Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: ceciotta    15/02/2011    5 recensioni
Prima classificata al contest "Magic Stones"
Aveva gridato. Aveva strillato, pregato, lottato, ma nessuno era accorso in suo aiuto. Tutta l'umanità sembrava essersi addormentata, lasciandola sola contro il mostro, con due diavoli guardiani a controllare che tutto filasse liscio. Daniela rimaneva lì, a terra, non accennava a muoversi. Lacrime bollenti scorrevano lungo il suo viso livido, piccole stille di dolore che scendevano per pura inerzia.
Ho affrontato un tema complesso, me ne rendo conto, spero di averlo fatto al meglio.
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

La storia che segue si è classificata prima al contest, indetto da ForgottenSnow e concluso da Marta86, "Magic Stones".
Ringrazio di cuore Marta86 sia per il giudizio (che troverete in fondo alla storia), sia per esserci venuta in aiuto quando ci siamo trovati senza giudice.

  • Nick: Ceciotta
  • Titolo: Colpevole di essere donna
  • Pietra scelta: Turchese
  • Parola associata: Pericolo
  • Fandom: Originali
  • Genere: Drammatico, triste
  • Rating: Arancione
  • Avvertimenti: Nessuno
  • Introduzione/ NdA: Ho mostrato la vita di Daniela, una ragazza di sedici anni che non è particolarmente bella né particolarmente brutta, un po' asociale. Non le dispiace indossare gonne corte, ma non per questo si sente una puttana. Evidentemente, gli altri la pensano diversamente. In una situazione in cui lei è solo una vittima, diventerà la vera colpevole.
  • Spero che questa storia sia di vostro gradimento. Ritengo sia una tematica molto attuale, visto cosa sta succedendo in questi giorni. 

    Mi raccomando, se volete farmi sapere cosa ne pensare lasciate una piccola recensione, ma non siete obbligati, ovviamente. Vi auguro una buona lettura e una buonissima giornata.



    Colpevole di essere donna


    Daniela era strana.

    Daniela era asociale, irriverente e strana. Questo era il giudizio insindacabile dei cittadini di quel paese del bresciano in cui viveva.

    Daniela non si era mai sentita normale e qualcuno le aveva detto che avrebbe dovuto sentirsi fiera di essere diversa, ma lei non era d'accordo, non quando l'intero paese la guardava storto.

    Per sfuggire gli sguardi sospettosi e di aperta derisione, si rintanava in casa.

    Casa... Nemmeno quella abitazione enorme e gelida poteva considerarsi un rifugio sicuro.

    Daniela guardò attorno a sé la stanza troppo grande che aveva cercato di riempire con poster e disegni fatti di suo pugno; periodicamente, sua madre le imponeva di liberare le pareti da quelle sciocchezze da bambina, come le chiamava lei. Non aveva mai apprezzato le sue capacità artistiche, considerandole una perdita di tempo. “Perché invece di stare sempre in camera a disegnare non esci un po'?” le ripeteva. Quindi, all'incirca ogni cinque o sei mesi, Daniela liberava i muri dalle proprie creazioni e le riponeva con cura in una scatola, assieme ai poster. Faceva passare un mesetto o due, guardando con orrore quelle pareti spoglie di un lilla chiaro che lei detestava con tutto il cuore, poi tornava a riempirle lentamente, un disegno per volta in modo che la madre non se ne rendesse conto. Mezzo anno dopo erano punto e accapo.

    Daniela fece scorrere sul foglio il carboncino, dando gli ultimi ritocchi al vaso che aveva riprodotto. Disegnare era l'unica cosa che la facesse sentire viva, realizzata, il solo modo in cui riuscisse a esprimere se stessa. Le piaceva fissare il foglio bianco, con quella sensazione di attesa che precede la creazione, stringere in mano il carboncino o la matita, posare i suoi strumenti sulla distesa candida, violando la sua purezza con tratti neri e decisi. Il più delle volte, lasciava che fosse la sua mano a guidarla, o, meglio, il suo inconscio; solo successivamente le linee e le curve andavano a plasmare una forma precisa, un paesaggio, un oggetto, un volto. Talvolta invece partiva già con un'idea, allora in questi casi i suoi soggetti erano per lo più persone inventate, sia che fossero di sua fantasia che ispirazioni prese da personaggi che più la intrigavano, di cui aveva letto nei suoi libri preferiti. Anche se si esercitava in tutte le tecniche artistiche, il carboncino era il suo strumento prediletto: era semplice, elementare, eppure il risultato finale poteva essere sublime.

    In famiglia, questa sua dote non era ben vista; suo padre avrebbe preferito vederla interessata alla vita politica, aveva anche tentato di farla partecipare a quelle noiose riunioni della sezioni di partito da cui dipendeva; sua madre, poi, considerava la sua passione come qualcosa di insano: secondo lei, infatti, gli artisti facevano tutti una brutta fine e se lei avesse continuato su quella strada sarebbe incorsa di certo nella perversione e nella sciatteria di un mondo senza principi morali.

    Daniela era convinta di possedere una sana moralità e riteneva di averlo dimostrato; era educata, molto più di tanti dei suoi compagni di scuola, non si drogava, non beveva, rispettava gli altri.

    Eppure, i suoi sforzi non bastavano mai. Il suo galateo non era certo dei migliori e questo non sembrava proprio andare giù alla sua genitrice. Stai dritta, non posare i gomiti sul tavolo, tieni bene quelle posate... erano solo alcuni dei collaudati rimproveri che la donna le rivolgeva a tavola. Doveva sedere composta, mangiare lentamente e senza produrre alcun rumore. I pasti si consumavano in perfetto silenzio e, ovviamente, la televisione era bandita; anche la conversazione era ridotta al minimo: come diceva suo padre, una buona digestione richiedeva calma e silenzio. Del resto, avrebbero avuto poco di che discutere, eppure quell'assenza di parole rendeva assordante il rumore delle posate sui piatti e a Daniela ogni tanto dava un'ansia tale che le passava l'appetito, ma faceva finta di niente, pregando che la tortura finisse presto.

    La sua stanza doveva essere sempre in ordine, guai a lei se si dimenticava di rifare il letto la mattina. Daniela lanciò un'altra occhiata ansiosa attorno a lei: la camera sembrava quasi nuova, si era impegnata tanto per renderla il più possibile vicina ai gusti della madre. Ora doveva solo togliere alcuni disegni dalle pareti. Voleva che sua madre fosse di buonumore, quella sera: doveva chiederle il permesso di comprare un altro set da disegno stupendo, davvero completo che aveva visto nella sua cartoleria di fiducia. Era una richiesta difficile da porre senza suscitare indignazione, per cui doveva trovare le parole giuste per farla apparire come una proposta accettabile. Era diventata brava, in quel genere di cose; riusciva a ricavarsi uno spazietto tutto suo in quella specie di gabbia.

    Con un sospiro, si apprestò a liberare i muri.

    Un paio d'ore più tardi, al rientro di sua madre, Daniela nascose velocemente i fogli e aprì il libro di matematica: aveva già finito gli esercizi che aveva per compito, in realtà, ma se sua madre l'avesse trovata a studiare sarebbe certamente andata meglio. Mentre i passi sicuri riecheggiavano nel corridoio, Daniela vide con orrore che le sue mani erano annerite dal carboncino, quindi prese a strofinarle con un fazzoletto di carta. Le celò sotto la scrivania quando la porta si aprì e sorrise alla madre, con il cuore che andava a mille. Tutto dipendeva da come avrebbe iniziato la conversazione.

