Salve
a tutti.
Non
si può dire che questa sia una storia, sono solo i pensieri di un uomo. E’ un
po’ triste, vi avverto.
Spero
davvero che mi direte cosa ne pensate, indipendentemente dal fatto che vi
piaccia o meno.
Buona
lettura
suni
Fratello, dove
sei?
Uno,
due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Quante volte hai contato i passi del perimetro di camera mia, e di camera tua?
Non sopportavi che la mia arrivasse a sette, che fosse più grande.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Sono passati più di vent’anni, e le tue cose erano ancora tutte qui, nella tua
stanza. Le ho tolte ieri, ho buttato via quasi tutto, tranne qualche libro e un
vecchio album di foto. E da ieri non faccio che camminare lungo questi muri.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Ci sono anche io nelle foto. Bambino, vivace e cupo. In una ci abbracciamo,
sembriamo felici. Un’altra è a Natale, mentre ci scambiamo dei regali. Mi
ricordo: io avevo ricevuto le Gobbiglie in avorio e tu la scopa, e tutti e due
preferivamo il regalo dell’altro, così abbiamo fatto scambio.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
E’ buffo: c’è stato un tempo in cui ci scambiavamo le cose, per farci un
piacere a vicenda. Come fanno i fratelli, quelli della pubblicità, ma anche
quelli delle famiglie normali. C’è stato un tempo in cui, se uno di noi due
piangeva, l’altro rubava il cioccolato in cucina, e glielo portava.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Un tempo in cui se ricevevi un torto, io ti difendevo, quando i bambini più
grandi se la prendevano con te. Un tempo in cui, quando litigavo con mamma, tu
venivi a consolarmi in camera mentre piangevo, senza che ti importasse che
pensavi che avesse ragione lei.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Però ti rodeva, che fossi il più grande; con la stanza più grossa, con più
fiducia, più interesse intorno, più libertà di fare come volevo, finchè non
sono andato a Hogwarts. Tu eri il più piccolo: ogni cosa che facevi stupiva di
meno mamma e papà, perché l’avevo già fatta io.
E io ero insofferente quando cercavi di monopolizzare tu l’attenzione; mi
sembravi sciocco e infantile, ma lo ero anche io.
Proprio come nelle famiglie normali.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Ci volevamo bene, me lo ricordo. Ci fidavamo l’uno dell’altro, ci sostenevamo a
vicenda, anche se eravamo solo bambini. Nessuno poteva dividerci. Un solo anno
di differenza di età, che permetteva ai nostri mondi di intersecarsi.
Non che fosse rose e fiori. Ricordo ancora dozzine di baruffe, calci, graffi e
strilli. Le prime parolacce, ce le siamo dette a vicenda. Il primo pugno, l’ho
tirato a te. Il primo litigio l’ho fatto con te, e ancora me lo ricordo: volevi
il mio Librolorato, quello dove i disegni del Gatto con gli Stivali saltavano
fuori e si spargevano sul muro quando lo aprivi. Io non te lo volevo dare,
anche se non lo usavo più da mesi. Non lo so perché, ero solo un bambino.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
E il giorno del mio compleanno ricevevo sempre cose che a te sembrava di desiderare
ardentemente, e viceversa. E allora ce le rubavamo a vicenda e ci facevamo i
dispetti, di nascosto dalla mamma. E qualche volta uno dei due faceva la spia,
e volavano schiaffi e sgridate: allora ci coalizzavamo di nuovo. E in ogni
caso, dopo un giorno ogni dispetto era dimenticato, come se non fosse mai stato
perpetrato.
E quando uno dei due era in punizione, l’altro nonostante il divieto gli faceva
compagnia in camera, cercando di non farsi scoprire. E se anche lo scoprivano e
punivano, non importava per nulla, pur di poter sostenere il proprio fratello.
Te lo ricordi, Regulus?
Te lo ricordi, che una volta mi volevi bene?
Ti ricordi che ti fidavi di me più che di chiunque altro al mondo?
