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Autore: Valpur    12/02/2011    4 recensioni
Come nelle fiabe, no? "C'era una volta"...
Ma anche no. Niente principesse, niente elfi, fatine, cavalieri, niente bei tenebrosi o unicorni o draghi. Niente. Nada de nada.
In compenso nell'iperuranio c'è chi si annoia di brutto. Anzi, magari si annoiasse.
E così succede che le frustrazioni degli Immortali vanno a riversarsi su qualcuno di molto, molto sfigato e inadatto.*Storia scritta in occasione del NaNoWriMo 2010*
Genere: Avventura, Comico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sara non aveva mai visto un bosco del genere.

Certo, lei era ben abituata al contatto con la natura. D’estate, o comunque quando il tempo lo permetteva, svolgeva con disciplina i suoi riti. Soprattutto in occasioni delle grandi festività, durante i solstizi e gli equinozi, era solita sgattaiolare fuori dalla sua stanza, con, nello zaino, un mantello nero, candele e tutto il necessario per i rituali. Offerte per gli spiriti, ghirlande di fiorni, latte, miele, cose così. Poi prendeva la sua vecchia bicicletta e correva il più veloce possibile verso il grande parco poco distante. Attraversava la città, superava la scuola e si inoltrava nella periferia fino a raggiungere le due casupole di legno dei guardaparco. Lì li intravedeva gli specchi calmi dei piccoli laghi. Serviva solo trovare un luogo appartato e tranquillo, inginocchiarsi e accendere le candele. Circondata dai quattro elementi –l’aria del cielo sopra la testa, l’acqua del lago, il fuoco delle candele e la terra su cui poggiava- pregava ed entrava in sintonia con la natura, sentendosi parte di essa. I suoi genitori la prima volta erano impazziti di preoccupazione trovando il letto vuoto, poi ci si erano abituati. Anche se la costringevano sempre a portarsi dietro il cellulare.

Le piacevano, quei boschi: betulle e prati soffici, qualche felce odorosa, il canto di una civetta lontana.

Ma quel bosco era diverso. Era spaventoso. Sebbene fosse giorno pieno le querce erano tanto fitte da chiudersi sopra la sua testa in una volta impenetrabile dalla luce del sole. Il sottobosco era selvatico, irto di rovi e rami morti che si impigliavano nella sua gonna e la strappavano.

Da qualche parte, poco distante, risuonò un ululato. Un altro rispose dal lato.

Lupi. Non posso crederci: ci sono i lupi!

Il canto agghiacciante delle bestie si intonò in un solo, unico gemito. Quasi in risposta, dal fitto della foresta si udì un trapestio incredibilmente forte. Per un istante Sara scorse gli ampi palchi di un paio di corna, che però sparirono subito tra la vegetazione.

Avanzava a fatica. Le bruciavano le gambe, graffiate da centinaia di spine, e aveva il fiatone.

Ma doveva allontanarsi ancora… forse, fuori da quel groviglio di rami e foglie scure, si sarebbe svegliata. Era tutto assurdo, surreale eppure dettagliato come nei sogni, quelli particolarmente sgradevoli. Il problema, si trovò a pensare, era che nei sogni la pelle non sanguinava e non faceva male, quando si lacerava.

Continuò ad avanzare sempre più lentamente, deviando a destra e a manca appena il sottobosco si faceva troppo fitto per attraversarlo.

Da quanto stava correndo in giro per quel bosco maledetto?

Un corvo prese il volo da un ramo lì vicino, passandole a una spanna dalla testa e strappandole uno strillo. Angosciata si portò le mani alla bocca, cercando di attutire i suoni rauchi che ne fuoriscivano.

Sara si costrinse a fermarsi.

Calma. Ora ti calmi. Ti fermi un attimo, respiri a fondo e ti calmi. Era solo un corvo, solo un corvo. Un figlio della Dea, non ti farà alcun male se tu non gliene fai. È solo ciò che è, non ti vuole male, lo hai solo spaventato.

