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Autore: AmaleenLavellan    06/02/2011    5 recensioni
Uno ghigna, l'altro sorride. Uno è pericolo, l'altro è sicurezza. Uno se n'è andato, l'altro c'è sempre stato.
Con uno era fiamme, ardore, lacrime e frustrazione. Con l'altro è dolcezza, delicatezza, sorrisi, sentirsi amata. Ed ora che si trova su un filo sospeso nel vuoto, Elizaveta deve decidere se tuffarsi nel buio o tornare a rifugiarsi al sicuro, in una teca che la protegge da qualsiasi passione...
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Austria/Roderich Edelstein, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Grazie a tutti voi che avete recensito e letto e messo nei preferiti/seguiti/ricordati, grazie mille *-* Ve lo dico adesso, perché dopo sarò troppo depressa per farlo xD Oh, quanto mi vergogno.

- Allora io esco, Eliza. – mi comunica Roderich sorridendo, con una mano appoggiata alla maniglia della porta. Annuisco sorridendo di rimando, alzando lo sguardo dal libro che tengo poggiato in grembo.
- A dopo, amore -
Mi rivolge un ultimo sguardo prima di scomparire oltre l’uscio. Chiudo gli occhi, sospiro.
- Ora spiegami che cazzo ci fai qui - affermo duramente, apparentemente rivolgendomi al vuoto, guardando fisso davanti a me. Il tono della mia voce è tinto d’odio, e non faccio nulla per celarlo. Dalla cucina, richiamato dalla mia voce, esce una figura.
Alto poco più di me, piuttosto muscoloso. Ha il busto avvolto da una semplice camicia bianca e le gambe fasciate da stretti –e costosi- jeans neri. Con una mano diafana si scompiglia i capelli biondissimi, quasi bianchi, mentre inchioda quegli occhi di fuoco nei miei.
- Piccola, è così che si saluta una persona amata? – domanda con voce spaccona –eppure, devo ammetterlo, terribilmente seducente- avvicinandosi a me. Mi alzo di scatto, con lo sguardo acceso da un ardore gelido ed assassino. Modero i movimenti, cercando di trasmettergli tutto ciò che provo solo tramite gli occhi e la voce.
- Non osare rivolgerti a me con quello schifo di tono. E soprattutto, chiamami di nuovo piccola - calco la parola con sprezzante disgusto - e ti stendo. – Pianto gli occhi nei suoi, e non abbasso lo sguardo neanche quando , sbruffone, si avvicina tanto a me da costringermi ad alzare di poco il viso.
- È una minaccia o una promessa, piccola? – domanda retoricamente, poggiandomi una mano sul fianco. Le sue labbra stanno per toccare le mie, ma la mia mano è più veloce. È un gesto istintivo, automatico, e decisamente liberatorio. In un istante ho concentrato tutta la mia rabbia, il mio disprezzo, la mia frustrazione sulla superficie delle dita, con un solo obiettivo: fargli del male. E a quanto pare, ci sono riuscita. Lo schiaffo è stato così forte che lo schiocco è risuonato nella quiete del tardo pomeriggio. Con la mano con cui prima mi stringeva, ora Gilbert, incredulo, si sta sfiorando debolmente la pelle della guancia, dove spicca sul bianco innaturale una zona rossa, che ricorda vagamente la forma della mia mano. Glibert cerca di nascondere il dolore sfoderando il solito sorriso prepotente ma, prima che possa parlare, lo anticipo con lo stesso timbro acido. Voglio fargli capire, in maniera chiara e concisa, tutto il mio disprezzo nei suoi confronti.
- Sparisci da casa mia, Gilbert. O la prossima volta non ci andrò così piano. –
Sembra annuire, allontanandosi da me, diretto verso la porta d’ingresso. Mi rivolge un ultimo sguardo bruciante di decisione, con un ghigno di sfida. – Tornerò. Tornerò, piccola, tutti i giorni. Mi presenterò non appena quello - sottolinea la parola con ribrezzo – se ne andrà. E ti farò di nuovo mia. È una promessa, Liz. – conclude con forza, gli occhi che gli brillano di determinazione tanto potente da essere spaventosa. Poi scompare oltre la porta, portandosi via tutto il calore che si era creato nella stanza, che fino a pochi istanti prima sembrava bollente. No so se abbia udito o meno il “Vattene” che gli avevo lanciato, con un sibilo.
Se prima avevo sperato che con il mio rifiuto questa storia si sarebbe conclusa, ora capisco che mi sbagliavo.
Questo era stato l’inizio.

