra. Sembrava l’orco cattivo di Hansel e Gretel – pur non essendoci alcun orco cattivo in quella fiaba –, ma poi, conoscendola, si capiva che era solo un orco come Shrek, quindi burbero ma buono nel profondo – molto, molto nel profondo.
«Ciao pagliaccio.» mi salutò, gelida come la sua terra – la Russia –, con la sua voce baritonale perfetta per cantare in chiesa come corista per il canto a cappella.
Sorridendo mi rialzai e corsi dai bambini che erano seduti su quattro letti: due femminucce per ogni lettino e l’unico maschietto da solo. Doveva trattarsi di Tommaso, riconoscibile dalla descrizione che mi aveva fornito suor Adelaide.
«Allora, birbanti, come va?» chiesi loro, sedendomi su un materasso vuoto, probabilmente quello di Sara.
«Bene!» sorrise Licia «Io domani torno dalla mia mamma!» rise, mentre Giulia la abbracciava.
«Anche io domani torno a casa, ma ci rivedremo con Sara!» disse concitata.
Sorrisi, felice che anche in quel luogo di sofferenza si fossero formate delle amicizie, sperando che fossero solide e che durassero fino al futuro più remoto.
Dopo aver ascoltato le altre quattro, mi rivolsi al maschietto:
«E tu, Tommaso? Cosa mi racconti?» chiesi affabile, movendo le labbra in modo che si vedesse bene il trucco espressivo di colore nero che modellava meglio i miei sorrisi.
«Come sai il mio nome?!» si sorprese il giovane.
«Io sono il Pagliaccio Sandrino e vi conosco uno ad uno!» dissi, ammiccando «Allora, com’è andato l’intervento?» chiesi, prendendo delle palline dal mio zaino.
«Bene…» sussurrò «Ma mi fa male la testa…»
Con un balzo mi misi in piedi e andai al centro della stanza, mettendomi davanti a loro:
«Sai qual è il modo migliore per far sparire il dolore?» gli chiesi, sporgendomi verso di lui, che scosse la testa, portandosi una manina paffuta al bendaggio «Ridere.» risposi, iniziando con il mio spettacolo.
Le risate cristalline dei miei piccoli spettatori iniziarono a riempire quella stanza dalle neutre pareti bianche colorate dai pastelli e dalla grafite delle matite di quei Picasso in erba, arrivando alle mie orecchie, saziando il mio ego, mentre facevo volare in aria quelle tre palline, disegnando delle figure amorfe per diversi minuti.
«E una, e due, e tre!» esclamai ad un certo punto, facendo volare in aria le sfere, che andarono a centrare esattamente: il vaso di begonie, la boccia dove riposavano Giulietta e Romeo – i nostri due pesci rossi – e la scollatura del prosperoso seno della dottoressa Kathinka, anche quel giorno troppo poco coperto per una pediatra, ma come dice sempre lei: “Fa caldo qui in Italia!”. I bambini risero per la smorfia del medico, che prese la pallina verde e me la lancio addosso, mancandomi, ovviamente  mi sarei sentita più al sicuro a giocare a freccette con un ubriaco che con lei, data la sua scarsa mira.
«Insomma, Lucilla!» abbaiò lei, scorbutica.
«Io non sono Lucilla!» le ricordai sorridendo, aggiustandomi il naso rosso «Ricordate alla dottoressa chi sono io, bambini?» chiesi ai suoi pazienti.
«Sei il pagliaccio Sandrino!» risero in coro, applaudendomi.
A sentire quello scoscio di applausi tutto per me, mi illuminai e mi inchinai a quei piccoli angeli dalle ali mozzate o rattoppate.
«E sono pronto per un altro spettacolo!» ridacchiai, tenendomi sollevati i larghissimi pantaloni da un lato per sembrare ancora più buffa e goffa agli occhi dei bambini.
«Pagliaccio Sandrino?» mi chiamò il nuovo arrivato, mentre prendevo dei cerchi dalla mia borsa degli articoli da giocoliere.
«Dimmi, bambino!» gli risposi come da prassi.
