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Autore: Yoko Hogawa    11/02/2011    6 recensioni
Tre capitoli, tre persone, tre realtà.
Una sola giornata e tre punti di vista per lo stesso evento:
"Mamma, un giorno di questi... vorrei presentarti il mio ragazzo".
Lui, la madre di lui... e il ragazzo di lui.
Tre modi diversi di affrontare un mondo che ti mette costantemente alla prova, giorno dopo giorno, silenziosamente.
Le storie di chi non vuole crollare sotto il suo peso.
[Potrebbe trattare tematiche sensibili]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Non c’è molto da dire qui, temo.

È tutto scritto di seguito.

Tre capitoli, tre punti di vista per la stessa giornata: Lui, la madre di lui e il ragazzo di lui.

Tre modi diversi per vedere la stessa situazione.

Piccola avvertenza: è una narrazione molto lenta, dunque potrebbe risultare noiosa.

Ringraziamenti a Shichan per il betaggio

 

 

Parzialmente ispirata a fatti realmente accaduti.

______________________________________________________________________________________________________

 

First:

 

 

Probabilmente, non ce la facevo semplicemente più.

« Mamma... ».

Tutte le volte che la guardavo, tutte le volte che mi sorrideva, mi sentivo in colpa.

Come se stessi infrangendo una tacita promessa che c’era fra noi. Una promessa mai nominata né tantomeno messa per iscritto, ma che aleggiava nel nostro rapporto come se facesse da sempre parte della nostra normalità.

La promessa di dirci tutto, ogni cosa. Di condividere fra noi la felicità così come i dispiaceri, i problemi a scuola e al lavoro, i dubbi, le insicurezze e l’ansia.

Tutto. Dalle capocchie di spillo ai giganteschi massi di dura roccia.

« Potresti... dire qualcosa? ».

Ti prego. Qualsiasi cosa.

La vidi sobbalzare, poi ricominciare finalmente a respirare. I suoi occhi, fissi sull’acqua che ribolliva nella pentola, fecero quello strano gioco che frequentemente avevo visto quando in casa c’era ancora papà: si spensero, e si riattivarono subito dopo con un tremito delle palpebre.

« Vai, Michael. Fai tardi a scuola ».

Come se, in quell’attimo infinito, avesse coscientemente cancellato dalla memoria l’ultima frase che avevo pronunciato.

“Mamma, un giorno di questi... vorrei presentarti il mio ragazzo.”

 

Da allora, sono passate quasi tre settimane.

 

 

He.

 

 

Quando altre paia di scarpe entrarono nel suo campo visivo, alzò finalmente lo sguardo dai mocassini marroni che completavano degnamente la sua tanto dignitosa divisa scolastica.

Come aveva previsto, stava arrivando l’autobus. Ed era pieno, ma non serviva una previsione per capirlo; lo era tutti i santi giorni.

Sospirò, e il suo fiatò si condensò nell’aria in una nuvoletta di vapore.

Rabbrividendo, racchiuse di più la testa nelle spalle, cercando il calore della sciarpa contro il collo. Nello stesso istante in cui l’autobus si fermò a poca distanza da lui, la mano destra nella relativa tasca alzò di qualche tacca il volume del lettore mp3.

< I can’t deny I am afraid, I won’t walk by and fade away. Encaptured I belong to you, so cold, astray... >(1)

Socchiuse gli occhi, ascoltando mentre saliva.

Se glielo avessero chiesto, probabilmente non avrebbe saputo descrivere il “come”.

Era semplicemente successo.

Ad un certo punto, un giorno come qualunque altro, si era accorto di amarlo. Si era reso conto che, nonostante Alek fosse un esemplare di essere umano non della peggior specie, ma di quelli cinici abbastanza per avere le potenzialità di diventarlo, non gli importava poi molto.

A lui piaceva così, con tutte le sue fisime esistenziali e i suoi attacchi di violento malumore. Con i suoi pensieri distaccati, a volte deprimenti, che egli stesso soleva definire “semplicemente realisti”.

Con quel suo carattere piccato che non piaceva subito a tutti, oppure piaceva ma dopo un po’ stancava. Alek era una persona che si doveva conoscere per più di qualche mese, probabilmente, per essere capita veramente.

Era questo che aveva sempre pensato, osservandolo da lontano. Ed era ciò che aveva continuato a pensare quando, alla fine, erano diventati amici, poi come fratelli... poi amanti.

Un lieve sorriso gli sfuggì a quel pensiero, gli occhi puntati sullo scorrere della città all’esterno del vetro. Un sorriso dolce ma, al tempo stesso, oscurato da un’ombra malinconica.

Non era giusto, pensò poi, mentre le ultime note della canzone scemavano nelle orecchie.

Essere così felice e non poterne ammettere il motivo ad alta voce, non era giusto.

« S-scusa? ».

La voce un po’ acuta di una ragazza, capelli ricci e scuri nonostante la carnagione chiara, gli arrivò proprio in quei pochi secondi di intervallo fra la canzone appena finita e la successiva. Un ottimo tempismo, gli venne spontaneo considerare, mentre per riflesso condizionato si toglieva uno degli auricolari dalle orecchie. « Sì? » rispose dunque, accigliato.

Lei parlava piano, e fra il fragore delle pareti dell’autobus in movimento riusciva a sentirla a malapena. Notò però che non indossava uniformi di sorta – nonostante avesse uno zaino azzurro sulle spalle pieno di cuoricini e scritte a pennarello – dunque il collegamento con la scuola superiore pubblica fu spontaneo.

C’era sempre stata, in quella cittadina, un certo contrasto fra la mediocre scuola superiore pubblica e la facoltosa scuola superiore privata, di cui lui faceva parte per volere di suo padre.

Certo, tutto questo nonostante suo padre vivesse dall’altra parte degli Stati Uniti con un’altra donna e i suoi due fratellastri.

« E-Ecco io volevo... sì, insomma... ecco, chiederti il numero di cellulare... posso averlo? Per favore! ».

Si era sinceramente aspettato di tutto tranne che quello. Perso nei suoi pensieri, che gli tormentavano il sonno e la veglia da ormai tre settimane, aveva ingenuamente pensato che lei volesse chiedergli informazioni, magari su di una fermata.

Solo dopo si ricordò di averla vista altre volte, sempre su quell’autobus. Ma non solo, anche al campo sportivo della squadra di atletica. A volte, lei e altre due ragazze stavano appollaiate sulle tribune durante i loro allenamenti.

Ah. Era quello, allora.

Il pensiero che avesse un’ammiratrice lo fece ridacchiare. Ma non perché fosse inusuale – ne aveva avute poche, doveva ammettere, ma contava una qualche esperienza in proposito – piuttosto perché, ogni volta, non poteva evitarsi di immaginarsi la faccia che avrebbe fatto Alek quando glielo avrebbe detto.

Probabilmente avrebbe arricciato il naso, assottigliando gli occhi, e con uno schiocco di labbra avrebbe minacciato qualcosa, concludendo con una bella maledizione contro tutte le “stalker” che avevano la faccia tosta di prendere di mira una sua proprietà.

Ah, sempre gentile il suo ragazzo.

Cancellando il pensiero e trattenendosi nella sua solita cortesia, le sorrise lievemente: « mi dispiace ma la mia ragazza non ne sarebbe troppo felice, temo... credo di non potertelo dare ».

Sconsolata, quella chiese scusa e tornò verso i sedili in fondo.

Michael, rimettendosi la cuffia nell’orecchio, tornò a fissare fuori con espressione seria.

Era talmente abituato a nascondersi, che usare il femminile ormai gli veniva naturale.

 

 

« Ancora niente? ».

Gli si avvicinò velocemente non appena suonò la campanella, segnando l’inizio della tanto agognata pausa pranzo.

Michael, tornando finalmente con la mente al presente, fece spallucce. « Parliamo il minimo indispensabile » aggiunse a voce, portando le dita della mano destra fra i capelli castano scuro, tirandoseli indietro.

Il suo interlocutore – capelli di un biondo ramato, occhi verdi, divisa scolastica portata alla bene e meglio: maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti insieme al maglioncino beige, e cravatta allentata fino al secondo bottone (slacciato) della camicia – sospirò sconsolato, spostando i vari libri e sedendosi sul suo banco a gambe incrociate. « Mi pare un bel problema, Mike » aggiunse poi, appoggiando i gomiti sulle proprie ginocchia e il volto sulle mani, osservandolo da quella posizione sopraelevata.

Michael sbuffò, allentandosi un po’ la cravatta nera e sbottonandosi il colletto. Lo guardò a sua volta, alzando un sopracciglio: « ultimamente ti ripeti un po’, Jess. Sono quindici giorni che me lo dici. Grazie, ho afferrato il concetto e ti ripeto, lo so » ironizzò appena, non riuscendo tuttavia a suonare piccato nemmeno la metà del solito.

Poteva fare di meglio, ma ormai erano altri tempi.

Jess espresse il suo disappunto roteando gli occhi. « Non intendevo quello » spiegò: « era per dire che sta diventando un problema serio. Tua madre che non ti rivolge parola per una settimana è normale. Tua madre che non ti rivolge parola per due settimane, plausibile, anche se insolito. Ma se non ti rivolge parola per tre, è un cataclisma » puntualizzò, ignorando tutti in una volta gli sguardi e i movimenti dei loro compagni di classe, probabilmente diretti alla mensa scolastica.

Jess sospirò di nuovo, puntando lo sguardo oltre la finestra chiusa. « Anche oggi niente cibo? » domandò pacato, cercando con gli occhi ciò che durante la lezione aveva tenuto così impegnati quelli di Michael.

Non lo trovò. Probabilmente perché, come al solito, anche se Michael aveva fissato insistentemente un punto del cielo grigio e nuvoloso di quel giorno non voleva dire che avesse effettivamente visto ciò che guardava.