Si appoggiò al tronco umido e viscido di muschio di un albero. Il cuore le batteva così forte che se lo sentiva rimbombare in gola e nelle orecchie. Sentiva in bocca il sapore metallico del sangue e aveva le labbra intorpidite. E sete, tantissima sete.

L’esigenza fisiologica del momento le riportò un attimo di razionalità.

Si guardò intorno. Il bosco era rigoglioso. Sentiva gracidare le rane: doveva esserci dell’acqua, lì vicino: non doveva fare altro che trovarla e berla, e almeno un problema lo avrebbe risolto.

Questa era la parte semplice.

Si mosse cautamente. A qualche decina di metri di distanza sentì distintamente lo starnazzare delle anatre; deviò con decisione verso quella direzione, sentendosi che avrebbe trovato di che dissetarsi.

Almeno in quello, aveva ragione: c’era un laghetto. Un piccolo lago che, in condizioni più calme, avrebbe riconosciuto come uno dei tanti sulle cui rive aveva pregato più di una volta.

La differenza era la boscaglia circostante. Le canne e le tife sulle rive erano più alte di un uomo, spesse e fitte.

Spinta dalla necessità si avvicinò, ignorando il fango che le incollava le suole degli anfibi al terreno.

Qualcosa di molto leggero e molto fastidioso le si appiccicò alla faccia mentre iniziava ad inoltrarsi tra i lunghi steli rigidi. Sbuffando cercò di spostare quei filamenti collosi.

“Ma che pall…”
Il ragno proprietario della tela, offeso a morte nel vedere la sua opera d’arte e d’ingegneria demolita dal passaggio di quel grosso essere goffo, le si infilò in bocca.

Sara urlò e sputò e iniziò ad agitarsi. Si prese a schiaffi la faccia, incurante del male che si faceva al naso a furia di botte; il ragno, perplesso, semplicemente saltò fuori da quel buco umido e caldo e pieno di rumore e tornò alle proprie faccende. Sara non smise di andare nel panico ancora per parecchio.
Con il fiato corto, quasi accecata dai capelli che le spiovevano davanti agli occhi, iniziò a brancolare tra le canne. Una radice sporgente le si avvolse attorno alla punta del piede. Mulinò le braccia per mantenersi in equilibrio, ma si rivelò essere una mossa inutile. In pochi secondi finì per scivolare e schiantarsi a faccia in giù nel fango melmoso della riva.

Ormai aveva già ricominciato a piangere. Versi convulsi, pieni di angoscia, che non riusciva ad articolare e a controllare. Si sentiva il labbro inferiore teso in fuori e verso il brasso in una smorfia da bambinetta disperata, e in quel momento si sentiva esattamente così.

Provò ad alzarsi. La mano sdrucciolò di nuovo quando era ormai quasi in ginocchio e cadde nuovamente.

“Vaffanculo!”

L’urlo riecheggiò nel silenzio quasi sacro del bosco, spaventando due cormorani che se ne andarono gridando.

Sara restò lì, inginocchiata nella palta che odorava di marcio e di fermentato; contò lentamente fino a dieci, aspettò che le lacrime la smettessero di gocciolarle addosso, quindi con movimenti cauti e lenti provo a rimettersi in piedi. Rischiò di cadere un altro paio di volte, e quando alla fine capì che aggrapparsi alle canne era perfettamente inutile riuscì a riacquistare una posizione eretta.

Abbassò desolata lo sguardo. Era quasi uniformemente ricoperta di fanghiglia verdastra, puzzava da morire, le calze erano ridotte a brandelli.

In quel momento, quando era abbastanza ferma da rappresentare una preda appetibile, arrivarono le zanzare.

“No! Anche questo no!”

Il tempo di imprecare un paio di volte e il polpaccio sinistro era già punteggiato da cinque ponfi rossi e pulsanti.