D’improvviso, la temperatura della stanza sembra calare drasticamente. Tento di calmarmi, mentre mi rendo conto che sto ansimando. Mi abbandono sul divano, guardandomi sbigottita le mani. Da quanto tempo non prendevo a schiaffi qualcuno? L’ultima volta era stata… sì, con lui. Sento il sangue ribollire, pompato dal cuore con ritmo accelerato.
L’adrenalina mi scorre nelle vene.
Mi sento… viva.
Mi accorgo con sconcerto che questa sensazione mi era mancata: la rabbia, la violenza, la… forza, viva e primitiva, quasi animale. Tutte cose che se n’erano andate insieme a Gilbert e che erano state sostituite prima dal disorientamento e dal dolore che, amaro, sapeva di delusione, e poi dalla gioia, dalla tranquillità della vita con Roderich. Mentre cerco di calmarmi, non riesco a non pensare che, dannazione, la sensazione è meravigliosa. Una risata mi sale spontanea sulle labbra, e prorompe con decisione. Sentire il tono rozzo, così alieno eppure così familiare, della mia stessa voce rauca, eppure acuta, mi sconvolge. Riporta alla mente ricordi della vita, delle lotte con Gilbert, quando la potenza delle emozioni era puro istinto pulsante. Mi guardo nuovamente la mano. Ho voglia di spaccare qualcosa. Calmati Eliza, calmati, ordino a me stessa cercando di riportare la respirazione a un ritmo più normale. Per tranquillizzarmi, cerco di fare mente locale sugli avvenimenti appena accaduti, per analizzarli con lucidità.