Michael, dal canto suo, chiuse gli occhi e lasciò pendere le braccia lungo i fianchi. Si era spostato in avanti con il bacino, abbandonando la posizione eretta che era obbligato per etichetta a mantenere durante le lezioni, e ora stava facendo di tutto per impedire al suo cervello di volare alle ormai solite paturnie mentali; anche se le richieste di aggiornamenti di Jess non lo aiutavano esplicitamente ad ovviare il problema. « Scusa, non ho fame... però tu vai » gli rispose, facendo un lungo respiro e rilassandosi.

Jess scosse il capo. « Figurati, mica ti lascio da solo » bofonchiò.

Michael aveva conosciuto Jess il primo anno di scuola superiore. In poche parole, quando ancora entrambi non avevano ben presente come funzionasse il mondo dell’ high school.

Anche per quanto riguardava l’amicizia con Jess, era semplicemente successo per caso. Erano finiti vicini di banco, dato che erano gli unici della classe che venivano dalla scuola elementare senza nessun amico. In entrambi i casi, infatti, gli amici di sempre erano finiti alla scuola superiore pubblica.

Poi, con il tempo, la differenza di classe sociale cominciò a farsi sentire. Jess era nato in una famiglia di ceto medio, che però si era arricchita quando l’azienda tessile di proprietà della madre si era fatta un nome sul mercato internazionale. E quel nome, lo stesso che portava il biondo, aveva la stessa efficacia di un lasciapassare per i gruppi sociali più in vista della scuola.

Faceva parte della squadra di football nel ruolo di running back(2) e la sua ragazza era la capo cheerleader della squadra cittadina (più grande di lui, addirittura). Aveva voti nella media ma, come tutti gli sportivi di successo, contava di entrare al college con una borsa di studio per meriti sportivi. Era bello e richiesto, e se non veniva invitato ad una festa era solo perché aveva rotto il naso all’organizzatore durante una qualche litigata. Normale amministrazione.

Tuttavia, nonostante fosse così popolare, non aveva mai smesso di rimanere al suo fianco. All’inizio Michael pensava che lo facesse per pietà – presente, no? Il ragazzo figo che prende sotto la sua ala protettiva lo studente mediocre di turno in classe – ma aveva scoperto molto presto che il cervello di Jess non prevedeva un livello di ponderazione così alto. Era un ragazzo semplice, nonostante fosse effettivamente intelligente, e rimaneva con lui semplicemente perché era il suo primo amico. Il migliore, aveva detto specificatamente il biondo.

Doveva ammettere che era un pensiero che lo faceva sorridere.

Inoltre, Jess aveva giocato un ruolo fondamentale con Alek, anche se fra i due scorreva sangue amarognolo.

Gli aveva dato la forza per dichiararsi, poteva anche dire così. Se l’era presa sul personale da quando lo aveva scoperto, autoproclamandosi “il vostro Cupido di san Valentino” citato testualmente. Anche se non aveva mai capito cosa centrasse san Valentino, dato che all’epoca era maggio.

Jess era il suo appiglio. Era la schiena a cui appoggiare la sua quando non aveva la forza di rialzarsi da terra e non voleva pesare sulle spalle di Alek. Era le quattro mura di una stanza in cui poteva sussurrare i suoi segreti e i suoi problemi, sapendo che non sarebbero mai usciti di lì.

Perché se c’era una cosa che Jess era, quella era l’incarnazione della fedeltà.

« Oh, però tua madre ha rotto il cazzo ».

Beh, gli mancava solo un po’ di tatto, ecco. Doveva pure avere una mancanza da qualche parte, no?

« Jess, ne dobbiamo proprio parlare? » domandò allora Michael, riaprendo gli occhi e guardandolo fra le ciglia.

Quello, tornando a sua volta con le iridi verdi sulle sue, annuì. «» aggiunse poi a voce.

Non lo sopportava quando faceva così. La sua intenzione non era passare l’ennesimo pomeriggio a discutere su quanto doveva essere fatto e come, su cosa avesse provato per recuperare il rapporto con sua madre e altre particolarità del genere.

Voleva solo disperarsi in pace. Perché sembrava impossibile?

Sibilò qualcosa di incomprensibile, mettendosi seduto un po’ più composto, come se fosse finalmente pronto per la solita chiacchierata. Anche Jess lo notò.

« Allora? » chiese dunque il biondo, in ascolto: « come procede a casa? » domandò.

Aspettando qualche istante, Michael sospirò e socchiuse gli occhi. « Mi saluta, per lo meno, ma per il resto niente di che. Mi chiede cosa voglio da mangiare, a volte mi da la buonanotte prima di andare a dormire... ma basta. Non dice nient’altro » portò di nuovo la mano fra i capelli: « non riesco nemmeno a capire cosa pensa. Se mi dicesse qualcosa, qualsiasi cosa... se si arrabbiasse, se urlasse, forse capirei. Forse me ne farei una ragione. Ma così... » aggiunse, e fu impossibile per lui trattenersi oltre.

Era una cosa che faceva troppo male. Ma non il dolore di una ferita fresca, di un taglio sulla pelle che sanguina molto, ma oltre quello non duole poi così tanto.

Un dolore profondo, radicato. Come un cancro, qualcosa che ti erode dall’interno senza che tu possa fare niente per impedirlo. Una ferita che non sanguina, ma scava con forza il suo spazio fra le viscere, e nel farlo scatena l’inferno.

« Praticamente, è come se stesse in un mondo tutto suo » ipotizzò Jess.

Michael annuì, appoggiando i gomiti sul banco e la fronte alle mani giunte. « Non riesco più a capirla... » soffiò, mordendosi il labbro inferiore.

Si sentiva il respiro bloccato in gola, lo stomaco chiuso e quella famigliare voglia di piangere che ormai da qualche settimana invadeva la sua vita a momenti alterni.

Più che altro la sera, a casa, quando steso sul letto si girava sul fianco e osservava il buio. Quando pensava, e rifletteva, e si chiedeva “perché”.

“Perché è finita così?”

Sentì la mano di Jess sulla testa sfregargli piano i capelli, in un gesto amichevole e caldo. « Smetti di frignare, non sei una checca isterica » borbottò, probabilmente in imbarazzo, spettinandolo.

Era fatto così, Jess. Era una di quelle persone che ti faceva ridere al pensiero che l’amicizia fra un ragazzo etero e uno gay (o presunto tale) non potesse esistere.

« Sai, Jess? » cominciò allora Michael, strofinandosi senza darlo troppo a vedere gli occhi prima di rialzarli: « considerando che il tuo migliore amico sta ufficialmente con un ragazzo, certi termini potrebbero anche risultare offensivi » buttò lì, più come commento ironico che come vera e propria lamentela.

Infatti, Jess non abboccò all’amo. Oppure abboccò in pieno, e quello che disse lo pensava seriamente.

« Non sei tipo da offenderti per cose come questa ».

Non lo avrebbe mai capito.

Michael sorrise. « Già » affermò.

Passarono qualche istante in silenzio, ascoltando solamente il lontano chiacchiericcio degli studenti in giro per la scuola. Alcuni, con una pallina di carta di giornale, si divertivano a giocare a calcio in corridoio e, di tanto in tanto, i tonfi della pallina che batteva su porte e pareti arrivavano forti come fucilate in quel silenzio che tale non era del tutto.

Finché non fu Jess, incredibilmente, a mettere fine allo stallo. « Secondo me sta scappando ».

« Eh? » fu la risposta spontanea del castano, perso nel suo personale e piccolo mondo.

« Tua madre » specificò Jess: « secondo me non sa cosa fare, e allora scappa » spiegò.

A volte, è vero.

I ragionamenti più semplici sono anche i più esatti.

 

 

Lui e sua madre erano tutto, l’uno per l’altra.

O almeno... lo erano stati da quando suo padre, un bel giorno, aveva fatto le valigie e aveva alzato i tacchi.

Erano rimasti soli. Lei con un figlio di otto anni da crescere ed educare, lui con una madre che aveva una ferita al cuore ancora aperta.

Michael aveva sempre capito, tuttavia, che sua madre aveva dei limiti che non era in grado di oltrepassare.

Era una donna paziente, lavoratrice e molto in gamba. Lavorava come segretaria in un ufficio comunale, dunque aveva orari fissi e uno stipendio che le permetteva di pagare l’affitto, le bollette, il cibo per entrambi e avere sempre e comunque qualcosa da parte per le emergenze. Suo padre gli pagava la retta alla scuola privata – così come aveva pagato anche quelle delle scuole precedenti – dunque non aveva il bisogno di sborsare soldi anche per un assegno di mantenimento.

In patteggiamento, sua madre aveva deciso che andava bene così. Che altri soldi non ne voleva. Che si sarebbe arrangiata, ne era in grado, e allora “va bene, firmi qui”.

Sua madre era forte. Questo aveva sempre pensato.

Per quello vederla ogni giorno così silenziosa e mesta, come se si fosse un’altra volta rinchiusa in quel mondo a parte che visitava in passato quando non aveva intenzione di accettare la presenza dell’ormai ex marito al suo fianco, gli faceva male.

Lei era una donna forte, eppure lui era riuscito a farla crollare. Di nuovo.

Si sentiva... in colpa.

Borbottando qualcosa che non aveva nessun senso, sbatté violentemente la penna sul tavolo. Il rumore sordo rimbombò per tutta la biblioteca, facendo sì che alcune persone girassero il capo in sua direzione, e lui ignorò altamente i seguenti sussurri che riempirono il silenzio appena interrotto.

Alzandosi dal tavolo su cui tre libri e il suo quaderno degli appunti erano aperti in stile tovaglia, agguantò il cellulare dalla tracolla ed uscì.