«Tu mi piaci come clown.» disse, porgendomi il suo primo sorriso da quando ero entrata in quella stanza.
«Grazie.» risposi, facendogli un inchino.
«Mi piaci perché… non prendi in giro le persone… ma ci fai ridere…» spiegò.
«Perché, qualcuno ti prende in giro?» domandai triste. Come si poteva prendere in giro un bambino tanto adorabile?
«No, ma… pensavo che… con questa fasciatura…» farfugliò triste «Mi hanno rasato e dovrò tenerla per molto… I miei compagni di scuola mi prenderebbero in giro se lo venissero a sapere.»
Stupita dalle sue parole, mi rialzai e andai da lui, sedendomi sul suo letto e facendolo sobbalzare a causa del mio peso.
«Ma questa non è una fasciatura, Tommaso!» esclamai, indicandogliela «Questo è un turbante!»
Federica mi guardò come se non avesse capito, e Maura mi chiese:
«Che cos’è un turbante, pagliaccio Sandrino?»
«È un copricapo usato in Arabia, la terra dei Sultani. Tommaso grazie ad esso è uno di loro, ora!»
«Oooh…» fecero tutti i bambini presenti.
«Anche io voglio essere un Sultano, allora!» esclamò Sara, con sguardo deciso.
«Non puoi.» intervenne Alice con la sua voce dolce «I Sultani erano solo maschi.»
«E quindi?» domandò ancora Sara.
«Possiamo fare le concubine del Sultano…» disse a bassa voce Valeria, ma nemmeno quella parola era conosciuta da tutti i bambini.
«Cosa sono?» chiese Maura.
«Le donne che vivevano con il Sovrano.» spiegò Valeria, mentre Federica annuiva.
«Quindi voi potete fare le concubine e io il Sultano?» chiese Tommaso.
Li lascia discutere parecchi minuti, poi alla fine, tutti furono d’accordo per le parti – non che ci fosse molto da scegliere, ma i bambini sanno complicarsi la vita peggio degli adulti!
«Ehy, perché non andiamo in Arabia?» chiesi loro.
«E come facciamo?» domandò Federica, sollevando gli occhioni curiosi su di me.
«A bordo del nostro tappeto volante: la fantasia!» ammiccai, rimettendomi in piedi e andandomi a sedere a terra, a gambe incrociate nella classica posizione da fachiro «Essa è capace di farci volare in mondi lontani, in posti che nemmeno esistono!» dissi plateale, alzandomi in piedi senza aiutarmi con le mani e facendo una riverenza al mio piccolo pubblico dagli occhi grandi e puri «Ma vi dirò un segreto!» dissi loro, facendo l’occhiolino «Se immaginate che i vostri lettini siano come dei veri tappeti volanti, sarà tutto più facile.»
I bambini si guardano tra loro, poi annuirono e si sedettero a gambe incrociate sui materassi. Con tanta gioia nel cuore, potei notare che nessuno di loro litigò, e chi era già sul letto della compagna di sventure per assistere al mio spettacolo non venne scacciata, ma ci rimase per fare compagnia all'amica. 
«Ottimo!» applaudii, risedendomi a terra per poi girarmi verso la dottoressa russa «Lei non viene con noi in Oriente?» domandai.
«Io vado solo in Madre Russia.» disse convinta, incrociando i suoi braccioni da culturista al petto. Non osai contraddirla.  
«Ok…» borbottai «Coraggio, si parte per l’harem del Sultano!» gridai, mettendo le braccia ad aeroplano, imitandone il verso.
I miei sette spettatori sembrarono divertirsi un mondo mentre viaggiavamo nel cielo stellato in stile “Aladdin”, vedendo diversi luoghi del mondo.
«La Tour Eiffel!» esclamai.
«Siamo in Francia!» disse Tommaso.
«E ora… oooh! C’è un leone!»
«Siamo in Africa!»
«Guardate! Un canguro!»
«Australia!» dissero in coro, divertendosi quasi quanto me.
«Oh, cosa vedo! Un grande castello in stile arabeggiante!»