Stavo leggendo, seduta sul divano, mentre Roderich, di sopra, si faceva la doccia. Era una giornata come mille altre, che si susseguivano cullandomi nella dolcezza –noia?- della routine. Il campanello era suonato e, tranquilla, mi sono alzata per andare a vedere chi fosse. Appena avevo aperto, avevo sbattuto le palpebre varie volte.
Poi avevo lanciato un urlo.
No. Non poteva essere.
Era… impossibile. Inconcepibile. Lui… se n’era andato. Mi aveva lasciato sola, a me stessa, senza dirmi una parola. Era sparito senza curarsi minimamente di avvisare, di spiegare, di pensare che avrei sofferto, delusa, disperata, abbandonata. Lui era morto, per quanto mi riguardava.
Eppure lui era lì, vivo, concreto, in carne ed ossa. Potevo toccarlo, potevo sentirlo, come una volta. Era lui, non uno di quei fantasmi che avevano popolato i miei ricordi, i miei incubi, quei fantasmi che avevano tormentato il mio sguardo fino all’arrivo di Roderich. Era lui. Lui con il suo sorriso beffardo, lui con la sua pelle splendente, lui con i suoi occhi brucianti. Avrei voluto tendere la mano solo per sapere se fosse… reale.
Gilbert aveva approfittato del mio attimo di smarrimento per entrare in casa. Si era lasciato cadere mollemente sul divano e aveva accavallato le gambe, e da quella posizione mi fissava, con la solita aria da spaccone, come attendendo chissà cosa. Che gli saltassi al collo, forse?
In quel momento il getto d’acqua che si udiva dal piano superiore si era arrestato. Spaventata, senza dire una parola, avevo afferrato il tedesco per un braccio e lo avevo praticamente lanciato dall’altra parte della stanza, in cucina, facendogli segno di stare zitto. In quell’istante, infatti, era sceso di corsa Roderich, trafelato, con la pelle ancora umida per la doccia. Era a petto nudo, vestito solo di un paio di boxer, con i capelli bagnati, gli occhi lucidi coperti da piccole ciocche ribelli e… bellissimo. Arrossisco se ripenso all’immagine di lui, a dir poco stupendo. Mi si era avvicinato, con sguardo preoccupato.
- Tesoro, va tutto bene? – mi aveva domandato, poggiandomi con delicatezza le mani sulle spalle.
- Si, perché? – avevo chiesto in risposta, con un sorriso e un tono falsamente innocente. La mia concentrazione oscillava tra il ragazzo -bastardo- che era in cucina ed il petto di Roderich, da cui non riuscivo a staccare gli occhi.
- Ho sentito il campanello e poco dopo hai urlato, pensavo fosse un maniaco o chissà che! – aveva esclamato. Eccolo, il mio Roderich. Dolce, a tratti isterico, severo, come un genitore. La tensione che provavo si era leggermente sciolta, sostituita da gratitudine tinta con una punta di compiacimento: Rod si preoccupava per me, e non perdeva occasione di dimostrarmelo. Ogni fibra del mio animo si sentiva amata, coccolata, curata quando ero con lui; e questo mi permetteva di perdonargli anche quelle volte in cui si agitava, e diventava isterico. Avevo alzato lo sguardo, puntandolo nei suoi occhi e gli avevo sorriso in maniera più dolce, per tranquillizzarlo.
- Ah, no, era solo Feliciano. È piombato qui, mi ha chiesto se confermavo che saremmo andati alla festa e poi se n’è andato con la stessa fretta con cui era arrivato. Mentre tornavo a sedermi sono inciampata, tutto qui. Sei troppo apprensivo, Rod. – avevo affermato, accarezzandogli la guancia con tenerezza. Non l’avevo fatto per ripicca contro quel tipo –lo stronzo-, i cui occhi ci erano puntati addosso –l’avevo notato con la coda dell’occhio. L’avevo fatto con il moto istintivo con cui una madre accarezza il piccolo, spaventato perché l’ha persa di vista al parco giochi. L’avevo fatto perché volevo vedere Roderich calmo. L’avevo fatto perché lo amo.
- Già, me lo dici sempre. Scusami, Liz – aveva ammesso, imbarazzato. Poi non so cosa sia scattato. Sarà stato il fatto che mi aveva chiamato come faceva il mio ex –quel verme-, sarà stato che ero sconvolta, sarà stato che… sì, volevo vendicarmi, e lo ammetto con una punta di vergogna.
Avevo baciato Roderich.
E l’avevo baciato come poche volte avevo fatto: con forza, con ardore, con… passione travolgente. Mi ero avvinghiata a lui, che immediatamente aveva reagito; non cercando di trattenermi, come faceva di solito, ma anzi mettendoci ancora più slancio e trasporto. Le sue mani da pianista si erano insinuate sotto la mia maglietta, le dita ghiacciate che accarezzavano bramose la mia pelle bollente, sotto i vestiti. Che diamine mi stesse passando per la testa, o cosa cavolo stessi combinando non lo so. Volevo vendetta e volevo Roderich, e i due desideri egoistici potevano combaciare perfettamente. Quando Rod aveva cominciato a spingermi verso il divano, avevo sentito un gemito strozzato provenire dalla cucina, e mi ero accorta che stavo, stavamo, esagerando.
- Mmmh… Aspetta, Rod – avevo mormorato tra un bacio e l’altro –Così arriverai tardi…-
Roderich, scendendo a baciarmi il collo, aveva lanciato un’occhiata all’orologio della stanza, e si era ritratto di scatto. – Dannazione, è vero! Scusami amore, corro a cambiarmi! Ne riparliamo stasera… - aveva poi detto, con un sorriso accattivante. Il comportamento del mio ragazzo era così strano che per un attimo avevo pensato che avesse bevuto. L’avevo osservato mentre di corsa aveva salito le scale e poi mi ero girata verso la cucina, dove stava Gilbert. Era sulla porta, e mi fissava, con i piedi ben piantati a terra. I suoi occhi erano come un’unica vampa, il suo volto una maschera di rabbia, di amarezza. Stringeva le mani pallide a pugno con così tanta forza da essergli diventate livide; avevo l’impressione che se ci avesse messo poca più forza, avrebbero cominciato a sanguinare. Stava per muoversi verso di me, ma l’avevo bloccato con un gesto della mano, ordinando con un filo di voce di restare immobile, finchè Roderich non se ne fosse andato.