Il bello delle scuole private era che assomigliavano molto alle università. Avevano aule grandi, professori preparati – non faticava a crederlo, con lo stipendio che prendevano – e biblioteche fornite e tecnologiche, con abbastanza tavoli da poter far studiare chiunque fosse troppo lontano per andarsene a casa, o dovesse comunque rimanere a scuola per gli allenamenti delle varie squadre sportive.

Lui non faceva parte di questo secondo gruppo, ma aveva da qualche tempo deciso che studiare in biblioteca non era una così brutta idea. Se tornava a casa, nonostante l’irreale silenzio che vi regnava, non avrebbe fatto altro che aspettare le cinque del pomeriggio – orario in cui sua madre tornava dal lavoro – senza combinare nulla, e dopo non sarebbe andata meglio. Aveva perso due giorni di studio in quel modo, e dal terzo aveva infine optato per quella soluzione.

Fortunatamente, nella scuola privata maschile in cui era stato iscritto le lezioni terminavano relativamente presto e la biblioteca chiudeva relativamente tardi.

Facendo un cenno con il capo alla bibliotecaria, in trincea dietro la reception fra due pile di libri e con il naso sulle pagine di un altro, uscì e fece qualche passo, allontanandosi dal modesto manipolo di studenti appollaiati all’ingresso per una pausa caffè e relative chiacchiere. Cercò velocemente un numero sulla rubrica del cellulare, avvalendosi di un’abitudine quotidiana, arrivando finalmente al nome che gli interessava e facendo partire la chiamata.

Attese. Non ci volle molto.

« Sei in ritardo » gli rispose una voce maschile che ben conosceva: « ...di due minuti » completò.

Michael si fece sfuggire un sorrisetto. « Stavo pensando al modo migliore per lasciarti » disse, appoggiandosi con la schiena al muro dell’edificio.

« Mh... è un problema » commentò l’altro, tranquillo come se il fatto non fosse nemmeno suo. Probabilmente aveva già smascherato lo scherzo oppure, semplicemente, non lo aveva preso sul serio sin dall’inizio. « Ti sei trovato la donna? » domandò anzi, come se fosse sinceramente curioso.

Michael ridacchiò, lasciando perdere. Non sarebbe mai riuscito a fregarlo – o meglio, non ne avrebbe mai avuto il coraggio – se Alek continuava ad avere così tanta fiducia nei suoi confronti.

« No, sono ancora una tua proprietà » disse dunque: « però ammetto che questa mattina una ragazza mi ha chiesto il numero di cellulare, in autobus » lo informò, dicendolo come se fosse una cosa di poco conto ma essendo in realtà estremamente curioso di come avrebbe reagito l’altro.

Passò qualche istante, in effetti, prima che riuscisse a sentire un grugnito scazzato dall’altra parte della cornetta: « Le hai chiesto in quanti modi vuole morire? » ringhiò e no, questa volta non scherzava.

La minaccia però non fece altro che farlo ridere di più.

« Cosa c’è che ti diverte così tanto? ».

« Tu! » rispose subito Michael: « seriamente, le ho detto che non potevo. Cos’è, non ti fidi? Sono una persona fedele » disse, osservando nel frattempo il cielo che cominciava a scurirsi. Era quello l’inconveniente dell’inverno, faceva buio molto presto.

Ci fu un breve silenzio dall’altro capo del telefono, da cui si sentì uno schiocco di labbra. « Non ho mai detto di non fidarmi, ma preferirei che non ti gironzolassero intorno » disse l’altro.

Michael ridacchiò di nuovo. « Alek, era una ragazzina! » si difese.

« Peggio del peggio, allora » commentò subito lui.

Non ce la poteva veramente fare. Gli piaceva tutto di quel ragazzo, sia il modo un po’ grezzo di porsi che la dolcezza intrinseca che riusciva ad infilare in ogni parola, in ogni frase che pronunciava.

Anche la gelosia, quelle minacce lasciate sicuramente a vuoto che borbottava a mezza voce. Suvvia, da qualunque parte la si guardasse, Alek non avrebbe mai alzato le mani su una ragazza nemmeno sotto tortura.

Non era sicuro sotto compenso, però.

« Idiota, lo sai che non lo farei mai... » mormorò appena in risposta, piegando le labbra in modo dolce anche se non gli stava sorridendo direttamente.

Anzi, era quasi meglio così. Aveva difficoltà ad esprimersi a dovere, quando se lo ritrovava davanti.

Dall’altro capo, udì una risatina. « Non c’è bisogno che ripeti di amarmi, lo so » ironizzò con finto fare saccente. « Piuttosto... » continuò poi: « a casa? ».

Michael fece spallucce (per riflesso condizionato, più che altro). « Mah, sempre così » rispose con l’aria di uno che non ne può più, di dover ripetere sempre le stesse cose.

Dall’altra parte, tutto tacque. Tanto che Michael pensò inizialmente che fosse caduta la linea, salvo constatare che si sentiva il rumore del suo respiro. « Alek? » chiamò dunque.

« Forse dovresti veramente pensare ad un modo per lasciarmi... » disse allora l’altro, con voce mesta, però questa volta molto seriamente.

Michael si batté una mano sulla fronte.

Amava Alek, lo amava davvero, ma quando faceva così provava l’irrefrenabile voglia di prenderlo a calci in bocca. Non poteva fare ogni volta attenzione a quello che diceva per paura che poi l’altro passasse le sue giornate ad autodistruggersi l’anima con il complesso della palla al piede.

Non era così che funzionava una relazione, ok?

« Alek, se ricominci con questa storia giuro che patirai una morte lenta e disonorevole » minacciò veementemente, serio nel messaggio più di quanto fosse per la minaccia in sé.

Alek sospirò. « Va bene, va bene... » acconsentì poi, anche se non dava propriamente l’idea di aver accettato il muto compromesso che Michael si era sforzato di minacciargli così bene.

Riprese a parlare, cambiando completamente argomento, dopo qualche breve istante. « Mi sa che fra poco devo andare. Cosa fai oggi, biblioteca fino a sera? » domandò.

Michael annuì: « sì. Devo finire una ricerca di Cime Tempestose » specificò con un sospiro che lasciava intendere quanto poco la cosa lo entusiasmasse.

Ci fu un attimo di sbigottito silenzio. « Ma Cime Tempestose non era nei compiti per la prossima settimana? » chiese poi Alek, stupito nel tono di voce.

Michael annuì ancora. « Quelli di questa settimana li ho già finiti » lo informò, detto più che altro come se si stesse lamentando di non averne di più.

Lui ovviamente non lo vide, ma era sicuro che adesso Alek stesse scotendo il capo con profondo disappunto. « Sei la vergogna della gente pigra » commentò sprezzante, per poi aggiungere subito: « devo andare ora, ci sentiamo per la buona notte? ».

Michael buttò un occhio sull’orologio da polso, constatando che anche per lui era ora di rientrare; anche perché cominciava ad avere un po’ di freddo. « Approvato. Ti alleni anche oggi? » si informò.

Alek frequentava il college – corso di scienze sociali – e faceva parte della squadra di atletica dello stesso, dato che aveva gareggiato anche per la squadra della sua scuola superiore. Era un mezzofondista, e le sue specialità erano gli ottocento metri piani e i quattrocento ad ostacoli.

In realtà, si erano conosciuti proprio sul campo d’atletica. Avevano frequentato la stessa scuola media, seppur in due classi diverse, e per quei tre anni in cui aveva gareggiato come staffettista erano sempre stati compagni di squadra.

Che poi ci fossero voluti due di quegli anni perché diventassero amici, era un’altra storia.

« Sì, fra poco ci sono le selezioni invernali » gli rispose pacatamente: « non fare troppo tardi, ci sentiamo questa sera » aggiunse poi.

Michael salutò a sua volta e poi richiuse il cellulare. Alzò per un ultimo istante lo sguardo al cielo coperto sempre più scuro, stiracchiandosi e dirigendosi di nuovo verso l’entrata della biblioteca.

Per un attimo, uno soltanto, notò gli sguardi di un quartetto di ragazzi dall’altra parte della strada. Ridacchiavano e guardavano in sua direzione.

Se ne fregò, rientrando nell’edificio. Non era tipo da prestare attenzione a cose infantili come quella.

 

 

Quando uscì dalla biblioteca, salutando con un cenno il custode che ne chiudeva a chiave le pesanti porte in vetro, erano ormai le sette di sera e all’esterno era completamente buio. L’atmosfera era rischiarata dalla luce elettrica dei lampioni in strada, ma il freddo era tornato pungente esattamente come quella mattina.

Alzò il mento in modo da portare le labbra fuori dalla sciarpa, soffiando nell’aria. Subito il suo fiato si condensò in una fitta nuvola lattiginosa che gli fece effettivamente capire quanto freddo facesse.

Pensò ad Alek, rabbrividendo. Non credeva assolutamente che si allenassero fuori, con quella temperatura da circolo polare artico; probabilmente si erano spostati in palestra... anzi, glielo augurava proprio.

Con le mani bene immerse all’interno delle tasche felpate del cappotto, arrivò a passo veloce alla più vicina fermata. Alzò gli occhi sulla bacheca in cui erano segnati gli orari, constatando con un moto di puro odio per i mezzi pubblici che il prossimo autobus utile alla causa sarebbe passato non prima di dieci minuti.

Dovette arrendersi all’evidenza di dover aspettare per forza e, sforzandosi di rendere la gambe e i glutei insensibili al freddo – tutta convinzione mentale, c’era chi affermava che funzionasse! – si sedette sulla panchina in ferro sotto al tettuccio. Estrasse il lettore mp3 dalla tasca del cappotto e, infilandosi gli auricolari, lo accase e cominciò a scorrere la lista delle canzoni. Non ne cercava una in particolare, non aveva semplicemente voglia di risentire sempre le solite quattro che si sparava nelle orecchie nelle mattine deprimenti (ovvero, ultimamente, sempre).