«Siamo arrivati!» dissero.
«Presto, entriamo dalle finestre! Sono aperte!» esclamai ancora, facendo cenno di virare a destra, seguita dalle braccine dei bambini che mi imitarono, fingendo infine di atterrare su un freddo pavimento.
«Eccoci qui!» dissi, alzandomi in piedi con un saltello «Questo è il palazzo del Sultano e questa sala è il suo harem!»
Tutte le loro piccole boccucce si aprirono in delle perfette “O”, stupiti.
«Sapete com’è fatto un harem?» domandai loro, saltellando sul posto.
«È una grande stanza… con delle donne…» disse Valeria, quella che ne sapeva di più sull’argomento.
«Esatto!» annuii.
«Ma…» sentii Maura.
«Cosa, bambina?» domandai, esortandola a continuare.
«Noi siamo tutte ragazze… Tommaso è il Sultano… la dottoressa Kathinka non c’è… ma tu?» mi domandò.
Rimasi un attimo interdetta, poi saltellai:
«Io? Ma io sono il gran Visir del Sultano!» dissi, gettando coriandoli tutto intorno.
I bambini mi applaudirono e cercarono di afferrare al volo i ritagli di carta colorata che cadevano allegramente in terra, e Kathinka ne approfittò per farmi sapere il suo pensiero a riguardo:
«Perché Gran Visir? Non puoi essere eunuco?» chiese la pediatra con fare scocciato.
Lancia un'occhiataccia alla dottoressa, come a volerle dire: "Glielo spieghi tu a questi piccoli bambini innocenti che cos'è un eunuco?"
Quella donna non aveva il minimo di tatto. Ancora mi chiedevo perché le permettessero di lavorare con  i bambini, visto che i suoi modi di fare da orso li spaventavano sempre.
Per fortuna, nessuno dei piccoli la sentì, troppo presi a giocare con quei coriandoli.
Anche se in realtà il titolo di eunuco per me…
«Continuiamo?» la dolce voce di Sara mi riportò alla realtà, riscuotendomi dai miei pensieri.
«Certo!» risposi, sudando freddo nell’immaginarmi un’altra possibile triste uscita del medico.
Presi dalla borsa diverse lingue di Menelik e le diedi ai bambini che fingevano di essere in quell’harem, quando una mano d’orso calò sulla mia esile spalla, quasi lussandomela.
«Ci ho ripensato.» disse la pediatra con sguardo severo «Farò l’odalisca.»
A quella decisione, lo shock fu talmente grande da non permettermi di riderle in faccia, salvandomi in questo modo la vita.
«Va… bene…» annuii, senza capire quell’improvviso cambiamento.
L’odalisca, in realtà, era alla base della scala sociale degli harem: era la servitrice delle concubine e il suo obbiettivo era diventare appunto una di esse per potersi così sistemare a vita.
Leggendo ancora lo sconcerto nei miei occhi, finalmente la dottoressa si degnò di darmi una delucidata in merito:
«Io sarò Mata Hari
Calò il gelo.
Dimenticandomi di indossare i panni di un clown, mi schiaffai una mano sul volto, rovinandomi il trucco di cerone bianco, facendo divertire assai i miei piccoli spettatori, che mi additarono e si rotolarono sui lettini.
«Mata… Hari…?» domandai guardandola in tralice. L’unica cosa che aveva in comune con quella bella spia erano i capelli scuri…
«Perché? Non ti va bene?» chiese, facendomi ombra con la sua imponente stazza.
«Ce—Certo che mi va bene! Ah-ah…» ridacchiai, mentre mi giravo di spalle ai più piccoli e mi risistemavo velocemente il cerone, il rossetto e la matita nera che utilizzavo per farmi i ghirigori sotto gli occhi.
«Ottimo.» disse lei in tono pienamente soddisfatto. Beata lei…
Dopo i cinque minuti di pausa “trucco e parrucco”, finalmente potei continuare quel gioco nato per caso, nella speranza di poter proseguire serenamente, anche se notavo che nonostante i piccoli contrattempi sembrava che tutti si stessero divertendo, e per me era quello l’importante.