    Giuseppina Vallesi in Ramboldi, con i capelli biondi acconciati in una permanente praticamente perfetta, lanciò un'occhiata clinica e professionale alla camera, poi il suo sguardo serio si posò sulla figlia, che dopo un accorato saluto fece per parlare, ma la donna la interruppe subito.

    Preparati, stasera abbiamo ospiti a cena. Un collaboratore di tuo padre viene a discutere con lui di cose molto importanti. Appena sei pronta vieni ad aiutare tua sorella a mettere tavola” disse la madre. I suoi occhi guizzarono verso la fronte della figlia e si accigliarono. “E lavati la faccia” aggiunse.

    Quando uscì, Daniela non trattenne un gemito. Suo padre odiava parlare durante il pasto, ma faceva sempre un'eccezione quando si trattava di membri del partito o di altre personalità politiche. Non c'era modo di saltare quella tortura, probabilmente l'avrebbero fatta partecipare anche con il morbillo.

    Daniela si alzò e il suo sguardo si soffermò sullo specchio; bofonchiò un lamento mentre ripuliva la fronte dalle traccie di carboncino. Poco male, avrebbe ritentato il giorno dopo; quella sera, avrebbe dovuto essere impeccabile, la perfetta donna di casa.

    Corse in bagno, si fece una doccia veloce e si asciugò i capelli lievemente mossi. Si passò un velo di trucco sugli occhi e guardò il risultato.

    Daniela non si riteneva bella, ma aveva le curve nei punti giusti (anche se non abbondanti) e non poteva definirsi proprio brutta. Avrebbe potuto sembrare anonima, se non per gli occhi particolarmente luminosi. In fondo, pensava di essere carina e le piaceva risaltare le poche parti del proprio corpo di cui andava fiera.

    Daniela trovò un vestito azzurro adatto all'occasione e lo indossò. Esitò per un attimo, poi aprì un piccolo portagioie e ne estrasse la sua collana preferita. Un ricordo le deflagrò nella mente.

    Aveva nove anni all'epoca, sua nonna era venuta a casa loro per Natale. Le piaceva, nonna Sara, era una vecchietta simpatica e le portava sempre le caramelle. Era esuberante e gioiosa ed infatti Giuseppina, sua figlia, non apprezzava l'esempio che poteva dare alle nipoti; ogni volta che la nonna si trovava a casa loro, il regime imposto sull'educazione di Daniela e sua sorella Sofia s'intensificava, tra rimproveri e sgridate. Quella volta, dopo aver passato il secondo giorno di Natale ad ascoltare la figlia riprendere il frutto del proprio grembo per non sedere abbastanza dritta a tavola, aveva portato la nipotina nella stanza degli ospiti e l'aveva guardata con occhi tristi.

    Bambina mia, tu sei felice?”

    All'epoca, Daniela non aveva capito il significato di quella domanda ed era rimasta a fissare la nonna con curiosità, piegando il capo verso sinistra. Perché non avrebbe dovuto essere felice? Aveva tanti giochi, tanti vestiti bellissimi che a scuola le altre bambine le invidiavano...

    Sua nonna allora si era alzata e aveva raggiunto la cassettiera. Frugando in un elegante beautycase aveva estratto una collana d'argento, con pietruzze incastonate in piccole alcove rotonde. Mentre la bambina la guardava con occhi spalancati, la nonna gliel'aveva messa al collo.

    Queste sono turchesi” le aveva rivelato. “Sono pietre che hanno il dono di proteggerti da ogni pericolo. È un oggetto molto prezioso, per me: abbine sempre cura e indossalo ogni volta che puoi”.

    Daniela aveva annuito, con aria solenne.

    A sedici anni appena computi, mentre indossava la collana regalatale da sua nonna, ripensò a quella domanda a cui anche in quel momento non riusciva a dare una risposta. Accarezzò le turchesi una ad una, pensando alla sua adorata nonna, che era venuta a mancare qualche anno prima.

    Sentendo sua madre chiamarla dalla cucina, Daniela si riscosse da quei pensieri e si affrettò a raggiungerla. La donna ispezionò il suo aspetto e annuì in segno di approvazione, strappandole un sorriso. La ragazza, raggiunta dalla sorella, apparecchiò in sala da pranzo con il servizio buono e scambiò qualche commento sottovoce con Sofia, più piccola di un anno, sui possibili invitati alla cena. Ridacchiarono piano ad alcune battute, poi tornarono a rifugiarsi nelle proprie camere, per godersi quegli ultimi attimi di libertà.

    Quando i commensali arrivarono, furono preceduti da uno scampanellio deciso e subito Giuseppina richiamò le figlie.

    Daniela arrivò nel momento in cui sua madre faceva accomodare gli ospiti nella sala da pranzo e si sforzò di sorridere; Roberto Barbieri, quello che il signor Ramboldi considerava il suo miglior alleato, si era portato dietro la famiglia, ossia sua moglie Viola e il figlio Simone.

    Dopo i saluti di rito, pieni di convenevoli scambiati tra le due donne, si sedettero a tavola e Daniela si affrettò ad aiutare la madre a servire la cena. Mentre tornava dalla cucina attigua, la ragazza sentì addosso lo sguardo diretto di Simone e all'improvviso si pentì di aver indossato un vestito tanto scollato. Strinse le mani attorno al vassoio, impedendosi di alzare lo sguardo; a lei non dispiaceva essere fissata, ma l'occhiata di Simone aveva un'intensità tale da farla sentire nuda, le dava una sensazione spiacevole sulla pelle.

    Simone frequentava l'ultimo anno della sua scuola e ogni volta che lo incontrava per i corridoi lo sorprendeva a osservarla con quello stesso sguardo; lei si intimidiva subito e distoglieva gli occhi dal suo volto, quindi non vi si era mai soffermata abbastanza da comprendere il significato di tante attenzioni.

    Che la desiderasse, non c'erano dubbi: le si era proposto più volte, ma lei aveva sempre rifiutato ogni invito. Di certo i loro genitori sarebbero stati felicissimi di un eventuale fidanzamento che legasse le due famiglie, ma a lei Simone non piaceva per niente. Fisicamente era un bel ragazzo – per quanto non fosse tra i più attraenti della scuola – e all'apparenza poteva sembrare anche simpatico, ma c'era qualcosa, come un'aura indefinibile attorno a lui, che metteva sull'attenti Daniela. Un campanello d'allarme risuonava nel suo cervello ogni volta che lo vedeva, dandole una sensazione di pericolo che la faceva rabbrividire. Sapeva che c'era qualcosa di più, sotto quel bel faccino.

    Simone continuò a guardarla per tutta la sera, che seguì il solito copione di sempre: dopo un'abbondante cena monopolizzata dai discorsi tra i due capifamiglia, gli uomini si alzarono per rinchiudersi nello studio, dove avrebbero affrontato problemi più gravosi; a quel punto, Daniela avrebbe voluto tornare in camera sua, ma non sarebbe stato un comportamento educato, quindi seguì sua madre e gli altri nel salotto; lei e sua sorella sedettero vicine, dandosi come al solito conforto a vicenda, mentre le due mogli parlavano del più e del meno. Simone rimase in silenzio per la maggior parte del tempo, lanciando qualche commento di tanto in tanto all'indirizzo di Sofia e Daniela, che rispondevano con gentilezza come al solito. Nessuno dei tre ragazzi, però, aveva voglia di aprire una conversazione e Daniela provò un moto di simpatia nei confronti di Simone: in fondo anche lui era nella sua stessa situazione, probabilmente si sentiva inadeguato quanto lei. Si ritrovò suo malgrado a ricambiare un sorriso d'intesa e a quel gesto gli occhi di Simone si illuminarono; lei si sentì sommergere dal disagio e dal senso di colpa, nel timore di aver rinfocolato le sue speranze. Distolse lo sguardo, pudicamente, mentre le guance le si imporporavano e si maledisse per la sua reazione che probabilmente andava a confermare le ipotesi del ragazzo.