E quando facevi qualcosa di bello, o di entusiasmante, andavo in giro a
raccontarlo a tutti: mio fratello qui, mio fratello là, con un tale orgoglio,
come se tu fossi stato l’unico al mondo che imparava a scrivere o ad andare in
bicicletta. Mio fratello, ripetevo sorridendo. E anche tu, eri così fiero del
fratellone, quando dicevi quelle parole sembrava usassi la maiuscola: Mio
Fratello andrà ad Hogwarts. Come se nessun altro bambino quell’anno fosse stato
convocato a scuola oltre a me, anzi come se l’avessero fatta fare apposta per
me quella scuola. E io ero felice, perché mio fratello m voleva bene. E quando
ti facevo un complimento, -allora non me ne rendevo conto- sfoderavi il sorriso
più largo della storia, ti scioglievi di gioia, brillavi come un Lumos.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre-
Lo so che è scemo piangere.
Fratello.
Era magica questa parola, da bambino. Era la porta di un universo dorato e
scintillante in cui non essere mai solo, mai triste, mai scontento. Perché
c’era sempre chi mi sosteneva, e chi potevo sostenere. Inconsciamente,
istintivamente, senza averne la consapevolezza, percepivo dentro di me –come
forse tutti i bambini- il potere quasi divino di quella parolina, più
dirompente di quello di qualsiasi incantesimo che Vitious avrebbe potuto
insegnarci.
“Fratello” dicevo.
E il mondo si tingeva di sfumature nuove. Le caramelle erano più buone e i
giochi più divertenti se li condividevamo, ma non lo sapevamo allora. Era ovvio
e scontato che ci fossimo l’uno per l’altro, un bimbo non ha la concezione
della precarietà degli eventi della vita, per lui tutto sarà come è sempre
stato.
Lo so che è scemo piangere.
Fratello.
Piangevi, quando me ne sono andato. Tutto il tuo orgoglio per la grande
avventura del fratellone era sparito, e mentre cercavo di salire sul treno non
mi lasciavi, mi stringevi intorno al collo le tue piccole braccia sottili con
tutte le tue forze, e ti aggrappavi con quelle manine ai capelli, ai vestiti,
alle gambe, a qualsiasi cosa ti capitasse a tiro per non lasciarmi andare,
singhiozzando. Io volevo sembrare grande, adulto per questa grande prova che mi
attendeva, perciò mi fingevo annoiato e ti prendevo in giro perché frignavi, ma
in realtà avrei voluto mettermi a piangere anch’io. Forse avrei dovuto. Se lo
avessi fatto, chissà…
Avevo tanta paura a pensare di stare per tutti quei mesi senza di te. Te lo
ricordi, Regulus, la mamma era riuscita a tenerti e io stavo già salendo in
carrozza, ma sono risceso e ti ho sorriso, poi ti ho fatto una carezza e sono
scappato via, perché non volevo che mi vedessi piangere.
Quanto vorrei poterti fare una carezza, ora.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Fratello.
Nessuno poteva prenderti in giro, darti del fifone o dello scemo; anche se in
fondo a me sapevo che eri entrambe le cose, nessuno poteva permettersi di
dirtele, di usare le tue debolezze; abbiamo tutti dei difetti ma quelli del
proprio fratello sono secondari perché prima di tutto viene il sangue, non
quello dei titoli ma quello vero, fisico, il sangue di chi per nove mesi ha
dormito nello stesso ventre in cui hai dormito tu. Come quella volta che Lucius
ha detto che ero solo un esaltato che voleva fare il diverso, e tu gli hai
rotto il naso con un pugno anche se era grosso due volte te; non ci saresti mai
riuscito se non avesse offeso il tuo fratellone, non avresti mai trovato la
forza.
Lo so che è scemo piangere.
Fratello, com’è andata?
Ricordo il ritorno a casa a Natale. Qualcosa aveva cominciato ad andare storto:
Grifondoro, aveva detto il Cappello. Avevi sperimentato la vergogna, lo scherno
per colpe non tue; per la prima volta avevi visto il disprezzo della Madre per
il Figlio, e ti aveva spaccato in due: la mamma da una parte, Sirius
dall’altra. Ma reggevi, in qualche modo. Arrivata l’estate ti eri intromesso
nelle urla, nelle botte e nelle punizioni, avevi colto l’ingiustizia, forse per
una frazione di infinito hai scorto l’errore nella tua fazione –in quella che
lo sarebbe diventata- la chiusura, il pregiudizio. Se ti avessi teso una mano,
allora, tutto sarebbe stato diverso. Sarebbe bastato un gesto.