Però, prima che potessi tornare alla carica, vidi che la scena mi era stata allegramente rubata dalla dottoressa Kathinka.
«Bambini, sapete qual è la cosa che le concubine del Sultano fanno meglio?» chiese ai bimbi, facendomi rizzare i capelli – sia i miei che quelli della parrucca.
Prima che potessi intervenire, Licia sollevò la manina, dando una risposta che non mi sarei mai aspettata:
«Forse… danzare.» rispose.
«Esatto!» la lodò la dottoressa, battendo le mani «Quindi ora balleremo tutti quanti. Anche tu, Tommaso. Seguite me!»
Quel che accadde subito dopo ebbe dell’incredibile: Kathinka si aprì il camice, lasciandoselo indosso come se fosse un lungo soprabito ed iniziò a danzare, movendo le membra e il ventre con movimenti sinuosi e aggraziati, come quelli di una serpe che segue i movimenti dell’incantatore di serpenti e del suo flauto. Le sue movenze erano poche e precise, atte a risparmiare energia e stregare chi la guardava. Sembrava proprio una danzatrice del ventre, come Mata Hari, in quell’harem immaginario – anche se coperta dai vestiti occidentali non rendeva sicuramente quanto avrebbe potuto esserlo in costume arabo –, tanto che rimasi maleducatamente a fissarla, anche se lei non se ne accorse minimamente. Pure i bambini rimasero stupiti da quell’assurda rivelazione, e, dopo qualche attimo di smarrimento, decisero di stare al gioco e iniziarono a ballare, seguendo i movimenti della pediatra.
Ed allora capii perché non mostrava loro passi difficili o l’utilizzo di altri strumenti: quei piccoli erano comunque convalescenti o ancora ammalati, ecco perché preferiva farli muovere poco in modo da non farli stancare più del necessario.
Kathinka era un orso, ma era prima di tutto una dottoressa capace e professionale, e questa era l’ennesima prova di come non prendesse mai sottogamba il proprio lavoro, la propria missione da medico.
Scossi la testa, mettendomi sui riccioli azzurri un cappellino di plastica, e mi misi al fianco della donna, ballando anche io nel modo che più mi era consono: con goffi movimenti sgraziati, tipici del mio ruolo di claun, facendo sorridere tutti quanti – esclusa lei, ovviamente, poiché, a parer mio, potrebbe essere capace solo di un “sorriso sardonico”.
«È molto brava.» mi complimentai di cuore con lei, mentre fingevo di inciampare.
«Ho fatto un corso di danza del ventre per cinque anni.»
Altro momento di shock. Sarei dovuta passare dal cardiologo prima di andare a casa.
«Ma voi russi non fate quel ballo strano…» borbottai, riferendomi al Casatchok.
Lo sguardo della pediatra mi fece gelare il sangue nelle vene.
«Tu sei italiana, ma non mangi certo pasta tutti i giorni!»
«Veramente…» feci per contraddirla, ma per il bene delle mie costole decisi di stare zitta e allontanarmi un poco nel caso volesse colpirmi “accidentalmente”.
Dopo altri minuti di danza, decisi di riprendere in mano le redini dello spettacolo:
«Bene.» annuii, prendendo i vari pezzi del monociclo dallo zaino, iniziando a montarlo mentre facevo il giocoliere con quei componenti, montandoli ad ogni evoluzione per non lasciare altre pause «Ora, poiché siamo al servizio del Sultano, faremo ciò che ci ordinerà lui.» spiegai alle bambine, le quali annuirono, voltandosi poi verso Tommaso.
«Ma… io non ho nulla da chiedere.» disse lui, guardandomi.
«Puoi anche chiedere di fare un gioco, quello che preferisci.» spiegai «Sei tu il Sultano: hai il turbante.» gli ricordai, indicandomi la testa.
«Ah, ok…» fece, assumendo l’aria de “il Pensatore” di Rodin, prima di esprimersi «Visto che non possiamo giocare a nascondino… Perché non giochiamo al gioco dei mestieri?» propose.