    Finalmente, suo padre e Barbieri uscirono dallo studio e gli ospiti si congedarono.

    Daniela cominciò a sparecchiare, agitata. Stava appunto mettendo piatti e utensili da cucina nella lavastoviglie quando la porta di cucina si aprì, facendole alzare il volto. Sbiancò e sussultò: Simone la fissava dalla soglia.

    P-pensavo che fossi già uscito” mormorò lei, raddrizzandosi. Si sistemò nervosamente un ciuffo di capelli dietro l'orecchio in fiamme.

    Il ragazzo avanzò nella stanza, sicuro e sorridente. “Ho detto ai miei che avevo dimenticato qualcosa” replicò, con la sua voce roca.

    Daniela deglutì e cercò di calmare il suo cuore. “E cosa ti sei dimenticato?” chiese, facendo finta di non aver capito nella speranza che lui si rendesse conto dell'errore.

    Te” rispose lui, seducente.

    Sarebbe stata una scena romantica, se l'attrazione fosse stata reciproca. Daniela rimase immobile come uno stoccafisso, stringendo ancora in mano il cucchiaio di legno con cui la madre aveva girato la pasta.

    Simone allungò una mano verso il suo volto, ma appena le sue dita calde la sfiorarono Daniela sussultò e si ritrasse, scacciando il contatto con un colpo secco del braccio.

    Gli occhi desiderosi di Simone si tinsero di rabbia, mentre la porta si apriva per l'ennesima volta. Entrambi si voltarono e Daniela si sentì sprofondare nel vedere Sofia ferma sulla soglia, con quell'espressione dura che mal s'intonava con il suo animo solitamente mansueto.

    Daniela si rivolse al ragazzo, nella speranza che sua sorella non intervenisse. Sapeva che altrimenti avrebbe detto o fatto qualcosa di cui poi si sarebbe pentita. “Ne abbiamo già parlato” disse.

    Lui rimase a fissarla per qualche istante. “Io ottengo sempre ciò che voglio” sibilò. Voltò le spalle a Daniela e uscì dalla stanza.

    Daniela rimase gelata da quel congedo, ma cercò di non darlo a vedere a Sofia, che la guardava preoccupata. Si girò e continuò a riempire la lavastoviglie, i denti stretti per la voglia di urlare.


    Il giorno dopo era sabato e lei si svegliò di buon umore, nonostante la tensione della giornata precedente. Quella sera, infatti, sarebbe andata a festeggiare il compleanno di una delle sue poche amiche e, nonostante il cielo cupo che minacciava pioggia, sapeva che si sarebbero divertite.

    La mattinata a scuola passò con la lentezza fiaccante tipica dei sabati, ma se non altro Simone non la fermò nei corridoi. A dire il vero, non la guardò neanche, segno che si era davvero arrabbiato per l'ennesimo rifiuto. Cercò di non pensarci e si trascinò fino a casa dove si costrinse a studiare almeno un paio d'ore. Verso le cinque, cedette alla tentazione e tirò fuori carta e carboncino. Se non altro, pensò con orgoglio, a pranzo sono riuscita a convincere mia madre a darmi i soldi per il nuovo set da disegno.

    Cominciò a prepararsi verso le sei e un'ora dopo le sue amiche suonarono il campanello. Il suo vestiario incontrò la disapprovazione di zia Enrica che era venuta a fare un saluto alla sorella: riteneva la gonna troppo corta, ma una volta tanto sua madre corse in suo aiuto e si affrettò a cambiare discorso, quindi Daniela poté uscire di casa con il cuore leggero per non aver litigato con il parentado.

    Era appena uscita e stava salutando le amiche con entusiasmo, quando cambiò espressione e si portò una mano al collo. Con una punta di rammarico, si accorse di essersi dimenticata la collana della nonna. Avrebbe voluto tornare in casa a prenderla, ma avrebbe dovuto affrontare di nuovo madre e zia e ormai era già per strada... Del resto, avrebbe rischiato di perderla e sarebbe stato un vero peccato.

    Nemmeno la pioggia scrosciante sarebbe riuscita a rovinare il compleanno.

    La serata passò velocemente, tra una pizzeria e un pub dove si permise di bere una birra, per la prima volta senza la supervisione dei genitori. Si divertì, nonostante una certa inquietudine, una sensazione di pericolo imminente, che si sforzò di ricacciare in fondo all'anima.

    Al ritorno, la madre della festeggiata andò a prenderle, come d'accordo, e le riaccompagnò di persona, ma Daniela si divise dalle amiche giunta ad una biforcazione. Non aveva senso far svoltare anche loro: di lì a casa sua c'erano pochi isolati e si sentiva abbastanza sicura. Resistette quindi alle loro obiezioni e le convinse ad andare avanti, visto che erano già inzuppate di pioggia. Passò dieci minuti a convincere la donna che l'accompagnava che mancava davvero pochissimo, che non le sarebbe accaduto niente, finché non cedette: del resto, era un paese molto tranquillo...

    Aveva fatto quella strada centinaia di volte anche da sola, eppure tutta la sua sicurezza svanì quando vide tre figure scure in movimento a pochi metri da lei, quando ormai era arrivata a metà strada. Si bloccò con il cuore in gola, mentre i tre ragazzi si rendevano visibili. Quello al centro era Simone e aveva una strana aria soddisfatta che la fece rabbrividire.

    Ti ho vista, giù al pub, e ho pensato che ti andasse un po' di compagnia” disse il ragazzo. Sembrava che avesse bevuto, e molto.

    Se l'avessi voluta, l'avrei chiesta” replicò Daniela. Avrebbe voluto usare un tono sicuro e intimidatorio, ma le era uscito un mormorio tremante.

    Simone sorrise. “Credo che dovremmo riprendere il discorso di ieri. Sai, prima che tua sorella ci interrompesse” disse, sempre più vicino.

    Ora che lo guardava dritto negli occhi, la ragazza spaventata riuscì a discernere tutte le componenti dello sguardo che aveva sempre cercato di evitare: c'era desiderio, ma anche rabbia, frustrazione, finanche crudeltà.

    Daniela si sentiva la gola secca, mentre indietreggiava. “Per favore...” gemette. Urla, pensò. Sapeva che gridare sarebbe stato inutile: le sue amiche erano ormai lontane e non era nell'animo degli uomini accorrere al richiamo di una sconosciuta.

    Simone la raggiunse e allungò di nuovo una mano, come aveva fatto la sera precedente.

    Daniela capì di non avere scampo; con un singhiozzo serrò gli occhi e voltò la testa dall'altra parte.


    La lasciarono lì, sull'asfalto bagnato. Daniela non riusciva più nemmeno a piangere.

    Faceva male.

    Tutto il corpo pareva essere passato sotto una schiacciasassi.