Non fece però in tempo ad arrivare ad una scelta.

« Scusa, sapresti mica quando passa il 27? » domandò una figura davanti a lui. La sua ombra gli copriva la luce del lampione, ma a giudicare dalla cintura firmata e dai jeans prettamente giovanili doveva essere un suo coetaneo o di poco più grande.

La risposta, tra l’altro, gli venne abbastanza spontanea: « dovrei vedere la tabella... » disse pacatamente, alzando lo sguardo.

Bingo. Non era niente di che: jeans stretti e di marca, catenina d’oro, maglioncino nero che aveva l’aria di essere cachemire, capelli neri laccati in un ciuffo, braccialetto a catenina d’argento e un paio d’orecchini per lobo. Non lasciava una buona prima impressione, ma sembrava uno tranquillo e lui si rifiutava di avere pregiudizi di sorta.

Peccato che, a volte, quelli che si considerano pregiudizi non siano altro che un disperato tentativo dell’istinto di gridare “fa attenzione!”.

Fu troppo tardi quando se ne rese conto. Mentre si alzava a voltava il capo verso la tabella degli orari, una mano lo prese violentemente per la nuca, stringendosi ai suoi capelli, e lo mandò a sbattere proprio sulla dura plastica della tabella stessa.

Normalmente non avrebbe accusato un colpo del genere, che tutto sommato non era nemmeno così potente. Però la presa alla sprovvista e la sua guardia totalmente abbassata fecero sì che fosse più la paura, che il colpo, a fargli del male.

Si sentì il cuore stretto nella morsa del panico e una sorta di mano invisibile che gli stringeva la bocca dello stomaco, bloccandogli al contempo anche il respiro e la voce. Tentò di dire qualcosa, qualunque cosa, ma come prevedibile non ci riuscì. Aveva la guancia destra schiacciata contro la plastica con talmente tanta forza, che le labbra erano persino piegate in una posizione strana. Anche se il colpo in sé non era stato così irruento, la prestanza con cui il ragazzo gli teneva la testa schiacciata gli faceva intendere che non fosse stato manesco apposta.

Non riuscì a pensare a niente se non ad un striminzito “cos’ho fatto?” che nemmeno arrivò a pronunciare. Le mani, nonostante fossero libere, rimanevano inermi lungo i fianchi e in mano, più per riflesso condizionato che altro, ancora stringeva il lettore mp3.

Sentì uno schioccare di labbra, poi la voce del suo assalitore riempì il silenzio solitario di quella fermata d’autobus.

« Mi è arrivata una voce, Michael. Posso chiamarti così? » domandò retoricamente, senza nemmeno aspettare la risposta: « un uccellino mi ha detto che ultimamente stai gironzolando intorno ad una persona, e quest’uccellino è particolarmente infastidito da questo tuo comportamento. Dice che è sgradevole » spiegò con tutta la dovuta calma del mondo, mentre con la mano libera dalla presa afferrò il suo polso e, con la stessa facilità di come lo aveva mandato a sbattere, gli piegò il braccio dietro la schiena in modo che non si muovesse.

Michael, dal canto suo, ancora non parlò. Stava inutilmente cercando di liberare la mente dalla scarica di terrore che gli impediva di pensare lucidamente, quando notò altre due persone arrivare dal fondo del marciapiede.

Era troppo bello, esageratamente irreale pensare che fossero lì per accorrere in suo soccorso.

Infatti, non lo erano. Lo notò anche senza vederli davvero in volto, bastarono i ghigni di complicità che gli rivolgevano, le loro labbra sfigurate dal sadico divertimento.

Erano un “branco”.

E lui era la vittima.

No, la preda.

In quell’attimo, pensare al suo nome gli venne spontaneo.

Tuttavia, i pensieri non gli impedivano di sentire ciò che gli accadeva intorno; non erano abbastanza forti per estraniarlo dalla realtà. Era fin troppo cosciente di doversi liberare, di correre, ma non sapeva come e il suo corpo non aveva la minima intenzione di obbedire agli ordini che ostinatamente il cervello continuava ad inviare ai muscoli.

Ma le gambe non si muovevano e ora, cominciava anche a sentire dolore. Sia al braccio bloccato in quella posizione strana, sia al punto della fronte con cui aveva sbattuto sulla bacheca.

« Ti piace, Michael? » sentì poi il ragazzo sussurrargli all’orecchio, il fiato caldo sulla minima porzione di guancia che riusciva a sfiorare con le labbra. Un sussurro sibillino, quasi incorporato ad una risatina divertita, ma annoiata nonostante tutto.

Non capì cosa intendesse, inizialmente. Dopo, però, gli fu chiaro.

« Se in filo una mano là sotto ti viene duro, mi dicono » aggiunse sprezzante.

Sì, fu decisamente tutto più chiaro.

Gli venne da sorridere. Ma il suo non fu né un sorriso di scherno, né un inaspettato gioco del nervosismo.

Fu puro compatimento.

« Non lo so, vuoi provare? Magari viene duro anche a te » ribatté.

Col senno di poi, forse non avrebbe dovuto farlo.

Fu per la seconda volta sbattuto contro la bacheca, afferrato rudemente per i capelli in modo da agevolare il movimento con quanta più forza possibile; questa volta fece seriamente, e fece molto più male di prima.

Poi fu tirato indietro per una terza volta, sempre per i capelli, e buttato sul marciapiede con violenza. Fortunatamente cadde su un fianco, ma era esattamente sull’orlo e non gli ci volle molto per girarsi e ritrovarsi sul suolo asfaltato della carreggiata. Sotto la sua guancia appoggiata a terra, correva la linea bianca che distingueva la corsia dalla banchina.

Però, a quanto parve, per i tre non fu un problema così grande essere quasi in mezzo alla strada.

Cominciarono a picchiarlo. Forse non così violentemente come si era aspettato, ma lo fecero con i piedi. Blateravano – poteva sentirlo nonostante si tenesse le braccia, ormai martoriate e piene di graffi, sulla testa – qualcosa riguardo a non volerlo toccare con le mani per schifezza, per non rimanere “contagiati”, per non rischiare di farlo “eccitare troppo” e tutta una lunga serie di porcherie che persino ascoltare per sbaglio era un’offesa all’udito e a tutto ciò della comune morale che si potesse offendere a parole. Ridevano nel frattempo e, in tutto ciò, continuavano a prenderlo a calci.

La schiena, i lombi, il fianco scoperto su cui non era girato. Le gambe, un ginocchio e poi di nuovo la schiena. La pancia, per una volta in cui non era riuscito a chiudersi abbastanza su se stesso, e per quel colpo il diaframma non si mosse più, bloccandogli il respiro.

Continuarono ancora.

Michael non disse e non fece niente, subendo e basta. Pregando che la smettessero, che si stancassero, che quella tortura finisse e loro si annoiassero di quel giochino, oppure completassero quel favore che, a giudicare dalle parole che aveva sentito prima che la tortura cominciasse, sembrava stessero facendo a qualcuno.

Che qualcuno arrivasse, e li cacciasse... qualcuno qualsiasi, qualcuno e basta.

Ma non ci fu verso, e loro continuarono per molto. Fino a quando, ad un certo punto, non gli sembrò nemmeno più di sentire dolore.

Di tanto in tanto un’auto passava, ma non si fermò nessuno.

 

 

L’autista dell’autobus numero 13 che lo aveva soccorso, evitando con tanta cura di fare della sua scatola cranica una gelatina, lo aveva portato al pronto soccorso più vicino chiedendo alla centrale un cambio tempestivo per la linea. Si sentiva in colpa ad avergli sporcato il gilet scuro e la camicia azzurra di sangue, nell’appoggiarsi a lui mentre lo aiutava a salire e scendere dal taxi, e si appuntò mentalmente che avrebbe dovuto scusarsi, appena il suo cervello fosse tornato ad elaborare le informazioni a regime normale.

L’infermiera dell’accettazione che li aveva accolti, invece, era sbiancata e aveva blaterato qualcosa che sembrava tanto il nome di Dio seguito da qualche preghiera.

Ma... era così grave? Doveva ammettere che si era preoccupato non poco, soprattutto perché lui non sentiva tutto quel dolore e gli sembrava, a parte la cocciutaggine dell’autista di volerlo sorreggere, di riuscire a muovere tutto alla perfezione. Beh, non “alla perfezione”, però ci riusciva.

Dopo un’attenta visita, il medico che ora stava controllando controluce la lastra al torace che gli avevano fatto aveva decretato che non c’era niente di grave, e che per la maggior parte erano solo lividi ed escoriazioni. Anche l’rx non mostrava nessun osso rotto e, di questo il medico si disse sollevato, non vi erano nemmeno costole incrinate o in condizioni peggiori.

« Sei stato fortunato » se ne uscì all’improvviso, rompendo il silenzio che si era venuto a creare all’interno dell’ambulatorio: « sei ridotto male, ma non così male » ironizzò, ma sinceramente Michael non capì se doveva ridere o meno.

Il dottore, capelli folti e brizzolati sopra un professionale camice bianco con le iniziali ricamate sulla tasca, posò la lastra sopra la busta gialla da cui l’aveva tolta, togliendosi gli occhiali e rivolgendosi di nuovo a lui.

« Michael, come ti sei fatto quei lividi? » domandò, e la sua espressione era talmente seria che riusciva ad incutere un certo timore.

Inizialmente, il castano non rispose. Scostò lo sguardo da quello indagatore dell’uomo, focalizzandosi sulle mani snelle e veloci dell’infermiera che continuava l’opera di disinfezione delle varie escoriazioni che aveva sulle braccia.

