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Autore: sawadee    13/02/2011    3 recensioni
Una breve prosa ritmica su una schiava, perché le donne e i deboli pagano sempre le vittorie.
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Assedio di Siracusa, 212 a. C.

La storia racconta di un famoso scienziato siracusano, morto in un assedio, mentre giocava con una vaschetta di sabbia e degli oggetti appuntiti che gli servivano per disegnare le figure. Probabilmente il soldato le scambiò per armi o ne voleva il metallo, non lo sapremo mai. A volte mi sono chiesta cosa abbiano provato le sue schiave, dato che i grandi uomini, spesso e volentieri, nella vita quotidiana, sono delle persone strane. Avrei voluto citare di più Polibio, che la seppe da prima mano, o il mio amato Plutarco, ma credo che una schiava non avrebbe avuto la loro attenzione.

 

Antico dolore rinasce, come una rosa a maggio,
svegliandomi tra le spine, tra le spire di oppio.
Tu, maestro, padrone, io umile schiava,
succube e vittima dei suoi ordini,
trapassata di lama dal conquistatore,
nel pianto di una giovinezza mai vissuta.
Nella senescenza amata in silenzio,
da chi non sa terminare il proprio cordoglio,
rumori e strepiti,
lutto antico, capelli strappati,
donne in riga attorno al letto,
che non ho avuto.
Quel giorno volevo solo vivere,
nessun oggetto tenevo in mano,
se non un pezzo della mia veste strappata.
Normalità la violenza,
su una povera serva,
sarei sopravvissuta all'onta,
abituata come i ciuchini.
a portare un peso troppo gravoso.
Tutto avrei sopportato,
per un solo soffio ancora di vita,
trapassata da una spada di un barbaro.
E tu al tuo studio,
con i tuoi oggetti appuntiti,
io lì, sarei stata bottino pregiato,
con la mia bellezza di cui tu godevi egoista,
senza curarti se i miei erano gemiti di amore,
di piacere o di dolore.
Ma la tua risposta indispose l'invasore,
cuore indurito e timoroso.
Nessun coraggio è come quello della paura.
E io, sempre vittima, ne feci le spese.
A Siracusa non pioveva quel giorno,
se non le mie lacrime,
quando capii che stavo per morire.
Il sole non brillava,
il fumo degli incendi copriva il cielo.
Marcello entrava vittorioso,
io giacevo in una pozza di sangue,
rantolando nel silenzio,
come tutti gli abitanti della casa,
senza maledire il mio vero carnefice,
perchè noi isolani, la fatalità la conosciamo bene.
E' per questo che siamo orgogliosi,
perchè fatalisti e testardi,
non abbiamo altro cui appigliarci.
E tu eri lì, morto,
senza sorriso sulle labbra,
senza le tue mille stranezze e le tue passeggiate,
le tue idee geniali,
che mi sfuggivano.
Eri un uomo superiore,
per questo non ti chiedevo cortesia,
sapevo cosa tu valutassi,
e io avevo solo gioventù,
e la bellezza,
beni fugaci,
effimeri come il giorno,
o il battito di una farfalla.
E nel battito del mio cuore che si spegneva,
capii che due vite se ne andavano con me.
Addio per sempre,
dolce sole,
vita mia,
mio unico bene.

   
 
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