    Non udì nemmeno i tre ragazzi allontanarsi. Tutta rannicchiata in sé stessa cercava di contenere il dolore.

    Aveva gridato. Aveva strillato, pregato, lottato, ma nessuno era accorso in suo aiuto. Tutta l'umanità sembrava essersi addormentata, lasciandola sola contro il mostro, con due diavoli guardiani a controllare che tutto filasse liscio.

    Daniela rimaneva lì, a terra, non accennava a muoversi.

    Lacrime bollenti scorrevano lungo il suo viso livido, piccole stille di dolore che scendevano per pura inerzia.

    Le forze l'avevano abbandonata, disgustate da lei e da ciò che aveva subito.

    Voleva rimanere lì per sempre, voleva essere inghiottita da quella strada sporca che aveva raccolto il suo corpo ormai senz'anima. Voleva chiudere gli occhi e non riaprirli più.

    Rimase lì per almeno un ora, senza muoversi, senza chiamare aiuto, senza pensare ad altro che al dolore e alla sua gonna troppo corta, ora macchiata di rosso. Lentamente, i sensi tornarono a trasmetterle ciò che esisteva attorno a lei: la pioggia che cadeva sul suo viso mescolandosi alle lacrime, l'asfalto duro sotto di lei, un tuono lontano, l'ululato del vento...

    Daniela sapeva di doversi alzare, ma non ce la faceva ancora.

    Aveva freddo, era stanca. Avrebbe voluto addormentarsi lì. Forse un'anima pietosa l'avrebbe trovata e portata all'ospedale, o forse sarebbe morta. Vivere o morire non sembravano concetti così diversi, in quel momento. Erano solo parole. Solo parole.

    Daniela non seppe mai dire cosa aveva l'aveva spinta a rialzarsi, quella notte. Forse il freddo e la voglia di vivere avevano avuto il sopravvento, alla fine. Non seppe neanche come arrivò fino alla sua destinazione.

    Fatto sta che si ritrovò nell'ingresso di casa sua. Suo padre non l'aveva aspettata in piedi, sapeva che sarebbe stata accompagnata da un adulto, e non la vide rientrare. Riuscì ad arrivare fino al corridoio, ma lì non poté più andare avanti. Scivolò a terra, sfinita e sofferente, non riuscì nemmeno a chiamare aiuto.


    Fu risvegliata dal grido di Sofia, mattiniera come al solito. Ritrovandosi sdraiata nel corridoio, al principio non capì cosa fosse accaduto, ma il dolore tornò a ricordarglielo. Riprese a piangere, con violenti singulti. Il malessere fisico si era attenuato, consentendole di essere letteralmente investita dalle conseguenze psicologiche dell'incubo vissuto la notte precedente. Sentì Sofia che si agitava attorno a lei, che le faceva domande su domande, che cercava di scuoterla. D'un tratto Sofia tentò di abbracciarla, vincendo il ribrezzo per i suoi vestiti sporchi, ma Daniela si ritrasse con un grido sommesso e si rannicchiò in un angolo come un animale spaventato, mentre la sorella, sconvolta e gelata dalla sua reazione, la guardava impotente.

    Daniela sentì tornare un minimo di lucidità. Si sentiva sporca, voleva solo farsi una doccia. Lo disse a Sofia, che l'aiutò ad alzarsi e la condusse in bagno. La sorella voleva sapere cosa fosse successo o almeno andare a svegliare i genitori che non si erano accorti di nulla a causa della lunghezza del corridoio, ma lei scosse la testa ad entrambe le richieste: non ce la faceva ancora, voleva prima darsi una sistemata.

    Ma per quanto si lavasse, non riusciva a togliersi la sensazione di essere sporca fino al midollo; provava nausea verso il proprio corpo. Dentro la doccia, riprese a piangere.

    Quando finalmente uscì, Sofia le fece indossare l'accappatoio e la portò in camera. Sdraiata a letto, le parole uscirono da sole, distaccate e fredde. Sentiva la sorella rabbrividire contro di lei ad ogni frase. Daniela non piangeva più, rimaneva a fissare il vuoto con aria spenta. Il suo cervello rifiutava ogni pensiero, come per proteggerla da ciò che era accaduto, dalla violenza subita. Era molto più semplice concentrarsi sul disagio fisico, senza soffermarsi sulle cause e sulle conseguenze.

    Sofia era ammutolita e, poiché l'abbracciava da dietro, Daniela non poteva vedere le reazioni sul suo viso, ma percepiva una rigidità prima sconosciuta nelle sue braccia magre. L'importante però era che non la lasciasse mai.

    Dei rumori in corridoio le avvertirono che anche i genitori si erano svegliati.

    Daniela si rialzò controvoglia. Sentiva la stessa tensione di quando prendeva un brutto voto a scuola e doveva riferirlo ai suoi, una sottile vergogna che le rallentava i movimenti e la costringeva a chinare il viso. Mentre Sofia rimaneva stretta a lei, la ragazza si mosse incerta, come immersa in un sogno. Arrivò dai suoi genitori ancora in accappatoio e con i capelli umidi, gli occhi gonfi di pianto. Ancor prima di aprir bocca, la ragazza scoppiò in singhiozzi carichi di vergogna e di rammarico. Le parole questa volta faticarono ad uscire, incastrandosi l'una sull'altra, incespicando e spezzandosi a metà. Tenne gli occhi chiusi per tutto il tempo, per non vedere la reazione dei genitori.

    Quando ebbe finito, calò il silenzio. Daniela non sapeva cosa aspettarsi.

    Poi lo schiaffo arrivò, inaspettato e tanto violento da farle voltare il capo di novanta gradi. Portandosi una mano alla guancia, arretrò e aprì gli occhi, sprofondando nello shock. Non aveva mai visto suo padre così arrabbiato.

    Quando nei giorni a venire avrebbe ripensato a quella mattina, si sarebbe accorta di serbare ben poca memoria di ciò che accadde, come un sogno dai contorni sfumati. Avrebbe ricordato la rabbia dei suoi genitori, quella di Sofia che cercava di difenderla, la propria confusione, mentre rifletteva su quali responsabilità le attribuissero sua madre e suo padre, e infine il disgusto inspiegabile nei loro occhi. Avrebbe anche ricordato di aver passato quasi tutto il giorno a letto, chiedendosi perché non la portassero in ospedale o almeno dalla polizia, mentre in un'altra stanza Sofia – di solito così tranquilla e docile – continuava ad urlare contro i due adulti.

    Più di tutto, le sarebbe rimasto impresso il momento in cui aveva cercato invano i vestiti che si era messa la sera precedente: ricordava di averli lanciati verso il letto, prima di farsi la doccia, ma perlustrando a fondo la stanza non li trovò. Domandando spiegazioni alla madre, ricevette un'occhiata gelida; la donna le spiegò di averli buttati via, perché erano troppo rovinati.

    Adesso Daniela non ci capiva più nulla: quei vestiti erano prove di ciò che era accaduto e lei era abbastanza lucida ormai da comprendere che alla polizia e al suo avvocato sarebbero serviti contro Simone. In quel momento ebbe la rivelazione. Non ci sarebbe stato alcun processo, alcuna denuncia. Era per quello che non l'avevano portata in ospedale, perché altrimenti i medici avrebbero capito cosa le era veramente accaduto e non era questo che volevano.

    Daniela non parlò più. Tornò a letto, sprofondando di nuovo in quello stato di trance.