Perché l’avevo fatto? Perché non avevo gridato, non l’avevo cacciato subito di casa, perché non avevo informato Roderich? Avevo trattato Gilbert come fosse.. un amante segreto, o qualcosa di simile.
Un attimo.
Con calma.
Del senso di colpa potrò occuparmi dopo, ora ho l’adrenalina da sedare. È ancora lì, la sento sottopelle, come una fiamma che scotta senza ustionare. Lo shock, invece, sembra essere già sparito –o forse deve ancora arrivare? Non mi rendo ancora pienamente conto di ciò che è successo, sembra tutto così irreale. Gilbert, qui? Se ci ripenso, fatico a crederci. Però… c’è; la mia mano leggermente rossa e ancora pulsante ne è la prova. Da quanto tempo non sentivo la sua voce? Quel timbro roco, quasi gracchiante, dannatamente sensua-
No.
Il senso di colpa comincia a crescere, ad arrampicarsi sul mio cuore come fosse edera. Avevo mentito al mio ragazzo, l’avevo usato per vendetta personale, e questo era tutt’altro che corretto, nei suoi confronti. Lui, sempre gentile, cortese, elegante; lui che mi tratta come se fossi il suo gioiello più prezioso, lui che mi culla nella stretta della sicurezza che mi dona ogni giorno. E io l’avevo ricambiato in questo modo. Scusami, Roderich.
Mi alzo di scatto, quasi con un salto –si, i miei muscoli sono ancora reattivi. Il mio corpo brama movimento, azione; ho un disperato bisogno di fare qualcosa.
Birra.
Ho bisogno di birra.
Entro in cucina guardandomi intorno –ho quasi la sensazione che Gilbert possa arrivare di colpo Spalanco di scatto il frigorifero, osservando le bottiglie impilate ordinatamente una accanto all’altra. Adocchio le lattine: non sono moltissime, ma pazienza, mi accontenterò. Non ho intenzione di ubriacarmi, d’altronde. Afferro la prima, stappandola con violenza e buttandone giù metà con un solo sorso. Mi lascio scivolare a terra, con la schiena appoggiata alla porta del frigo.
È come se con l’arrivo di Gilbert si fosse risvegliato l’istinto animale che, da quando se n’era andato, mi ero costretta ad addormentare. La sua comparsa aveva alimentato quella scintilla che riposava sotto le ceneri di un fuoco che, nei momenti passati, era stato tanto potente da risultare un incendio. Lentamente, soprattutto dopo aver conosciuto Roderich, avevo cominciato a scoprire un lato del mio stesso carattere che precedentemente mi era sconosciuto, o forse avevo solo dimenticato: con Gilbert la vita era come una perenne adolescenza, fatta di caos, grida, lotte, risate a squarciagola. Con Rod, invece, sono come tornata bambina. Sentirsi protetta, sicura, inglobata dalla dolcezza di cui mi circonda ogni giorno mi fa sentire senza pensieri, mi regala una leggerezza che avevo perso. Mi ha restituito l’ordine, la limpidezza di sentimenti lucenti perché puri. Roderich mi vuole bene non per come sono o ciò che faccio; mi ama perché, semplicemente, sono io. Perché esisto e sono al suo fianco. Se gli facessi del male, se lo tradissi, se cambiassi, se fossi la persona più orribile in tutta Berlino, continuerebbe ad amarmi, con una devozione rasente all’adorazione. Con lui mi sento… bene.
Però, Gilbert…
Nella mia mente cominciano a scorrere le immagini di notte passate nei bar, a ridere come gli stupidi, ubriacarci, fare cose stupide…

- Na, Liz, secondo il mio magnifico intuito che non sbaglia mai non riesci a reggere più birra di me. Scommettiamo. – Gilbert è perfettamente cosciente che vincerà anche questa volta, ma sa che non potrei rifiutare una sfida nemmeno sotto minaccia.
- Accetto, razza di pallone gonfiato, io dico che crolli prima di me. Se vinci tu, ti meriti un premio; se vinco io, ti conviene avere paura… - propongo con tono malizioso.
- Che tipo di premio dovrei vincere, sentiamo? – mi canzona, avvicinandosi e fissandomi dritto negli occhi. Sento la temperatura della stanza aumentare.
- Questo ti auguro di scoprirlo da solo, caro. – le mie labbra si distendono in un ghigno, mentre lo allontano da me con una spinta leggera ma secca.
I suoi occhi si accendono all’improvviso. Se c’è qualcosa che lo fa impazzire, è l’essere respinto - Ci sto, dolcezza – alita, facendomi l’occhiolino. Diamine, Gilbert è così sexy che posso solo reprimere l’istinto di saltargli addosso ogni volta che lo guardo, ogni volta che sorride. Quel ragazzo è così dannatamente
lui da farmi impazzire. È chimica, elettricità.
Appena il barista ci porta i boccali, afferro il mio con un gesto secco. Io e Gilbert ci lanciamo uno sguardo lungo ed intenso.
- Brindiamo alla mia stupenda vittoria! Ahah! – esclama. Lo guardo con aria di falsa sufficienza, sbuffando con un sorriso; poi mormoro un “via” secco, e insieme buttiamo giù il primo, lungo sorso.
La birra ha come unico effetto quello di risvegliare ancor più i miei sensi. Ci lanciamo occhiate dopo ogni istante per controllare il reciproco livello di ubriacatura, ma non solo: entrambi sappiamo che l’altro, da sbronzo, è la visione più bella del mondo –oltre quando siamo a letto, s’intende. Perfetti perché disinibiti, senza freni, nonostante conserviamo comunque un minimo di lucidità. Dopo il sesto boccale, mi lecco le labbra.
Comunque vada, questa notte ci sarà da divertirsi.