Aggrottando le sopracciglia, Sara uscì dal fitto canneto. Aggirò per qualche centinaio di metri il perimetro del lago e si rese conto che, poco più in là, la riva era più dolce, una sorta di spiaggetta di sassi priva di piante acquatiche. Si avviò a passi decisi e rapidi, grata di avere un terreno solido e stabile sotto i piedi invece dell’infido pantano di poco prima.

Finalmente poté inginocchiarsi sulla riva; l’acqua ferma le restituì la sua immagine riflessa, e Sara fu lì lì per rimettersi a piangere. Aveva il viso pallido, a chiazze rosse per il pianto, graffiato; il trucco nero era sbavato fino al mento, lasciandole lunghe righe scure e spalmate su tutte le guance. Gli occhi erano gonfi e arrossati, i capelli arruffati e pieni di foglie, rametti e terriccio.

Sembrava un cadavere in putrefazione. Forse un po’più zozza, persino di un corpo appena riesumato dalla nuda terra.

Ma era arrivata all’acqua. Immerse gli avambracci, ringraziando il clima ancora mite, si sciacquò alla meglio e bevve lunghe sorsate dalle mani a coppa.

Il primo pensiero fu che quell’acqua faceva schifo. Tanto, tantissimo schifo. Sapeva di fango e alghe e di qualcosa di un po’ più disgustoso, vagamente putrido.

Ma questo primo pensiero fu rapidamente scacciato dalla sensazione piacevole del liquido fresco che le scorreva giù per la gola riarsa. Bevve fino allo sfinimento, riempiendosi la pancia d’acqua come se non ci fosse un domani.

Quando finalmente si rialzò, si rese conto che le ombre erano lentamente strisciate dentro al bosco. Il sole era scomparso dietro le chiome degli alberi e la foresta aveva un aspetto più cupo.

Si sta facendo tardi, pensò Sara con un brivido che era solo per metà di paura. La penombra infatti stava portando con sé un alito fresco, l’aria fredda delle notti d’autunno. Sconsolata, la ragazza si guardò. Non aveva nulla per coprirsi ulteriormente, nessuna coperta per scaldarsi e nessuna idea di dove andare. Pensò per un attimo di mettersi a urlare e implorare aiuto, ma aveva la certezza matematica che nessuno l’avrebbe sentita. E se anche l’avessero sentita, non era poi così convinta di voler essere trovata magari da un rude boscaiolo a digiuno di donne da mesi e incredulo davanti a una così facile preda.

Aveva paura, e tanta, ma tremando si rese conto che l’unica alternativa era quella di rannicchiarsi da qualche parte e aspettare che passasse la notte.

Si allontanò dal lago e dalle relative, sempre più insistenti zanzare. C’era una gran quantità di alberi da scegliere, e alla fin fine per Sara uno valeva l’altro. Si acciambellò tra le radici di una quercia particolarmente grande e cercò di calmarsi.

Era scomodo. Umido. Aveva una radice che le premeva ostinatamente contro la schiena, e girarsi era inutile perché qualche altro legnol’ avrebbe pungolata da qualche altra parte, quindi cercò di rassegnarsi all’inevitabile disagio.

La luce del sole svanì definitivamente dal bosco, lasciandolo avvolto nel grigio e lungo crepuscolo dei giorni attorno all’equinozio d’autunno. Un gufo si svegliò e tubò mesto dai rami alti. L’intero bosco era un risvegliarsi di piccoli suoni striscianti.

Le foglie marce, i cadaveri degli anni precedenti, scricchiolavano, impossibile sapere se per il vento o il passaggio di animali notturni.

Per un momento Sara riuscì a calmarsi, o almeno ci si costrinse. Si rannicchiò contro il tronco, portandosi le ginocchia al petto, e chiuse gli occhi. Respirò lentamente, imponendosi di controllarsi e ascoltando il battito del suo cuore.