    L'indomani non andò a scuola. I coniugi Ramboldi, dal loro profondo animo nobile, le avevano concesso di rimanere a casa per riprendersi, almeno per qualche giorno. Sofia avrebbe voluto rimanere con lei, ma le era stato impedito e lei rimase da sola, in una casa troppo grande e fredda.

    Sei felice?

    La domanda lasciata in sospeso con la nonna aleggiava tra le pareti, ironica e crudele. Daniela si tappava le orecchie per non ascoltarla, ma le rimbombava in testa. Allora si rimetteva a piangere, urlava, prendeva a pugni il cuscino.

    Lentamente, la gravità di ciò che le era accaduto le si riversava addosso in piccole ma inesorabili ondate, che colmavano il vuoto sgomento con vergogna e disperazione.

    Il disgusto si faceva ogni attimo più forte nell'animo di Daniela, non rivolto solo a Simone, ma anche e soprattutto verso se stessa. Aveva sentito parlare di reazioni del genere, ma le aveva sempre ritenute prive di senso; adesso non riusciva a non provare repulsione nel guardarsi allo specchio.

    Neanche i suoi genitori parevano in grado di osservarla senza ribrezzo. Il pranzo trascorse in un silenzio di tomba, più pesante del solito. Daniela non aveva neanche fame, ma quando provò a dirlo suo padre la zittì in un modo così violento da farla scoppiare in singhiozzi per l'ennesima volta. A quel punto, l'uomo si mise a sbraitare cose che non le aveva mai detto, le rinfacciò tutto quello che avevano fatto per lei e il modo ingrato in cui lei si comportava. Daniela non riusciva a capire quali comportamenti ingrati avesse mostrato, ma non chiese spiegazioni: aveva ormai compreso che lei per loro era solo una macchia sulla reputazione della famiglia. Poi Sofia riprese ad urlare contro i propri genitori e allora la situazione degenerò: padre e figlia si gridarono addosso di tutto sotto gli occhi scioccati di Daniela che mai una volta aveva visto la sorella ribellarsi a quel modo.

    Il pranzo si concluse con un ceffone diretto a Sofia, che incassò senza un lamento e si diresse in camera sua con passo tranquillo ma determinato. Daniela invece corse in bagno a vomitare.

    Nel pomeriggio, lei e sua sorella rimasero insieme, senza parlare, entrambe con una guancia rossa e gonfia. Si abbracciavano e basta.

    Daniela non riusciva più a stare al passo degli avvenimenti.


    Daniela tornò a scuola dopo tre giorni, quando ormai il dolore era quasi sparito. A tutti aveva raccontato di essersi presa un malanno a causa della pioggia del sabato sera.

    Fu drammatico uscire di nuovo di casa. Se Sofia non l'avesse tenuta per mano sarebbe tornata subito dentro a nascondersi; fece tutto il percorso trattenendo il respiro, prendendo fiato quando proprio non ce la faceva più, sussultava ad ogni ombra o rumore, convinta com'era che Simone fosse dietro di lei. Sofia non sapeva che fare, si limitava a tranquillizzarla e a sussurrarle parole d'affetto.

    Incominciò per Daniela un periodo di vero inferno sulla terra.

    La vicinanza degli altri la spaventava; nessuno riusciva a spiegarsi perché si ritraesse ogni volta che tentavano di toccarla, anche solo per una carezza. Ogni volta che qualcuno le stava troppo addosso, Daniela non riusciva a respirare e le sembrava di essere in gabbia, arrivando persino ad urlare, isterica. Fuggiva ogni relazione sociale e, per quanto le sue amiche cercassero di coinvolgerla in tutto, lei le evitava. Non permetteva neanche a loro di sfiorarla.

    Simone non sembrava invece diverso dal solito, a parte il fatto che non la guardava più. Il primo giorno, quando se l'era ritrovato nello stesso corridoio, Daniela si era paralizzata. Si era detta in seguito che avrebbe dovuto saperlo, che doveva immaginare che prima o poi lo avrebbe incontrato, ma vederlo davvero l'aveva scioccata. Lui non aveva dato segni di riconoscerla e l'aveva superata senza una parola. Era molto pallido, tanto che lei si chiese se non provasse vergogna per ciò che aveva fatto. Nei giorni seguenti, però, era tornato quello di prima, rideva e scherzava con gli amici, lanciava i soliti sguardi ammaliatori alle ragazze che lo incrociavano. A parte ignorare lei, si comportava in modo perfettamente normale.

    Daniela si sforzava di tirare avanti, ma la paura e la vergogna le paralizzavano la mente. Anche solo uscire di casa era un trauma. Rientrarci poi era un incubo a occhi aperti.

    I suoi genitori continuavano a trattarla con la stessa freddezza e a stento le parlavano. Nei momenti in cui non ne poteva più, Daniela perdeva il controllo e urlava loro i suoi perché: perché se la prendessero con lei, perché non volessero denunciare Simone, perché suo padre parlava ancora con quel bastardo che aveva generato il ragazzo che l'aveva ridotta così, perché dovesse essere l'unica a soffrire...

    Ma la maggior parte del tempo Daniela la passava seduta in camera a fissare il vuoto, persa nel suo mondo interiore in cui scorgeva solo incubi.

    Non disegnava nemmeno più, le sue pareti erano spoglie come alberi in pieno inverno. Talvolta si alzava e cominciava sistematicamente a lanciare i suoi oggetti per tutta la stanza, senza che alcuna emozione sfiorasse il suo viso. Un paio di volte Sofia l'aveva vista in quei momenti e ne era rimasta traumatizzata: erano gesti meccanici, senza sentimento, quasi una gelida volontà a devastare e lei aveva paura che prima o poi quel desiderio distruttivo si sarebbe riversato su Daniela stessa.

    Un giorno Daniela aveva preso alcuni disegni e aveva cominciato a strapparli, gettandoli poi nel cestino della carta straccia. Ormai ne aveva fatti fuori una quindicina e avrebbe continuato se un uno dei fogli non le avesse ferito la mano: il classico dolore bruciante l'aveva risvegliata da quello stato di trance e lei era rimasta a fissare affascinata il minuscolo taglietto da cui fuoriusciva qualche stilla di sangue, mentre un'idea ancora indefinita si affacciava minacciosa nella sua testa. Quella notte, aveva sorpreso Sofia china sulla propria scrivania: lisciava con estrema premura i disegni che Daniela aveva strappato e tentava di ripararli, avendo cura di applicare lo scotch sul retro del foglio.

    Le crisi di pianto sorprendevano Daniela quando meno se lo aspettava. Poteva accadere mentre guardava una commedia o quando studiava. Oppure poteva svegliarsi nel cuore della notte già con i singhiozzi a fior di labbra. In quei momenti afferrava la collana di turchesi di sua nonna e la stringeva forte al petto, ma non bastava; quelle pietre non potevano proteggerla, non potevano guarire la sua anima spezzata.

    Una sera si era fermata sulla porta del salotto, piangendo disperata, e aveva fissato i genitori nella speranza di un po' di conforto, ma loro non l'avevano degnata di uno sguardo: erano rimasti a fissare lo schermo televisivo dove scorreva uno scialbo programma d'intrattenimento. Sofia era arrivata da dietro, con un groppo in gola, e si era limitata a posarle una mano sulla spalla.

    Non riusciva più a sostenere il proprio sguardo allo specchio, ma le poche volte che aveva visto la propria immagine si era trovata davanti una persona completamente diversa: il candore naturale della sua pelle si era trasformato in un pallore malaticcio; anche le labbra sembravano quelle di un cadavere e le occhiaie le circondavano gli occhi ormai spenti.