«Quello dove qualcuno mima un lavoro e gli altri indovinano?» chiese Maura.
«Sì!» esultò l’unico maschietto del gruppo.
Le bimbe sorrisero e furono d’accordo con quel gioco. Dopotutto erano lì appositamente per “servire” il Sultano.
«Però chi indovina avrà la possibilità di mimare il mestiere successivo, così facciamo a turno e non si annoia nessuno.» dissi, pedalando piano sul monociclo in modo da  poter girare per la stanza.
Tra coriandoli, quel trabiccolo a una ruota e la futura acqua che avrei buttato a terra per simulare un monsone, la donna delle pulizie mi avrebbe ridotto in poltiglia.
«Sì!» fece Federica, sedendosi meglio per poter vedere Tommaso.
Era importante non solo che giocassi insieme a loro, ma anche che loro stessi si intrattenessero tra loro in modo che la malattia non li porti alla cosa più brutta: l’isolamento.
Non vorrei mai che quei piccoli soffrano…
Così, mentre i bambini si intrattenevano, scesi dal sellino e presi un mazzo di chiavi dalla sacca, aprendo così l’armadio presente in quella stanza.
«Cosa fai?» mi chiese la dottoressa, raggiungendomi mentre spostavo dei pannelli di compensato colorato e una tendina.
«Mi darebbe una mano?» le domandai, porgendole il tutto per poi prendere solo una leggera scatola aperta con dentro delle marionette da mano.
«Certo…» mi disse, non capendo esattamente cosa avessi in mente e chiedendomi quindi spiegazioni subito dopo: «Cosa stai preparando?»
«Un teatrino.» le risposi sorridente, cominciando a montarne i pezzi in legno.
Il tempo di sistemare il tutto e mi rivolsi ai bambini, battendo le mani:
«Ehy, bambini! Chi ha voglia di sentire una storia?» chiesi festante, cominciando ad indossare due marionette come fossero dei guanti: una era un terribile drago – che dall’aspetto poteva sembrare un dolce lucertolone -, l’altra un valorosissimo cavaliere – che sembrava il garzone del panettiere vicino a casa di mia nonna.
«Io, io!» urlarono in coro, facendomi sorridere ancora di più.
«Ok, cominciamo!» esultai, andandomi a nascondere dietro il teatrino, mentre la dottoressa Kathinka prendeva posto sul letto di Tommaso per assistere allo spettacolo.
Tutti quei bambini che vedevo ogni giorno nell’Ospedale la Croce del Sud, dove compivo il servizio di volontariato, mi davano gioia con i loro sorrisi, mi facevano piangere con le loro ferite, mi facevano desiderare di passare tutto il mio tempo con loro.
Perché pensavano di divertirsi, ma in realtà ero io che mi divertivo molto più di loro.
Non l'avevo mai detto a nessuno, ma erano loro il mio harem, quei bambini ai quali Dio aveva deciso di far superare una durissima prova, e grazie agli angeli che h mandato sulla terra - quegli angeli vestiti con un camice bianco - erano riusciti a salvarsi e poter così continuare a vivere.
Pensavo di essere veramente l'eunuco nell'harem del Sultano: colui che intrattiene le gemme più preziose del regno, le serve e ne ha cura. Ed ero felice del mio titolo, come ne erano fieri quegli uomini che per servire il loro Sultano rinunciavano alla bellezza di avere dei figli propri.
Continuammo così a giocare in quell'harem immaginario ancora per diverso tempo, divertendoci a narrare storie di dragoni e tappeti volanti, Sultani e notti magiche, sempre con il sorriso sulle labbra.

§Fine§
XShade-Shinra




- Per chi non la conoscesse, ecco un ottimo link a wikipedia sulla spia Mata Hari: Follow the white rabbit...
- A proposito del sorriso sardonico, ci tengo a precisare che Lucilla intende il sorriso dato dalle contrazioni del volto a causa dell’avvelenamento da herba sardonia.

  
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