Tuttavia, probabilmente quel medico aveva una certa esperienza, per casi di quel tipo. Attese in silenzio finché non fu proprio Michael, a rispondergli.

« Una rissa, niente di che... » disse sul vago, guardando altrove.

« Non hai le ferite tipiche della rissa » intervenne allora il dottore, pacatamente: « le escoriazioni su braccia e gambe sarebbero frequenti anche in quel caso, ma avresti come minimo anche un occhio nero e il labbro spaccato. Invece, a parte quel graffio sulla guancia, il tuo volto è integro. Inoltre avresti come minimo qualche costola incrinata, invece l’rx è pulito, in quel senso. La maggior parte delle ferite le hai sulla schiena, e io credo che siano calci » spiegò con calma, le mani nelle tasche del bianco camice. Lo osservò ancora in silenzio per qualche istante, prima di aggiungere: « vuoi veramente che dica io la verità? ».

A quelle parole, Michael si morse il labbro inferiore, arrendendosi all’evidenza. Quell’uomo sapeva fare il suo lavoro meglio di come lui mentiva. « Mi hanno picchiato » rivelò con un filo di voce, quasi vergognandosi.

Con il senno di poi, si era reso conto, non aveva fatto niente, niente per resistere.

Non solo si vergognava, ma si sentiva anche... debole.

Vide negli occhi del medico lo scintillio della consapevolezza, e non si stupì nel sentirlo continuare il discorso: « per quale motivo? » domandò, paziente.

Ancora, per la seconda volta, non rispose.

Gli tornarono alla mente i momenti, uno per uno, in cui era stato alla mercé di quei tre ragazzi e dei loro calci. Delle loro risa, delle loro prese in giro e delle loro offese. Delle loro parole affilate come lame e dure come solido legno, velenose e irte di spine acuminate.

“Frocio.”

Offese che si era sempre detto di non considerare come reali, convincendosi che non gliene poteva fregare di meno. Che la gente poteva dire di lui quello che voleva, urlargli in faccia ciò che più desiderava e tutto ciò non l’avrebbe mai toccato, nemmeno sfiorato. Avrebbe lasciato correre sulla pelle insulti e occhiatine come acqua sulla plastica.

Non era stato così. Quelle parole... avevano fatto male, alla fine. Ed erano penetrate in profondità sotto la cute, lasciando segni al di là di lividi e graffi.

“Muori, scherzo della natura.”

Senza un vero perché, anche se continuava a dirsi che non era vero... aveva paura.

Quell’inafferrabile paura senza motivo, il tipo che non si può combattere, o contrastare, perché non si sa da dove proviene o cosa la provoca. Qualcosa di simile alla pura inquietudine, solo più forte.

Quando si rese conto che il suo silenzio era parso troppo lungo per una conversazione normale, il dottore aveva già ripreso a parlare.

« Te lo chiedo per una questione puramente amministrativa. In casi come questo, l’ospedale è obbligato a segnalare il caso alle forze dell’ordine e, a seconda della gravità, a sporgere denuncia. Allora, chi è stato a picchiarti? » domandò di nuovo, portatore di una pazienza al di fuori delle possibilità di molti.

Qualcosa, dentro di lui, si agitò. Non seppe dire cosa, però.

« Non li conoscevo » rispose dunque, brevemente e senza aggiungere altro.

« Sapresti descriverli? » domandò l’uomo.

Michael negò con il capo. « Mi hanno preso di spalle, non li ho visti bene » mentì.

Se li ricordava. Forse non bene i due compari arrivati dopo, ma il primo ragazzo sì. Ricordava la sua voce, soprattutto: viscida e dal tono quasi seducente, aveva vibrato vicino al lobo del suo orecchio mentre lo teneva facilmente fermo contro il vetro freddo della tabella.

Se ci ripensava, gli venivano i brividi. Ed era semplicemente disgustato al pensiero di quanto gli aveva permesso di avvicinarsi, forse inconsciamente, preso alla sprovvista.

Era stato semplicemente al di là della sua volontà.

« Capisco... » disse il dottore: « provvederò a che sia sporta denuncia contro ignoti, allora. Ora, se vuoi scusarmi avrei altri pazienti che mi attendono. Una volta che l’infermiera avrà finito, aspetta qui fuori l’arrivo di tua madre e poi puoi tornare a casa. Se avverti dei fastidi, mal di testa o qualsiasi altra cosa, torna subito in pronto soccorso » gli disse, sorridendogli affabile prima di aprire la porta ed uscire.

Michael lo salutò cortesemente, attendendo paziente ed in silenzio che la donna al suo fianco terminasse di medicarlo.

Ogni minuto che passava, però, la sensazione di malessere aumentava. Non era un malore fisico, dovuto alle ferite o alle percosse subite; era sicuro che fosse mentale, piuttosto. Era tutto dentro di sé.

Paura, inquietudine, solitudine. La sensazione di vuoto accanto a sé appena considerava di essere solo, in quella struttura. Appena pensava al fatto che, nonostante sua madre fosse sicuramente per strada diretta lì, fino a che non sarebbe arrivata lui sarebbe stato da solo.

In balia di chiunque.

Quasi riusciva a vedere il trio di ragazzi camminare lungo il corridoio asettico del pronto soccorso, le loro labbra curvarsi in ghigni poco rassicuranti e i loro occhi derisori puntati su di lui.

Trattenne improvvisamente il fiato, chiudendo gli occhi e cancellando dalla mente quella visione improbabile. Non voleva rendersi ridicolo né davanti all’infermiera, né al cospetto di se stesso.

Non era un bambino, non più. Aveva diciassette anni. Non gli era più permesso avere paura dei fantasmi.

La donna, probabilmente scambiando quel comportamento come una conseguenza delle sue cure, chiese scusa a mezza voce. Le sua mani, se possibile, divennero ancora più delicate e Michael non perse occasione per scusarsi a sua volta.

Si stava agitando per niente. Doveva darsi una calmata.

Per il resto del tempo non pensò più a nulla, concentrandosi solamente sul lavoro della donna. Osservò con attenzione come imbeveva il batuffolo di cotone idrofilo nel disinfettante, passandolo gentilmente sulle ferite per poi considerare se mettere o meno un cerotto o qualsiasi altro tipo di medicazione. Passò con delicatezza la pomata sul suo polso sinistro, gonfio e martoriato, fasciandolo poi con velocità e precisione.

Quando finalmente ebbe finito, Michael lasciò l’ambulatorio e si sedette sulla prima seggiola che trovò libera. Fuori dalla stanza l’aria era più fresca, e la porta d’ingresso poco distante faceva entrare un po’ d’inverno ogni volta che veniva aperta e richiusa. Lui era senza maglione, abbandonato svogliatamente sulle sue gambe insieme alla cravatta, e nonostante non fosse propriamente accaldato non riusciva a muovere un muscolo per rivestirsi.

Era semplicemente impietrito. Non per la stanchezza, nonostante ne sentisse lo spettro nelle vicinanze, ma per un tipo di esaustione che oltrepassava persino l’essere sfibrati. Era la consapevolezza di quello che gli era effettivamente successo a fare capolino nei meandri della sua mente e, insieme ad essa, la profonda tristezza che ne faceva seguito.

Cosa avrebbe detto a sua madre, quando sarebbe arrivata? Cosa le avrebbe raccontato, come si sarebbe giustificato?

Sicuramente con un’altra bugia, un’altra menzogna. Un’altra oncia di falsità all’interno del loro rapporto ormai compromesso.

Perché con quale coraggio poteva dirgli la verità? Picchiato perché innamorato di un ragazzo, perché qualcuno non l’aveva presa bene, non aveva semplicemente annuito per poi girarsi dall’altra parte dimenticando di aver affrontato quella conversazione.

A volte avrebbe voluto che fosse semplicemente una cosa normale. Che fosse come dire “toh, fra poco pioverà”: una di quelle cose di cui prendi atto ma che finisce per passarti di mente l’attimo dopo averla sentita.

Voleva semplicemente vivere la vita per come se l’era immaginata. Cosa c’era di così sbagliato?

Chiuse gli occhi, stringendoli mentre gli si bloccava il respiro in gola. Lui non piangeva, non era sua abitudine farlo, ma se in quel momento fosse stato nel buio della sua stanza... probabilmente si sarebbe lasciato andare.

Ma non era a casa, e non sapeva nemmeno se tornarci o meno. Non sapeva se sua madre gli sarebbe corsa incontro abbracciandolo, oppure si sarebbe tenuta a distanza e avrebbe tirato dritto fino alla portineria e basta.

Oramai, quello che sapeva di lei si era dissolto in un rumoroso silenzio. Non avrebbe mai saputo dire come avrebbe reagito alla realtà dei fatti.

E... Alek? Cosa gli avrebbe detto?

Non poteva sperare di dirgli la verità senza che lui ne uscisse per lo meno offeso, se non addirittura incazzato con il mondo intero. Lo conosceva, e per quanto bene gli volesse lui e la calma non andavano esattamente d’amore e d’accordo.

Non poteva dirgli “mi hanno picchiato perché sono gay” se quello si traduceva automaticamente in “mi hanno picchiato perché sto con te”.

Come poteva anche solo pensare che non si facesse venire come minimo i sensi di colpa per una cosa simile? Anzi, erano inclusi nel prezzo, si poteva dire.

Il pensiero di mentire anche a lui, però, lo faceva stare ancora peggio. Lui, che era la seconda persona dopo sua madre a cui aveva silenziosamente promesso di non mentire mai... non se lo meritava. Non si meritava le sue menzogne.

Bugie che sembravano impilarsi ed aumentare, diventare sempre di più e sempre più pesanti. Premevano sulle spalle come massi e, ne era sicuro, prima o poi ne sarebbe rimasto schiacciato.