    Tutti a scuola si rendevano conto che qualcosa non andava, ma di fronte alle sue risposte piatte dopo un po' smisero di fare domande. Del resto, tutti avevano i propri problemi e nessuno sembrava troppo interessato a quelli altrui. Nessuno pareva capire il pericolo che Daniela correva.

    Senza un supporto psicologico, la strada che aveva intrapreso poteva avere una sola uscita.


    Eppure, qualche settimana dopo l'accaduto, la voce aveva cominciato a circolare per i corridoi della scuola. Nel giro di pochi giorni, la notizia era di dominio pubblico.

    Daniela non sapeva come ciò che era accaduto quel sabato sera fosse arrivato alle orecchie dei suoi compagni; forse Simone, ormai sicuro di non essere denunciato, aveva trovato la baldanza di parlarne con i suoi amici, magari di vantarsene, o forse erano stati i suoi complici a tirar fuori l'argomento; poteva essere stata anche Sofia che, in un momento di rabbia, si fosse lasciata sfuggire qualcosa. Il mutamento di Daniela era andato poi a confermare le voci in questione.

    A quel punto, Daniela aveva sperato.

    Forse qualcuno le avrebbe teso una mano, forse Simone si sarebbe ritrovato da solo contro l'indignazione di studenti e professori. Forse Daniela si sarebbe rialzata e avrebbe trovato la forza di reagire ai soprusi. Forse la giustizia avrebbe trionfato.

    Ma erano state vane illusioni.

    Con suo stupore, delle risatine si levarono al suo passaggio; Simone non sembrava subire conseguenze negative e, anche se talvolta delle ragazze lo guardavano male e gli dicevano in faccia cosa pensavano, quelle erano solo eccezioni. La popolarità del ragazzo, al contrario, era aumentata. Rideva e scherzava con tutti, i ragazzi gli battevano sempre una mano sulla spalla senza alcun problema. Sembrava che avesse fatto qualcosa di grandioso come vincere un'importante partita.

    Un giorno, Sofia – che fino a quel momento non aveva fatto niente solo perché la sorella in un momento di lucidità le aveva fatto promettere di non affrontare Simone da sola – avendo sentito alcuni commenti di cattivo gusto da parte di un gruppetto di ragazze, si era voltata e aveva detto a Simone tutto ciò che pensava di lui, accusandolo in pubblica piazza. Ma invece di fare marcia indietro, ragazze e ragazzi avevano fatto fronte comune contro Sofia, difendendo a spada tratta il loro beniamino. Un paio di volte Sofia tornò a casa con un occhio nero per aver fatto a botte con sue coetanee che avevano offeso la sorella; una volta arrivò addirittura a schiaffeggiare Simone di fronte a tutta la scuola, senza che lui riuscisse a reagire. Ne uscì con una sospensione e una forte punizione quando i suoi genitori vennero a saperlo.

    Ovviamente, la storia del sabato sera era stata manipolata ad arte dagli amanti del gossip della scuola e variava di volta in volta. In alcune versioni, lei era trattata come una puttana ubriaca fino al midollo che si era concessa di sua iniziativa. In altre la violenza c'era stata, ma sempre con una certa provocazione da parte sua. La voce si sparse anche in paese, lentamente, come un morbo, chiudendo in una morsa la vita già precaria di Daniela.

    Daniela di tanto in tanto si chiedeva se avrebbero reagito così, se a stuprarla fosse stato uno straniero, di quelli contro cui suo padre lanciava invettive. No, probabilmente ci sarebbe stata una mobilitazione contro il pericolo rappresentato dall'invasione di extracomunitari che invadono le nostre belle terre, usando i termini tipici di suo padre; quelli sì che erano veri delinquenti, ma un ragazzo di buona famiglia no, di certo era stato stuzzicato, dovevano esserci delle giustificazioni per un comportamento del genere.


    Il giorno delle elezioni amministrative, il partito del signor Ramboldi perse. Daniela aveva temuto quel momento e la notizia era arrivata puntuale. Lo sfidante aveva vinto davvero di pochi punti percentuali, ma deteneva comunque la vittoria. Quando aveva sentito i risultati, il cuore di Daniela si era fermato e lei aveva sperato che non ripartisse più; e invece aveva cominciato a battere forte, fino quasi a scoppiare. Aveva temuto che quello scandalo si sarebbe ripercosso sulle elezioni.

    Il padre era tornato a casa scuro in volto e lei non si era mossa dalla cucina, troppo spaventata per affrontarlo. Lui l'aveva raggiunta senza una parola e l'aveva guardata a lungo con sguardo accusatore, infine l'aveva schiaffeggiata.

    Mentre lei singhiozzava, le aveva urlato che era tutta colpa sua, che adesso le loro strade si sarebbero riempite di stranieri e tutto a causa sua. Lei non aveva nemmeno tentato di reagire, lo aveva lasciato sfogare, ma qualcosa in lei era scattato a quella sberla. La sua vergogna, seppur ancor forte e presente, fece un po' di spazio ad una rabbia profonda.


    La vita di Daniela peggiorava di giorno in giorno. Poche persone le rimasero veramente affianco e anche i professori non sembravano molto propensi a darle una mano; solo un paio di professoresse erano più benintenzionate: quella di arte, per esempio, la spronò a sporgere denuncia, ma Daniela sapeva che era già troppo tardi; erano passati mesi e a quell'ora le ferite che avrebbero dimostrato la violenza erano sparite. Non solo a scuola, ma anche in paese tutti la consideravano nientemeno che una prostituta o una provocatrice; se violenza c'era stata, di sicuro era andata a cercarsela.

    Daniela aveva ormai capito: non poteva esistere giustizia per quelle come lei.

    Aveva commesso un grande, enorme errore: essere nata donna. Un secondo errore era stato pensare che vestirsi bene non fosse peccato. Lei non credeva che l'aspetto fisico contasse molto in una persona, ma quando usciva di sera le piaceva sentirsi carina; aveva delle belle gambe, perché non poteva mostrarle? Non le dispiaceva indossare gonne o vestiti scollati, almeno nel limite della decenza. Non per questo flirtava con il primo ragazzo che incontrava, né tanto meno ci andava a letto. Eppure questo agli occhi della gente equivaleva a un invito. E poi, anche nel caso avesse provocato, quale giustificazioni avrebbe avuto Simone per un atto come quello?

    Sapeva ormai che se anche avesse sporto denuncia subito le probabilità che Simone avrebbe pagato le conseguenze che meritava sarebbero state minime. L'opinione pubblica era dalla sua parte e giocava a suo favore il fatto che molti l'avessero vista bere quella notte.

    Lei non sapeva se sarebbe riuscita a sopportare il processo, unito alle voci, agli insulti, alle insinuazioni della gente. Se li immaginava già, come in molti casi simili al suo che aveva sentito: se l'era meritato, era consenziente, provocante, indossava gonne troppo corte...

    Anche i suoi genitori l'avevano pensata allo stesso modo, non le avevano dato possibilità di spiegare che lei non aveva alcuna responsabilità, che lei non aveva mai provocato nessuno, che le poche volte che usciva voleva vestirsi liberamente e non nascondersi sotto una specie di burqa invisibile.