Lì non c’era nulla che potesse farle male. Era nel grembo della Madre Dea, e lei sapeva di essere la sua prescelta. Altrimenti perché sarebbe stata discriminata dagli altri, se non per la sua superiore capacità di Vedere e Comprendere? Era nel suo elemento, un mondo ancora vergine, o quasi, lontano dal cemento e dalla smania di conquista dell’uomo.

Poi sentì di nuovo il rumoroso frusciare tra le fronte. Questa volta il cervo maschio le passò davanti di corsa, ansimando. Sara lo vide chiaramente nonostante fosse ormai buio. Era un colosso, oltre due metri con quelle corna spropositate. E stava scappando.

Non ci volle molto perché Sara capisse da cosa stesse scappando. I lupi, molto probabilmente gli stessi che aveva udito ululare qualche ora prima, comparvero quasi dal nulla e si misero alle calcagna del cervo. Un istante e tutti erano di nuovo svaniti nel folto degli alberi.

Sara era impietrita. Erano stati poco più che un lampo di grigio contro il nero del bosco, ma ne aveva contati almeno sei. Grossi e ringhianti.

Laddove il gruppo era scomparso il rumore divenne frenetico, quasi assordante. Il bramito del cervo, dapprima un basso verso gutturale, salì di tonalità andando a somigliare pericolosamente al grido di un uomo morente. I lupi grugnivano e ringhiavano e l’aria si riempì di suoni umidi e laceranti, e, infine, uno schiocco.

Poi, il silenzio.

Il labbro inferiore le tremolava, battendo contro quello superiore. Quel suono acuto e continuativo, poco più del guaito di un cucciolo… sì, era lei che lo produceva.

Doveva spostarsi. Sapeva perfettamente di essere in un posto pericoloso. Il problema è che, per quanto ne sapeva, c’erano svariati chilometri di “posto pericoloso” tutt’attorno. E una quercia valeva l’altra.

Pensa. Pensa. Pensa.

Le tornarono alla memoria tutte le puntate di Superquark che i suoi le facevano sorbire quando era piccola. Si ricordò svariati dettagli delle migrazioni degli gnu nel Serengeti, ma questo era poco utile.
Dovevano esserci dei ricordi più utili da qualche parte!
Strinse ancora di più le spalle e chiuse gli occhi, strizzando le palpebre.

I campi scuola! Li faceva da bambina, li aveva frequentati ogni santa estate per tutte le elementari. Doveva assolutamente accendere un fuoco. Le avevano spiegato tutta quella menata dei due legnetti da sfregare e delle lenti per il sole, ma era tutto umido e ormai era notte.

Ma, se ne ricordò di punto in bianco, lei aveva un accendino!
Senza alzare i magnanimi lombi dal suo incavo scomodo allungò la mano tutt’attorno, raggruppando qualche foglia morta e dei legnetti. Li ammucchiò alla bell’e meglio davanti ai propri piedi, quindi trovò il coraggio di inginocchiarsi. Frugò nella tasca del giubbotto di pelle e reperì l’accendino. Anche al buio riusciva a intravedere il testone bianco di Hello Kitty. Fece ruotare la pietrina, premette il piccolo tasto e una tenue fiammella gialla illuminò poco più di un metro tutt’attorno a lei. Avvicinò la fiamma alle foglie e non successe nulla.

Mai disperarsi: tenne l’accendino in posizione per qualche istante, poi il metallo divenne troppo caldo e si scottò il pollice. Le foglie si erano a malapena accartocciate producendo un odore acre.

Ma ci riprovò. Una volta, due, dieci… alla fine aveva una bolla da ustione sul polpastrello del pollice, era circondata da un puzzo sgradevole e le veniva da piangere. Di nuovo.

Era così stanca, così spaventata da aver male alle gambe. Si tolse la giacca e se la gettò addosso, cercando di coprirsi il più possibile. I lupi, dopo tutto, avevano di che mangiare per quella sera, no? Non sarebbero venuti a tormentare proprio lei!