Rido a ripensare a quei momenti. Mi passo una mano tra i capelli, mentre le immagini dei ricordi, come in un film, continuano a scorrere; e io non posso fare altro che esserne spettatrice. E c’era l’uscire dal bar ubriachi fradici –o, per lo meno, io lo ero-, rendendoci ridicoli mentre cerchiamo di sorreggerci l’un l’altro; c’era l’incontrare la solita banda di teppisti con cui, inevitabilmente, scoppiava una rissa. C’era tornare a casa miracolosamente, con qualche livido al massimo e, senza sapere esattamente come, trovarci catapultati sul letto, un corpo sull’altro, ad ansimare…

- Ahah, Liz, mi sa che come sempre questa scommessa l’ha vinta il perfetto me! Del resto, cosa ci si poteva aspettare di meno, da un essere divino e a dir poco magnifico come me?! Ahah! – esclama Gilbert, portandomi oltre la soglia di casa in braccio, per gioco. Contrariata, comincio a divincolarmi dalla sua stretta.
- Mettimi giù – gracchio, con la voce impastata dall’alcool. Diamine, devo smetterla di accettare le sue scommesse. Maledetto spirito di competizione. Ride ancora una volta, adagiandomi con delicatezza sul divano; poi si abbandona al mio fianco, poggiandomi mollemente il braccio sulle spalle.
- Alcool e risse; cosa c’è di meglio? – sospira, con l’alito che sa di birra. I suoi occhi si illuminano, mentre dice– Lo sai cosa c’è, di meglio? Alcool, risse, e una notte di sesso. – Io m alzo di scatto, barcollante per la poca lucidità, prima che possa avventarsi con le labbra contro il mio collo.
- Sai cosa c’è di ancora migliore? Il tuo premio – affermo. Gilbert, già stupito dal mio movimento fulmineo, sobbalza quando con violenza pianto il tacco a spillo nella porzione di divano che si trova tra le sue gambe aperte, pericolosamente vicino alla zona dell’inguine. Fissa con gli occhi sgranati il mio stivale che, come ha appena scoperto, può diventare un’arma piuttosto pericolosa; poi fa scorrere lo sguardo lungo il mio corpo, risalendo lungo la gamba scoperta, osservando la gonna stretta e la maglietta larga; per poi lambire con la vista il collo, il mento, le labbra; fino ad arrivare ai miei occhi, che brillano con una sicurezza intrisa di malizia che può essere conferita solo dall’alcool. Di colpo recupera tutta la fermezza e la baldanza che sembrava gli fossero state risucchiate dallo shock precedente: lui è Gilbert Beilschmidt, e non si lascia mettere
sotto da nessuno.
A meno che la cosa non gli risulti
vantaggiosa .
Se sta buono e fermo, e mi guarda semplicemente a braccia incrociate con aria di sfida, è solo perché sa che ciò che sta per succedergli è qualcosa di molto interessante. Non ha idea di cosa sia; non gliene ho mai dato indizio, e del resto è un’idea che è balenata nella mia mente poco lucida circa… adesso. Ma non ho tempo per pensare alla prossima mossa: devo agire d’istinto, o rischio di pentirmi di ciò che sto per fare.
Con lentezza esasperante, facendo ondeggiare i fianchi, mi giro e mi dirigo in cucina. Controllo che non mi abbia seguito, e da un cassetto tiro fuori un tovagliolo di stoffa, di quelli grandi, di cotone. Al mio ritorno, Gilbert è ancora lì seduto, e mi guarda, aspettando. Afferro la sedia poggiata vicino al divano e la sposto davanti a me. Siediti, gli faccio cenno. Lui ubbidisce con un certo compiacimento. Facendo scivolare il tessuto sulla sua pelle lo bendo; vedo il suo sorriso tendersi con sempre crescente eccitazione. Chi