Hogwarts, tutti e due: Serpeverde per te, come per tutti i Black.
Te ne feci una colpa.
Fratello, ti imploro. Dall’abisso invoco il tuo perdono.
Ti ho allontanato volutamente, e mentre cambiavo non ti permettevo di capire
come né perché; ti ho lasciato indottrinare quando poche parole ti avrebbero
salvato. Sinistramente gioivo nel vederti avvicinare a Lucius, Rastaban,
Rodolphus; e ogni ora che trascorrevi con Narcissa e Bellatrix diventava una
conferma delle tue colpe. Ogni giorno ero più lontano da loro, e ogni giorno
chiudevo a te una porta in faccia, fino a un giorno diverso da ogni altro.
Fratello, ti ricordi?
“Ti odio”
Mi odi ancora, Regulus?
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Fratello, mi odi ancora?
Dall’abisso invoco il tuo perdono.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Hogwarts scivolava veloce, fuori dal mondo. Ci schieravamo già come ci saremmo
schierati dopo, fuori, nella Guerra vera. E quando provasti a schierarti
accanto a me, come un tempo, ho riso.
Avevo dimenticato. “Fratello” e non si è soli. Non lo ricordavo, e ti ho
scacciato, deriso.
“Ti odio” hai detto.
Non pensavo avresti capito. Adolescente, tagliavo il mondo con l’accetta:
bianco, nero, buono, cattivo. Non capivo le sfumature, l’affetto, tralasciavo
di considerare il sangue. Dimenticavo che tu non avevi vissuto ciò che era
avvenuto a me. Nessun uomo ha un destino deciso da un Cappello, ciò che è può
essere cambiato.
Una frase poteva forse salvarti, una frase che non ho mai detto.
Resta con me, Fratello.
Vedevo solo più i difetti: pauroso, poco sveglio, poco intraprendente.
Fratello, cosa pensavi?
Quali pensieri scorrevano nella tua mente quando incontrandoti in corridoio
fingevo di non vederti e mi voltavo dall’altra parte?
Diventasti implacabile, feroce, oltre ogni misura, ma io ho sbagliato per
primo. Lontano dalla mia influenza, eri in balia del clan di Serpeverde. Ti
facesti amico Severus perché io lo odiavo. Diventasti inseparabile da Rodolphus
perché sapevi che lo disprezzavo più di chiunque altro. Quando m’incontravi mi
aggredivi, a parole o a gesti, seguivi il loro esempio, perché non sei mai
stato bravo a pensare con la tua testa. Ma la colpa non era tua, eri fatto
così. Lo sapevo –tutti conoscono la profonda natura del Fratello, perché è
fatto della stessa carne- ma fingevo di ignorarlo. I ruoli erano cambiati: tu
disprezzavi me, e senza remore. E io ero troppo orgoglioso per capire che
avendo sbagliato per primo, per primo avrei dovuto tornare sui miei passi. Ero
più grande, più maturo e indipendente anche se non per scelta, dapprincipio, ma
non feci nulla.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Credevo davvero di disprezzarti, di provare schifo di te. L’ho creduto fino a
ieri. Pensavo di odiarti come avevi detto tu a me. Eri un nemico da
sconfiggere, come tutti gli altri.
Ora so.
Fratello, mi odi ancora?