Sentiva il limite avvicinarsi ogni minuto.

Trattenendo un gemito si prese la testa fra le mani, appoggiando i gomiti alle ginocchia e piegandosi su se stesso. Fece qualche respiro profondo, ma quando vide che l’agitazione non svaniva, si lasciò sfuggire una sola parola.

Un solo nome, nel tono di una preghiera.

« Alek... ».

« Sono qui ».

Sobbalzò, sgranando gli occhi per la sorpresa; sentì il cuore perdere un battito e, mentre alzava lo sguardo seguendo quella voce, i sentimenti entrarono in contrasto fra loro.

Da una parte, aveva un disperato bisogno di lui. Dall’altra, avrebbe preferito che non fosse realmente lì; avrebbe quasi sperato di essersi immaginato tutto in funzione di quel disperato bisogno di lui.

Ma non era immaginazione; capelli biondi e corti, spettinati e sudati, sfioravano con le punte un viso arrossato e un paio d’occhi di un blu profondo, in uno strano contrasto con la carnagione pallida tipica del nord Europa.

Ogni volta che lo guardava, si chiedeva come aveva fatto una persona dalla bellezza così particolare a decidere di stare al suo fianco.

Inizialmente, Alek non si avvicinò. Rimase di qualche passo poco distante, osservandolo. Sembrava riprendere fiato.

Erano cose che Michael notava. Lo faceva già normalmente, ma se si trattava di Alek la sensibilità nei confronti dei dettagli aumentava esponenzialmente.

Lo vide posare gli occhi su ogni parte del suo corpo come se stesse effettivamente considerando cosa fosse successo e quanto fosse grave. Notò la sua fronte aggrottarsi quando arrivò alla benda sul polso, e il suo sguardo farsi preoccupato immaginando ciò che la camicia nascondeva.

Tornò poi a guardarlo con la stessa espressione di qualcuno che osserva qualcosa di fragile che è sul punto di rompersi, o un prezioso vaso di cristallo inavvertitamente caduto a terra e rimesso insieme alla bene e meglio.

Michael cercò qualcosa di rassicurante da dire, ma non gli venne in mente nulla. Non prima che prendesse parola l’altro, almeno.

« Cos’è successo? » chiese. La domanda più classica del mondo.

No. Alla fine non ce la faceva, a mentirgli.

Sorrise amaramente, abbassando gli occhi. « Mi hanno picchiato, mi sa » ironizzò, ma non riuscì a farlo sorridere.

Non era nemmeno nelle sue intenzioni, effettivamente. Solo, non trovava modo migliore per dire la verità se non fingendo che non fosse nulla d’importante.

Lo osservò avvicinarsi ed inginocchiarsi davanti a lui, prendendo delicatamente fra le mani il suo polso fasciato; sempre dolcemente, vi posò sopra le labbra e chiuse gli occhi per un attimo.

Michael lo lasciò fare, sorridendo lievemente. « Non è niente, Alek. Sto bene » disse piano, come se in quel corridoio ci fossero solamente loro, come se la confusone e il via vai del pronto soccorso fossero spariti d’un tratto.

Il biondo riaprì gli occhi, ma non gli lasciò la mano. « Com’è successo? » chiese, l’espressione a metà fra la serietà ed una sorta di tormento interiore.

« Aspettavo l’autobus, mi hanno aggredito lì » rispose automaticamente, scostando lo sguardo dai suoi occhi.

« In quanti? » continuò Alek.

« Tre » rispose ancora Michael.

Poi, la domanda che quest’ultimo meno avrebbe voluto sentire: « perché? ».

Questa volta, non rispose subito. Tornò a guardare semplicemente i suoi occhi, cercando in essi una qualsiasi scusa per non fornire quella risposta, o sperando che lui lo capisse da solo.

Se anche ci arrivò, però, in essi vide solo la disperata necessità di sentirselo dire. Come se, altrimenti, una ragione simile potesse anche non essere reale.

Si sentivano sempre, nei telegiornali, notizie di aggressioni a sfondo omofobico. Persone cosiddette normali con la convinzione che la loro normalità fosse la chiave di volta con cui guardare tutti gli altri componenti della società, e con cui giudicare coloro che non si associano a tale ideale di normalità.

Sì, si sentivano sempre... ma quando capitava ad una persona vicina, o a se stessi in prima persona, la storia era totalmente diversa. La paura contro cui si doveva combattere era totalmente diversa.

« Per... te » soffiò piano, socchiudendo gli occhi.

Lo vide chiaramente, passare come un’ombra nelle iridi blu dell’altro: il senso di colpa che si trasformava pian piano in panico, divorando ogni briciolo di ragione e di buon senso.

Si sentì in dovere di fermare qualsiasi brutto pensiero che, ne era sicuro, stava proliferando nella mente di Alek.

« Ehi, non mi hanno fatto niente, ok? » disse subito, posandogli le mani sulle guance: « solo dei lividi, qualche escoriazione e un polso slogato. Non hanno nemmeno fatto sul serio » aggiunse, cercando di essere convincente per lui ma soprattutto per se stesso.

« Questa volta forse, ma la prossima? » cominciò allora Alek, ma Michael lo fermò subito.

« Ti proibisco di pensare qualsiasi cosa che si avvicini anche solo lontanamente all’idea di lasciarmi, perché so che ci stai pensando, ti conosco troppo bene » disse.

Alek fece schioccare le labbra, in disappunto.

Strinse i denti prima di sospirare e parlare di nuovo: « mi dispiace deluderti, ma non sono così forte per poter fare una cosa simile » commentò, poi portò le proprie mani a prendere quelle di Michael e, stringendole, le baciò.

Il castano non poté far altro che sorridere dolcemente. La tensione sembrava, pian piano, scivolare via.

Eppure, notava qualcosa in lui. Tensione. La presa delle sue mani, seppure sempre gentile, era un po’ più forte e serrata del solito.

Alek aveva la brutta abitudine di pensare solo a se stesso, ma di considerare molto di più le persone che amava e di cui era geloso. E nella sua considerazione, rientrava un modo contorto di dire le cose che lo preoccupavano, o di cui era insicuro, seguendo una tempistica ed un sistema di ragionamento tutto suo.

Erano quelle occasioni in cui non sapeva da che parte prenderlo.

« Tua madre? » chiese poi il biondo, alzandosi e sedendosi al suo fianco. Michael fece per lasciargli la mano – erano in pronto soccorso, in mezzo alla gente – ma Alek la tenne ben stretta, intrecciandone le dita con le proprie.

Con un secondo sorriso, Michael lo lasciò fare. « Non è ancora arrivata » gli rispose: « e tu? » aggiunse poi « chi te lo ha detto? ».

Alek arricciò il naso. « Mi ha telefonato Jess » sputò con tono arrogante.

Ah, ecco. Probabilmente lo aveva chiamato sua madre per saperne qualcosa di più.

« Non dirlo con quel tono, è una brava persona » lo difese: « ed è il mio migliore amico » aggiunse poi.

« Ero io il tuo migliore amico... » sibilò il ragazzo al suo fianco, fissando il muro dall’altra parte dell’asettico corridoio come se dovesse farlo esplodere con la sola forza del pensiero.

Tasto sbagliato. Se ne rese conto subito.

« Mi pare che tu abbia fatto l’upgrade » cercò di sdrammatizzare.

Alek face schioccare di nuovo le labbra ma la sua espressione non variò. Il castano sapeva che non avrebbe dovuto prendersela a cuore, ma Jess era un suo amico, e che lui fosse il suo ragazzo o meno voleva vederci chiaro.

« Si può sapere cos’hai contro di lui? » domandò allora

« Vuoi dire cos’ho contro quelli come lui » rispose l’altro, scostando gli occhi chiari sui suoi: « Fa parte della stessa risma di chi ti ha malmenato, vero? Omofobi figli di papà annoiati dall’esistenza » imprecò a denti stretti, tornando a fissare il muro senza però lasciargli la mano.

Quando Alek se ne usciva con certi discorsi, Michael non sapeva come rispondere. Era come se stesse dicendo le stesse cose di quella “risma”, come l’aveva chiamata lui.

Stava dividendo le persone in categorie. Così come Alek lo faceva con “i figli di papà”, loro lo facevano... con i gay.

Il concetto di base era il medesimo.

Ma non glielo fece notare. Sapeva che a parlare era la rabbia, non Alek. Era l’agitazione che sicuramente lo aveva mandato nel panico quando aveva ricevuto la telefonata di Jess, e che lo aveva spinto a venire fin lì mandando a quel paese tutto il resto.

Straparlava sempre, quando si agitava. Ma poi, ogni volta chiedeva scusa.

Inutilmente; dal canto suo, era perdonato per definizione.

Solamente allora notò un particolare a cui in precedenza non aveva dato peso. « Sei in tuta? » domandò perplesso, fissando pantaloni e giacca coordinati nei colori rosso e bianco, gli stessi del college che frequentava l’altro. Senza giubbotto, tra le altre cose.

Lui, girandosi appena, annuì. « Il campo era vicino » disse innocentemente.

Cosa non completamente vera, se per “campo” intendeva quello in cui la squadra di atletica si allenava di solito, ovvero quello che distava per lo meno tre isolati dall’ospedale.

« Alek... » disse poi, improvvisamente conscio di una terribile realtà: « sei venuto di corsa? ».

Quello, come risposta, fece un sorrisetto sbieco.

Aveva veramente mollato a metà gli allenamenti venendo in ospedale senza nemmeno cambiarsi!

Non poteva crederci! « Pazzo... » mormorò sconvolto.

« Si trattava di te » si giustificò l’altro.

« Ti ammalerai! » esclamò lui per tutta risposta.