resisterà più, a questo gioco? Chi riuscirà a gestire l'eccitazione, a mantenere l'equilibrio interiore più a lungo? Di certo è, che non lo lascerò vincere, non questa volta. Gilbert non può vedermi, ma può sentirmi; mi percepisce mentre mi muovo attorno a lui e naturalmente mi accorge quando mi siedo sulle sue gambe. Tendo una gamba verso l’alto e gli prendo una mano, bianca e bollente; la faccio scorrere prima lungo la mia pelle scoperta fino al bordo dello stivale. Con le sue dita trascino la zip verso il basso, per poi calciare via la calzatura. Mentre Gilbert acquista sicurezza, procedendo allo stesso modo con l’altra gamba, sento i suoi nervi tendersi, le sue vene pulsare; la sua pelle diventa sempre più lucida, e sempre più rovente.
Mi alzo di scatto, trascinandolo con me senza lasciargli la mano. Gilbert si lecca le labbra, poi ghigna scoprendo i canini affilati. È deciso a non perdere, cerca di tenere la situazione all’interno di sé con abbastanza equilibrio. Ma non ci riuscirà.
Elizaveta Héderváry vuole
vincere, e questa volta nulla la fermerà.
Mi avvinghio a lui mentre con lentezza faccio scorrere la sua mano sotto la mia maglietta. Appena capisce ciò che ho intenzione di fare fa salire anche l’altra mano e, con entrambe, comincia a slacciare il gancio del reggiseno che con grazia cade a terra. Nel frattempo io, che gli lascio fare il suo lavoro, con le mani gli sfioro le labbra, che si dischiudono. Prima che possano richiudersi sulle mie dita le allontano di scatto, con un sorriso che so non può vedere. Sento le sue mani fremere, per un istante. Allontano con un gesto secco del piede l’intimo che mi ha appena tolto. Gli poggio con apparente delicatezza le mani sulle spalle, ma lo spingo con forza per terra, in ginocchio davanti a me.
- Togliti la benda, Glibert – sussurro con fierezza, ammirandolo dall’alto. In ginocchio davanti a me, remissivo solo perché non vuole perdere, con le guance rosse in contrasto con la pelle diafana, il petto che si alza e si abbassa con affanno, le braccia tese lungo i fianchi con i pugni chiusi, stretti nella concentrazione di non cedere all’istinto; le labbra umide piegate nel solito, bellissimo sorriso strafottente. Con le mani febbricitanti, nervose, che bramano la mia pelle, si strappa la benda, guardando dritto davanti a sé.
In quell’esatto istante, da sotto la gonna, spezzo con un suono secco l’elastico degli slip, che scivolano con leggerezza al suolo. Ghigno.
Gilbert fissa le mie gambe con occhi sgranati.
Un colpo violento.
In un attimo mi trovo stesa a terra, con la testa dolorante. Lui è a carponi sopra di me e sta avanzando , verso le mie labbra. Dopo lo stordimento iniziale, sorrido.
- Questa volta ho vinto io – dichiaro.
Ma vengo zittita da un bacio.

Rido ancora.
Ah, quella si che era stata una notte divertente. Gilbert aveva vinto la scommessa; ma io avevo vinto la battaglia. Con uno slancio mi alzo, e afferro le lattine che ormai giacciono tutte a terra, vuote. Le butto nel cestino, passandomi una mano sul viso; la confusione non se n’è andata, nemmeno l’adrenalina; anzi, sono più pulsanti che mai. Sospiro, mentre mi avvio alla camera da letto.
Aspetterò Rod.

**Angolino di Moon**
Quanto mi vergogno. Oh, quanto mi vergogno.
*Moon va via, si mette in un angolino, e comincia a dondolare come un’idiota depressa emo*

   
 
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