Le prime stelle fecero l’occhiolino nel cielo blu scuro. Sara appoggiò la testa al tronco e guardò in su. Tra le foglie vide il bagliore di una falce di luna, lucente come non l’aveva mai vista. E il cielo era scuro, tutto scuro, non c’era il bagliore aranciato dell’aeroporto di Malpensa all’orizzonte.

Rabbrividì per il freddo umido del bosco. Ma aveva sonno, così sonno…

Le palpebre le divennero improvvisamente pesanti.
Devo stare sveglia. Potrebbero arrivare i lupi. Io devo… resistere… tenere gli occhi… aperti…

Ma era una resistenza inutile. Chiuse gli occhi e si addormentò di un sonno animalesco, leggero e senza sogni.

La svegliò la sensazione orrenda di qualcosa di gelido, viscido e vivo sulla guancia. Si alzò di scatto, lasciando cadere il giubbotto e urlando. Agitò la mano, si schiaffeggiò e riuscì a spiaccicarsi sulla faccia la piccola lumaca grigia senza guscio che ci stava placidamente pascolando.

Il rumore dell’animale che le si spalmava sulla pelle e la sensazione delle interiore che le si spandevano addosso fu troppo. La colse un conato di vomito che non riuscì a trattenere. Non produsse nulla, non avendo mangiato da… oddea, da quanto?

Come risvegliato a quel pensiero il suo ventre diede in un sordo brontolio.

Ma non era lo stomaco che si lamentava per la fame.

Ruoooaah.

Sara si portò le mani al basso ventre mentre il sangue le defluiva dal viso.

Un secondo borbottio le vibrò contro le mani, accompagnato da una fitta incredibilmente dolorosa.

Fece appena in tempo a sollevarsi la gonna che l’implacabile maledizione di Montezuma le si riversò addosso, rendendo i residui di collant davvero, davvero impresentabili.

L’odore, a questo punto, era ufficialmente insostenibile.

Coperta di sudore gelido, tremante e con dei crampi devastanti Sara si spostò di qualche passo. Fece a malapena in tempo a rendersi conto che il cielo era ancora buio quando una seconda scarica la colse di sorpresa.

E continuò a coglierla per un tempo che le sembrò eterno.

Ormai era sporca, mostruosamente sporca e puzzolente. Si sentiva la febbre, era calda, appiccicosa di sudore gelido che le ricopriva tutto il corpo come una pellicola di bava di lumaca.

Il pensiero della lumaca le sconvolse di nuovo lo stomaco e provò a vomitare; riuscì a buttar fuori solo una boccata di acido e saliva che le bruciarono l’esofago.

Tremando riuscì a rimuovere gli avanzi di collant. Non fu un’operazione semplice: le tremavano le mani e si sentiva malissimo. In più si vergognava come una ladra. Buttò i collant in un cespuglio, e con essi le mutande taglia XL.

Sopra le cime degli alberi cominciò a farsi strada un’ombra grigio pallido. L’alba stava sorgendo.

Con le ginocchia molli, la pelle completamente accapponata da brividi di freddo e ondate di caldo insopportabile, Sara si trascinò fino alla sponda del lago. Si lavò alla meglio, e anche nella luce incerta dell’aurora vide chiazze di sudiciume allontanarsi sul pelo dell’acqua.

E lì capì quale era stato il suo tragico errore. Pur ardendo dalla sete non si avvicinò all’acqua, non ne bevve neanche un sorso: quella lezione, almeno, la aveva imparata al volo.

Si sentiva debolissima. Dopo aver restituito al proprio corpo un minimo di dignità –pur interrotta da altre tre emergenze che aveva risolto praticamente lì, seduta stante- si sedette e attese che la testa smettesse di girarle.

Faceva freddo, davvero freddo, e non era soltanto la febbre che la faceva tremare come una foglia.

Dopo tutte le disavventure del risveglio si trovò a pensare dove fosse capitata e che cosa ci facesse in quel posto.

E poi se ne ricordò.

Quello era l’anno Mille. E lei aveva una diarrea fulminante.

   
 
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