    Ma di fronte ad un giudice non sarebbe bastato, probabilmente. Sapeva che la difesa avrebbe giocato su tutti quegli elementi che la rendevano colpevole, avrebbe fatto forza sulla sua emotività e lei sarebbe crollata. Forse non sarebbe riuscita ad arrivare fino in fondo.

    Le sembrava di essere lì, tra i banchi di un tribunale, in una scena come quelle che vedeva nei thriller giudiziari americani. Poteva immaginarsi un avvocato fittizio che dimostrava come lei avesse circuito Simone, di come lui era caduto nella sua trappola.

    Del resto, il verdetto l'aveva già ricevuto dagli sguardi dei suoi compaesani e dei suoi genitori.

    Colpevole” dicevano quegli sguardi. “Colpevole di essere troppo seducente. Colpevole di essere donna”.

    La sua vita ormai era un carcere da cui non riusciva ad evadere: non aveva vie d'uscita, non aveva scampo. Avrebbe voluto scappare di casa, ma non aveva posti in cui andare. L'avrebbero presa e riportata a casa. Per lei non esistevano alternative ad una vita che corre sul filo del rasoio.

    O forse sì. O forse conosceva un'ultima via di fuga.

    Daniela si alzò. Con gesti stanchi e automatici raggiunse il bagno e aprì l'armadietto a sinistra dello specchio. Afferrò la lametta che suo padre usava per farsi la barba e la strinse in mano. Il sangue le bruciò sul palmo. Fissò lo specchio e sospirò, poi, con un movimento lentissimo posò la punta dell'arma sul polso mancino e respirò di nuovo a fondo mentre la mano, che reggeva la collana di turchesi, tremava forte.

    Ma la decisione era stata presa ormai e lei non poté tirarsi indietro. La collana cadde a terra.



    Daniela era sdraiata. Respirava. Non aprì gli occhi mentre un senso di delusione le attraversava il corpo: aveva fallito anche in quello, non era nemmeno riuscita a suicidarsi. Il profondo dolore al braccio mostrava che per lo meno ci aveva provato ed infatti sentiva attorno a sé il tipico odore degli ospedali. Sua madre era rincasata prima, evidentemente, e le aveva tolto la soddisfazione di dire basta. Sapeva che adesso erano vicini a lei, tutti e tre, ma non voleva vederli, non voleva vedere nessuno.

    I suoi genitori non l'avevano presa bene ed erano più arrabbiati che mai. Nei giorni seguenti ebbero modo di dimostrarlo con la loro freddezza, con il loro rifiuto di comprendere le motivazioni della figlia, che dal canto suo li ignorava, fissando il vuoto con aria stolida. Non vedevano di buon occhio la psicologa che andava a parlarle, a cercare di farla uscire da quel tunnel buio in cui era precipitata. Ritenevano capricci lo sguardo fisso della figlia e la sua tendenza sempre più preoccupante a non rispondere alle domande; non capivano che Daniela era sprofondata in un baratro nero in cui i richiami dei vivi non riuscivano a raggiungerla.

    Sofia, invece, soffriva, ma faceva di tutto per starle accanto. Non le aveva chiesto spiegazioni per il suo gesto, ma le si era gettata tra le braccia quando l'aveva vista sveglia. Daniela non aveva reagito, era rimasta mollemente distesa. Non mangiava più, non parlava più, la flebo sul braccio sano le dava fastidio, ma lei ignorava anche quel disagio. Se qualcuno si metteva di fronte al suo campo visivo, lei voltava delicatamente la testa. La psicologa le parlava, ma lei non sentiva nemmeno quelle frasi senza senso, perché aveva imparato ad ignorarle.

    L'unica voce che la sua depressione non riusciva ad escludere era quella di Sofia: si infilava tra gli spazi vuoti della barriera di disperazione che la separava dal mondo e percorreva sicura i meandri oscuri della sua mente; non era fastidiosa, ma delicata e dolce. E allora Daniela rispondeva, seppur a monosillabi e con frasi spezzate. Voltata dall'altra parte, non vedeva il sorriso affiorare sulle labbra di Sofia ad ogni parola smozzicata a fatica, le sue lacrime silenziose quando non rispondeva. Eppure, parlare alla sorellina diventava ogni volta più facile; dopo qualche giorno, riuscì persino a girare la testa per guardarla negli occhi. Lentamente, anche la voce della psicologa riuscì a raggiungerla, anche se ci sarebbe voluto parecchio prima che la ragazza potesse rispondere anche a lei.

    Un giorno, Sofia si presentò in ospedale con un pacco e glielo porse trepidante, poi le mise al collo la collana di turchesi, insistendo sul fatto che quelle pietre – aveva sentito dire – avevano anche il potere della guarigione. A quel gesto, la ragazzina si lasciò andare alle lacrime, supplicandola di non farlo più, di guarire presto e di non abbandonarla più, perché lei non l'avrebbe mai sopportato. Daniela allora si riscosse dall'immobilità che aveva caratterizzato quei giorni di degenza e la strinse forte a sé.

    All'improvviso capì quanto per lei quel periodo fosse stato difficile: era stata costretta al silenzio mentre una persona che amava moriva lentamente davanti ai suoi occhi. Era così giovane, eppure le era stata vicina nella sua discesa all'inferno. Lei, di solito così remissiva, aveva trovato la forza di lottare contro i suoi genitori, contro l'intero paese, di prendere a schiaffi Simone. Era stata l'unica a tentare veramente di proteggerla, anche a costo di essere trascinata nell'ignominia insieme a lei e di beccarsi una sospensione, lei che in quanto a condotta non aveva mai dato problemi dall'asilo in poi.

    E lei non aveva pronunciato alcun 'grazie'.

    Allora Daniela promise. Avrebbe fatto di tutto per rimanere con lei.

    Aprì il pacco che le aveva portato: era il set da disegno, quello che aveva visto nella vetrina della cartoleria. Daniela prese a singhiozzare; era dal tentato suicidio che non lo faceva e quasi aveva sentito la mancanza del sapore amaro delle lacrime.

    Devi riprendere a disegnare” mormorò Sofia. “Sei brava, non puoi mollare tutto. Disegna quello che vuoi, ma non abbandonare questo sogno...”

    Daniela non sapeva come spiegarsi, come farle capire che ci aveva provato e che non aveva concluso niente. Il pianto aumentò d'intensità. Aveva paura: temeva che, se avesse tentato di disegnare e non ci fosse riuscita, non avrebbe più potuto rialzarsi.

    Eppure, anche Elisa, la psicologa che andava tutti i giorni da lei, sembrava convinta che dovesse fare un tentativo.


    Una volta tornata a casa, Daniela si sedette alla scrivania e afferrò un foglio e un carboncino. Lasciò che la mano di preparasse, poi la immerse nel disegno, dandole i suoi tempi, seguendo le sue inclinazioni. Ci volle più di un tentativo, più di un foglio appallottolato o fatto a brandelli, più di una crisi di pianto, ma alla fine, dopo intere giornate, riuscì a completarlo.

    Posando lo sguardo sul foglio, ansimò: senza nemmeno accorgersene aveva rappresentato se stessa, abbandonata su un fianco in quella strada, i vestiti sporchi e strappati, mentre alcune figure si allontanavano dandole le spalle. I tre ragazzi avevano fattezze di diavoli, mentre dalla schiena della Daniela del disegno spuntavano due ali spezzate e sanguinanti. Fece una smorfia: non aveva mai pensato a sé come ad un angelo, a dirla tutta... Poi comprese cosa aveva voluto rappresentare con quelle ali.