So che non eri affatto come gli altri: eri mio fratello. C’erano i giochi, il
Natale, i pianti e le risate, le corse, gli abbracci, i morsi, gli insulti, gli
incoraggiamenti, le paure condivise e sconfitte insieme –ricordi, Regulus,
quando abbiamo imparato che il buio non fa nulla?- i dispetti, le pacche sulle
spalle, le coalizioni contro ‘i grandi’, le lacrime asciugate, gli abbracci, i
silenzi, le piccole vittorie, le sconfitte, addolcite dal reciproco appoggio,
le vacanze, i tuffi al mare, i primi voli, le confidenze, le cattiverie e i
favori, gli spintoni, le buffonate, le fughe da parenti inferociti, gli
strilli, le mani strette l’una nell’altra –migliaia di volte-, gli
inseguimenti, le domande, le sbruffonate, le ore pressati in due su una
poltrona, gli incubi notturni confidati sottovoce all’orecchio amico che
accendeva la luce, i segreti inconfessabili a chiunque altro, che di colpo
diventavano leggeri se divisi a metà, i calci, le carezze, le rappacificazioni,
i consigli.
Tutto questo non poteva essere cancellato.
Hogwarts finiva, e finiva il mondo dei giochi: fuori c’era la vita reale, e
c’era la morte.
Fratello, com’è andata?
Non l’ho mai saputo.
Punizione, mi hanno detto; tradimento.
Codardo, dissi allora.
Oggi amo pensare che il tuo ultimo giorno l’hai vissuto capendo che combattevi
per la causa sbagliata. Mi piace credere che hai tradito per coraggio, e non
per vigliaccheria. Ma non posso sapere.
San Mungo: tutto così bianco. Ricordo il vetro oltre il quale ero nascosto. Il
viso pallido di tua madre, e l’espressione desolata del medimago con cui
parlava: no, no, no faceva con la testa.
Ricordo l’urlo della Madre che perde il Figlio. Ricordo che a quel suono
lancinante mi sono piegato in due, ricordo le braccia di James che sostenevano
il mio corpo a peso morto.
Lei non mi ha fatto entrare.
“Non sei suo fratello” ha detto. Anche spezzata continuava ad odiarmi.
Sbagliato.
Sono suo fratello.
Sono tuo fratello.
Non ho potuto vedere un’ultima volta il tuo viso, così simile al mio.
Ma allora pensavo davvero che non eravamo più fratelli. Come se si potesse
semplicemente smettere di essere il fratello di qualcuno, nemmeno fosse un
contratto la fraternità. Stupido.
Fratello, perdono.
Mi sono macchiato della colpa più grave: ho condannato mio fratello, l’ho
gettato nelle fauci del nemico. Se ti avessi parlato…
Resta con me, Fratello.
Se tornassi indietro, oggi, al San Mungo, lo direi: sono suo fratello.
Entrerei, ad ogni costo, e ti guarderei un’ultima volta, a lungo, per ricordare
ogni centimetro, ogni irregolarità del tuo viso; e lo accarezzerei ancora una
volta, e laverei via con cura dal tuo corpo ogni traccia di sangue, ogni
sporcizia, minuziosamente, come da bambino quando avevi la febbre –ti veniva ad
ogni inverno, ricordi?- e ti stringerei con ogni forza, e ti chiuderei gli
occhi con le mie mani, non permetterei a nessun altro di farlo. E li chiuderei
piano piano, lentamente, perché da vivo ti dava fastidio quando qualcuno ti
avvicinava un oggetto o una mano agli occhi troppo velocemente. Li chiuderei
dopo averli guardati un’ultima volta, e ti pettinerei i capelli, amato mio
Fratello.
Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Uno, due, tre –porta- quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Se in qualche tempo, in qualche luogo, ti incontrerò ancora –mi rasserena
pensare che avverrà- ti dirò tutte le cose che per anni non ti ho detto.
Ti dirò che per tutta la vita, ho sentito la mancanza degli abbracci di mio
fratello, del suono della sua risata, della modulazione della sua voce, della
sua erre moscia alla francese. Della forma del suo sorriso –il tuo sorriso-, e
del sapore delle tue lacrime. Ti dirò, Regulus, il dolore soffocante e acuto,
irrimediabile, della perdita del proprio fratello, e tu mi dirai del tuo. Ci
racconteremo, come i due bimbi sorridenti delle tue foto. Ricorderemo quei
giorni e il loro profumo, e voglio pensare che ci abbracceremo e
dimenticheremo.
Ma forse sono solo un illuso.
Fratello, dove sei?
The End