« Ma cosa vuoi che me ne importi, scusa? » sbottò allora il biondo, mantenendo tuttavia un tono di voce normale. Michael gli riservò uno sguardo palesemente contrariato, ma negli occhi di Alek non notò il minimo segno di cedimento, così lasciò perdere. Strinse di più la mano in quella dell’altro e, scivolando più in basso con il bacino, si appoggiò con la fronte alla sua spalla.

Se ne fregò della gente, delle infermiere e di chiunque potesse passare e notarli. In quel momento era al suo fianco, il resto avrebbe aspettato.

« Le selezioni invernali... » sussurrò poi il castano, come a voler rivangare l’argomento. Sentì il capo di Alek appoggiarsi sul suo, e la stretta sulla mano essere ricambiata.

« Mettiti in testa che faccio quello che mi pare, Michael » gli disse, per poi aggiungere: « finché lo vorrai, io sarò sempre al tuo fianco ».

Non ebbe la forza per rispondergli, dato che all’improvviso tutta la tensione e la stanchezza accumulate fino a quel momento ritornarono prepotenti a prendere possesso del proprio corpo.

Semplicemente chiuse gli occhi, addormentandosi.

 

 

Quando si risvegliò era ancora seduto sulle sedie del pronto soccorso, ma questa volta inginocchiata davanti a lui c’era sua madre.

Aveva i vestiti da casa – quei pantaloni blu di una tuta ormai logora e rattoppata – ed era quasi sicuro che il giubbotto beige coprisse il solito maglione rosa con i gattini che si trascinava dietro dagli anni ottanta.

Vedendola in quel momento, con i capelli tirati sulla nuca alla bene e meglio, nessuno avrebbe avuto il coraggio di pensare che per la maggior parte della giornata vestiva completi eleganti con camicie di seta, portava i tacchi e chiudeva i capelli color mogano in stretti e professionali chignon.

Quando Michael fu ritornato totalmente in sé, sua madre lo abbracciò stretto. Non disse niente perché ci pensò quel gesto a fare tutto: si poteva sentire la preoccupazione, lo spavento ma, al contempo, il sollievo che quella situazione di tensione fosse finalmente terminata, anche se dovuta a cause di forza maggiore non esattamente gradevoli.

Non si dissero però nulla per tutto il viaggio di ritorno verso casa, in cui non fecero altro che guardarsi e tenersi per mano. Lei sorrideva appena, in quel modo tutto particolare delle mamme per comunicarti in silenzio che andrà tutto bene, e lui rispondeva non per riflesso, ma per sincero sollievo.

Si sentiva come se un mucchio di mattoni si fosse finalmente levato dal suo stomaco, e nonostante non avessero ancora parlato, il solo fatto che sua madre gli sorridesse e lo guardasse di nuovo dopo più di venti giorni non poteva fare altro che renderlo ottimista.

Se fosse stata solo l’adrenalina a causare quello sbalzo d’umore, probabilmente già la mattina successiva sarebbe tornato tutto come prima.

Arrivarono davanti al condominio, sua madre pagò il tassista e salirono insieme le scale fino al loro appartamento al terzo piano. Sua madre aprì la porta, entrarono, si svestirono e si guardarono di nuovo negli occhi.

Nessuno dei due aveva la minima idea di come cominciare o di cosa dire. Continuavano a guardarsi in silenzio, uno sperando che fosse la donna a dare inizio ad un qualsiasi discorso, l’altra dando per scontato che quest’onore spettasse al figlio.

Alla fine, dopo un minuto buono, la madre chiuse gli occhi e fece un profondo sospiro. « Hai fame? » domandò poi, riaprendoli.

Michael, sollevato, negò con il capo.

« Meglio, anche io ho lo stomaco chiuso » commentò la donna, togliendosi le scarpe e posandole ordinatamente all’interno del mobile all’ingresso: « faccio del tè. Qualcosa dovremo pur mangiare a cena » considerò, incamminandosi in direzione della cucina. Nell’aria aleggiava ancora il profumo della carne – probabilmente l’avevano chiamata che aveva già cominciato a preparare la cena – ma erano entrambi consapevoli che sarebbe stata buttata via, perciò non si rimise nemmeno a terminare la cottura, prendendo direttamente la teiera.

Michael, una volta che si fu tolto le scarpe a sua volta, si diresse subito verso il divano dopo la zona cucina. Si sedette tranquillo nel suo solito angolo, rilassandosi all’atmosfera familiare che emanava la casa.

Era un po’ preoccupato per Alek, in realtà, ma era quasi consapevole che fosse rimasto in ospedale fino a che non era arrivata la madre. Conoscendolo, inoltre, probabilmente aveva calcolato i tempi in modo tale da sparire ancora prima di incrociarla anche solo per sbaglio. Non si conoscevano di persona, Alek e sua madre Elise, ma il biondo aveva visto una sua foto e di sicuro sarebbe stato tranquillamente in grado di riconoscerla.

Una volta che il tè fu pronto, Elise tornò in direzione del divano con le due tazze di liquido fumante. Il tipico odore del tè appena fatto si diffuse nell’aria e, accompagnata da tale aroma, sua madre si sedette nell’angolo opposto del divano, coprendo le proprie e le sue gambe con la coperta di pile.

Una volta che fu seduta, ed ebbe sorseggiato il tè, prese parola di nuovo. « Adesso parliamo un po’, ok? » domandò, a dire il vero un po’ minacciosamente.

Michael annuì, assaggiando a sua volta l’inimitabile tè di sua madre. «» aggiunse a voce, aspettando che fosse lei a fare la prima domanda. Perché quando Elise diceva “parliamo”, la prima domanda era sempre la sua.

« Sei gay? ».

Si sapeva anche che Elise, quando diceva “parliamo”, era psicologicamente preparata a non avere remore o peli sulla lingua.

La domanda in sé, nonostante Michael conoscesse queste particolarità, fu come attaccare un pezzo di scotch ai peli del braccio e poi strapparlo via.

Lui si prese qualche istante prima di rispondere, osservando il liquido ambrato nella tazza. « Non lo so » ammise poi, decidendo di parlare a cuore aperto.

Non avrebbe mai più vissuto l’esperienza protrattasi fra loro nelle ultime settimane; se qualcosa doveva succedere, sarebbe definitivamente successa da quella sera in poi e lui avrebbe affrontato qualsiasi conseguenza ne fosse derivata.

Anche Elise si prese il suo tempo. « Non lo sei? » domandò dunque, il tono pacato ma serio.

« Non so nemmeno questo » rispose Michael, questa volta subito dopo la domanda: « so solo che sono innamorato, mamma. Come mai lo sono stato, e so che nonostante questa persona sia un ragazzo come me ho deciso di cercare di viverla come posso » disse. Alzò gli occhi su di lei, la tazza ancora vicina alle labbra: « è sbagliato? » domandò a sua volta.

Sua madre bevve un altro sorso di tè. « Dipende » sentenziò poi, continuando: « il concetto non è sbagliato. Secondo la morale lo sarebbe, ma io ho perdonato per anni un marito che mi tradiva, dunque non sono la persona migliore per impartire lezioni di morale » aggiunse con lo stesso tono calmo.

« E allora cosa ci trovi di ingiusto? » partì al contrattacco Michael.

« Dal punto di vista logico, nulla » ammise, facendo però solo una breve pausa prima di riprendere: « ma sono una madre, non riesco a pensare a mio figlio dal punto di vista sistematico con cui impilo documenti sulla scrivania del mio capo » disse. Prese un altro sorso di tè, per poi continuare: « so che ti chiedo uno sforzo, ma cerca di metterti nei miei panni. Cerca di immaginare di avere un figlio e immagina per lui un futuro; un futuro in cui lo vedi diplomarsi, laurearsi e trovare lavoro. Immagina la prima volta che ti porta a casa la sua ragazza, il momento in cui te la presenta, il momento in cui lui ti dice di averle chiesto la mano. Immagina le nozze, la cerimonia, le cene con i parenti e i nipotini che corrono ai tuoi piedi in una bella casa con un giardino verde e pieno di fiori. Immagina... che tuo figlio abbia tutte le cose che tu non hai avuto la forza di avere, o che hai sfiorato con le dita senza riuscire ad afferrarle, oppure che hai avuto e perso. Una bella casa, un consorte fedele, una famiglia unita... » un’altra piccola pausa, gli occhi lucidi puntati sul soffitto: « non si tratta di logica qui Miky(3), lo capisci? » aggiunse con un filo di voce, deglutendo per non lasciare che le lacrime la vincessero.

Michael, dal canto suo, aveva fatto tutto ciò che gli aveva chiesto di fare. Aveva immaginato un suo possibile figlio, aveva costruito attorno a lui una vita perfetta... ma ancora non si sentiva nel torto, non si sentiva sbagliato più di quando aveva preso il coraggio a due mai e aveva rivelato a sua madre di frequentare un maschio.

Probabilmente, era semplicemente impossibile per un figlio mettersi nei panni della propria madre.

Chiuse gli occhi, sospirando. « Sì, capisco almeno quello. Ma non posso mettermi nei tuoi panni, mi dispiace mamma... non ce la faccio » disse sinceramente, abbassando lo sguardo sulle proprie ginocchia coperte dalla soffice coperta di pile.

Non aveva mai pensato che parlare con sua madre potesse costargli così tanto coraggio. Aveva sempre discusso con lei nella maniera più leggera e libera immaginabile, anche se, doveva ammettere, non su problematiche di quel calibro. Al massimo erano problemi con la scuola, o con l’atletica, o con qualsiasi altra cosa normalmente riguardante la vita di un adolescente come tutti gli altri.

Finché non aveva smesso di essere un adolescente come tutti gli altri, almeno.

Rimasero entrambi in silenzio per minuti che parvero ore intere.

Finché, questa volta, il coraggio di infrangere quel nuovo muro non venne proprio dal ragazzo: « cosa vuoi che faccia? » chiese, puntando lo sguardo indeciso prima sugli occhi della madre, poi sulla lampada direttamente alle sue spalle.

Elise rimase in silenzio per qualche altro istante. « Se te lo chiedessi... lo lasceresti? » rispose poi con un’altra domanda, seria ed inamovibile.

Michael temeva un risvolto del genere. Ingenuamente, dentro di sé, aveva pensato che sua madre potesse capire, che potesse addirittura accettare il fatto che la persona più importante della sua vita, da quel momento in poi, sarebbe stato un ragazzo poco più grande di lui.

Una persona del suo stesso sesso.

Come un bambino piccolo che crede nel potere delle fate, aveva creduto fermamente che sua madre avesse capito quanto ci teneva e, sorridendo, gli avesse detto “va tutto bene” con quella sua voce dolce che lo metteva sempre a suo agio. Che, in qualche modo, sarebbe forse stata anche un po’... felice, per la felicità che con Alek sentiva di avere raggiunto.

Evidentemente, però, era altrettanto vero che le bolle di sapone scoppiano non appena si tenta di afferrarle con le mani.

Poiché quello erano i suoi desideri: fragili bolle di sapone.

« Mi stai chiedendo... » soffiò, facendo del suo meglio per far sì che la voce non tremasse: « ...di rompere con lui? » terminò, non potendo trattenere un fremito.

Elise fu inamovibile. « Lo faresti? » domandò di nuovo.

Il panico lo invase del tutto. Partì dallo stomaco e risalì pian piano, infettando il cuore, facendogli aumentare i battiti fino a sentirli rimbombare fastidiosamente nelle orecchie. Ormai non guardava né sua madre né la lampada sul tavolino alle spalle della donna; aveva fissato lo sguardo sulla tazza di tè che teneva fra le mani, occhi sbarrati e fiato corto, totalmente in balia del dubbio.

Cosa rispondere? “No” e continuare la storia con Alek, o “sì” e rimettere in piedi il rapporto con sua madre?

Era una scelta che non poteva fare. Cos’avrebbe fatto la maggioranza delle persone? Sarebbe fuggita di casa con l’amante pur conscia di fare uno sgarbo all’unico genitore a cui è importato qualcosa del figlio, oppure avrebbe obbedito alla madre infrangendo non solo il proprio cuore, ma anche quello dell’amante?

Perché lo sapeva, lo poteva quasi immaginare il volto di Alek impietrito dalla sorpresa. Sarebbe stato ore a fissare lo schermo del cellulare prima di avere la forza di respirare di nuovo e, ne era sicuro, il primo respiro consapevole sarebbe stato il preludio alla vera disperazione.

Alek non era una persona in grado di capire quand’era il momento di smettere di farsi del male.

Trattenne il fiato, sentendo il diaframma premere sui polmoni come se fosse in apnea sott’acqua da troppo tempo e gli servisse al più presto una boccata d’aria. Respirò di nuovo, ma nulla più che un minimo rivolo d’aria entrò fra le labbra quasi serrate.

No... non poteva. Non voleva. Era ingiusto.

Sua madre lo stava mettendo all’angolo. Gli stava chiedendo di scegliere fra due cose importantissime della sua vita sapendo già quale avrebbe scelto. Era schifosamente ingiusto.

Quello che fece più male, però... fu il pensiero delle labbra di Alek piegate in un sorriso gentile mentre gli diceva un semplice “non fa niente” e, ingoiando la tristezza per i momenti di solitudine...

...semplicemente lo lasciava andare.

Perché sì, com’era sicuro che l’altro sarebbe caduto preda di una disperazione senza via d’uscita... sapeva anche che non avrebbe cercato di trattenerlo o fargli cambiare idea.

Per questo era... profondamente ingiusto. Alek non avrebbe lottato.

Non se la richiesta fosse arrivata da Michael.

Non avrebbe lottato.

« I... Io n-non... » balbettò nel pieno della sua crisi interiore, fissando il liquido ormai tiepido con lo sguardo a dir poco terrorizzato.

Non sapeva se sua madre lo stesso osservando, che espressione avesse in volto o cosa le passasse per la testa. Sapeva solo che non avrebbe mai voluto vedere quel sorriso triste dirgli addio ma, al contempo, non poteva sopportare la visione di lui e sua madre separati in casa.

Era sua madre. Loro erano una famiglia da due. E lei lo sapeva.

Sapeva benissimo che avrebbe comunque scelto lei.

« Miky, calmati. Respira » intervenne poi sua madre, mettendosi dritta sul divano e appoggiandogli una mano sulla fronte. Non sapeva quando aveva cominciato a tremare, ma se ne rese conto dal fatto che la mano fresca di sua madre era più ferma della fronte su cui era appoggiata.

« Non... chiedermi una cosa simile... » balbettò sussurrando, socchiudendo gli occhi come un imputato che aspetta la sentenza che lo condannerà alla galera.

« Non te lo sto chiedendo » gli disse.

Sobbalzò. Non gli parve vero.

« Eh? » domandò infatti, rialzando lo sguardo su quello della madre.

Stava... sorridendo. Appena un po’, ma sorrideva. « Non te lo sto chiedendo » ripeté lentamente, riaccomodandosi sul divano e prendendo un altro sorso di tè.

Michael era del tutto scioccato. Era consapevole che alcune lacrime erano finalmente sfuggite al suo poco autocontrollo perché le aveva sentite scivolare sulle guance e cadere sulla coperta, ma non gli importò. « Cosa stai... » sussurrò, allibito.

Elise sospirò, sorridendo un po’ più ampiamente. « Non è la vita che mi immaginavo per te, ma sei giovane... le cose cambiano rapidamente, alla tua età » probabilmente stava esprimendo una speranza, nel profondo di sé, ma non diede tempo a Michael di porsi il dubbio: « ma è anche vero che ormai sei grande, e riesci benissimo a ragionare per conto tuo. Fai quello che vuoi, finché ti rende felice » aggiunse, chiudendo gli occhi mentre terminava in un sorso tutto il contenuto della tazza.

Michael provò un sollievo tale, che pensò addirittura di non averlo mai provato prima di allora. Si lasciò andare ad un breve singhiozzo poi, ridacchiando, si asciugò occhi e lacrime con la manica del maglione. Balbettò anche quelli che dovevano essere dei ringraziamenti, ma non fu totalmente sicuro che sua madre avesse effettivamente capito che lo erano.

Tutto ad un tratto, il mondo riprese una buona parte dei suoi colori.

« Ah, chi era quel ragazzo biondo? » domandò poi la madre, saltandosene fuori dal nulla.

Lui, terminando di asciugarsi gli occhi, la guardò. « Eh? » domandò accigliato.

« All’entrata del pronto soccorso, quando sono arrivata, c’era un ragazzo biondo. Se ne è andato non appena mi ha vista » disse, inclinando appena la testa di lato.

Michael capì subito di chi si trattava. « ...Alek » mormorò, posando di nuovo le labbra alla tazza.

« ...è lui? » chiese, curiosa.

«» rispose il ragazzo, terminando a sua volta la bevanda.

« Mh... » mugugnò Elise, inarcando appena un sopracciglio: « hai dei buoni gusti. Come la tua mamma » se ne uscì, tutto sommato abbastanza tranquillamente.

Michael ridacchiò appena: « Lo so » ammise, allegro.

Anzi no, felice. Di quella felicità che poche altre volte aveva avuto il coraggio di ammettere di provare.

« Ma deve smettere di fumare, aveva l’aria di un fattone. Oh, e... » una piccola pausa, un sorrisetto sottilmente allusivo sulle labbra carnose della donna: « ...lo voglio conoscere ».

Michael, se possibile, sorrise ancora di più. Rise, anzi, riempiendo la stanza di quella complicità che aveva ritrovato con la madre e di quella gioia incondizionata nel poter condividere con lei l’esperienza forse più importante della propria vita sino a quel momento.

Poco importava che lo avessero picchiato, che il motivo fosse la sua sessualità e che sua madre lo avesse ampiamente immaginato fin dal primo momento in cui lo aveva visto, malmenato e pieno di bende, seduto su quelle seggiole di plastica nel corridoio del pronto soccorso.

Erano cose che avrebbe potuto evitare con un po’ d’attenzione in più.

Da quel momento in poi, anche se avrebbe comunque dovuto fingere di fronte al resto del mondo, almeno non lo avrebbe fatto con le persone per lui più importanti. Era libero dalla menzogna, libero dalla tensione che gli impediva di vivere liberamente, e quel risultato era arrivato inatteso quasi come un fulmine a ciel sereno.

Aveva patito, ma da quel dolore era letteralmente rinato.

Alla fine era vero. Ciò che non uccide, fort-

Un attimo... cos’aveva detto?

« Fumava?! ».

 

 

First: He ~ End.

 

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1. Strofa di “Surrender” dei Vanishing Point.

2. Il running back è uno dei ruoli più importanti del football insieme al quarterback. È il corridore che parte da dietro alla linea di attacco e penetra la linea di difesa avversaria, solitamente andando direttamente a meta o comunque guadagnando molto terreno. Ce ne sono di due tipi: il fullback è il più potente, quello che porta palla nei giochi più duri e passa sfondando al centro, mentre l’halfback deve essere agile e veloce per le corse laterali. Jess gioca quest’ultimo ruolo.

3. Una piccola precisazione sul suo nome e su come va letto ;D “Michael” si può leggere in molto modi, qui è inteso all’italiana “maicol”; i diminutivi che gli danno sono “Mike”, dato da Jess, che si legge normalmente “maic” e Miky, dato dalla madre, che invece si legge “maichi”.

   
 
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