    Due lacrime macchiarono la superficie ruvida del foglio: non avrebbe mai creduto che avrebbe perso così la propria verginità...

    Guardando meglio il disegno, notò due sagome scure oltre una finestra, ad osservare la scena senza muovere un dito: sua madre e suo padre.

    Sei felice?

    La voce di sua nonna le ferì i timpani. Ora aveva la risposta: no, non era felice, non l'era mai stata. C'erano voluti sette anni per ottenere una risposta ed era servito un tentato suicidio per aprirle gli occhi e mostrarle ciò che aveva sempre saputo in fondo all'anima.

    Aveva ritenuto i propri genitori come persone inflessibili e severe, ma che in fondo le volevano bene. Aveva pensato che sarebbero stati lì nel momento del bisogno. Ora invece li vedeva con occhi disincantati: i suoi genitori non provavano amore per lei, forse neanche per Sofia. Per quando ritenesse assurdo che dei genitori non provassero amore per i propri figli, sapeva che non era poi così raro. Se solo una briciola di affetto avesse illuminato i loro cuori, allora l'avrebbero appoggiata, non l'avrebbero mai lasciata sola contro il mondo. Invece l'avevano messa in gabbia, per una colpa che non aveva commesso.

    Da loro, non aveva mai ricevuto amore. Le avevano dato da mangiare e da vestirsi, ma erano troppo preoccupati dell'apparenza per accorgersi che Daniela aveva un cuore che batteva e dei sentimenti: per loro, era più importante avere una famiglia rispettabile.

    Daniela si chinò di nuovo sul disegno e aggiunse Sofia, inginocchiata affianco a lei. L'unica che l'avesse veramente amata, che le fosse stata veramente vicina. La rappresentò con ali maestose, spalancate su di lei a proteggerla dalla pioggia. Sofia aveva solo quindici anni, aveva fatto il possibile per starle accanto, anche se da sola non poteva sperare di salvarla.

    Ora Daniela capiva che per risalire le sarebbero voluti anni, ma doveva farcela. Principalmente per se stessa, ma anche per sua sorella.

    Accarezzò la collana che non si toglieva mai e sorrise – il suo primo sorriso da mesi. Per quando quelle pietre avessero poteri di guarigione, sapeva che ciò che le stava dando la forza di lottare ancora era solo l'amore che sua sorella le aveva sempre mostrato.


    Non sarebbe stato facile rialzarsi e i suoi genitori non sarebbero mai stati di aiuto.

    Daniela doveva affrontare un passo alla volta, in un percorso irto di ostacoli. I suoi compaesani continuavano a guardarla con sospetto, bisbigliando e considerandola pazza, e ogni volta che si scontrava con quel muro di ignoranza Daniela temeva di non reggere più, ma allora la mano di Sofia sfiorava la sua, mentre la sua psicologa stringeva l'altra e la ragazza sentiva crescere in sé la speranza.

    Non fu facile. Per ogni passo in avanti che faceva, le sembrava di arretrare di altri dieci, ma non poteva fermarsi. Anche fidarsi di Elisa fu più dura di quanto pensasse.

    Ormai aveva smesso di cercare comprensione negli occhi dei suoi genitori, ignorava la loro presenza e tirava dritto per la sua strada.

    Due anni dopo, concluse gli studi con un voto scarso, considerando i bei risultati che racimolava prima dell'accaduto. Una volta preso il diploma, parlò con Elisa, chiedendole scusa, ma proprio non ce la faceva a rimanere lì in quel paese che tanto odiava; si mise d'accordo con lei, che le diede l'indirizzo di alcuni colleghi bravi che avrebbe potuto contattare ovunque fosse andata e alcuni recapiti che avrebbero potuto esserle utili.

    Se ne andò di casa pochi giorni dopo il diploma, aiutata da Sofia che, per quanto ferita dalla sua decisione, l'appoggiava come sempre. Non salutò nessuno, se non le poche amiche con cui rimase in contatto, quelle che non le avevano voltato le spalle. Quanto ai genitori, fu un addio silenzioso, suggellato da un solo sguardo.

    Prese le sue cose, i disegni, i vestiti e si trasferì. Per un periodo fu ospitata a casa della sorella di Elisa, giusto il tempo di trovarsi un lavoro e una piccola residenza propria.




    Ora Daniela ha trent'anni. Non vede i suoi genitori da almeno dodici anni e non riesce a sentirne la mancanza; abita a un centinaio di chilometri dal suo paese natale, ma non si sono mai cercati tra di loro. L'unico membro della famiglia con cui ha dei rapporti è Sofia, che sente regolarmente ogni due o tre giorni; pure lei si è allontanata dai suoi genitori, anche se non definitivamente. Il disegno ora è diventato il suo lavoro: crea illustrazioni per i libri, si sta creano un nome nell'editoria.

    Daniela non può dirsi una persona felice: le ferite sono troppo profonde per rimarginarsi completamente, sa che le faranno male per tutta la vita. Non è più la rassegnazione disperata che l'ha portata al tentato suicidio, però, ora riesce ad immaginarsi un futuro davanti a sé.

    Forse è proprio vero: per risalire bisogna toccare il fondo, per darsi la giusta spinta che le tue gambe, le tue braccia possono sopportare. Ma una volta tornati in superficie, è difficile non sprofondare di nuovo. Lei sa che non può permetterselo, ora non più.

    Ha ancora paura dello sguardo degli altri e del contatto fisico. Esce di casa solo quando non ne può fare a meno. L'unico uomo che abbia diritto di toccarla è Alessio, suo marito. Abituarsi a lui e alle sue mani è stato drammatico. Prima di riuscire a scambiare con lei anche solo una carezza ha dovuto attendere un anno intero, per arrivare a qualcos'altro anche cinque, ma ha saputo aspettare, ha rispettato i suoi tempi ed ha accettato di accompagnarla ogni venerdì dalla sua psicologa; perché ancora Daniela ha bisogno di un supporto professionale.

    Ma Daniela non nasconde più le sue cicatrici, lascia che ora gli altri le vedano. Fa la volontaria in un'associazione che protegge le donne maltrattate o abusate, nella speranza che la sua esperienza possa aiutare ragazze con i suoi problemi.

    Non può dar retta a chi le dice che ormai il passato è passato, che dovrebbe metterci una pietra sopra e scordarsi di ciò che accadde.

    Del resto, è convinta che chi non chiede perdono non abbia diritto ad essere perdonato.

    Lei non può dimenticare ed è giusto così. Negare ciò che è stato significherebbe solo sprofondare di nuovo nell'incertezza di una vita appesa al filo; invece, Daniela deve ricordare i soprusi, l'umiliazione, la mancanza di amore che i genitori le hanno dimostrato. Perché è questo ciò che l'ha ferita più a fondo: non lo stupro, non che il suo violentatore non abbia avuto le conseguenze che meritava, ma le spalle voltate di chi avrebbe dovuto amarla più di ogni altra cosa al modo, che avrebbe dovuto proteggerla e insegnarle ciò che è bene e ciò che è male.

    Dai suoi genitori, lei non ha imparato altro che indifferenza e egoismo. Ma adesso no, lei non vuole più essere indifferente. Daniela ora vuole amare.

    Daniela accarezza la sua pancia, che forma una curva decisa sotto le sue dita. Ancora un paio mesi, e la piccola Sara vedrà la luce del sole, conoscerà gioia e sofferenza. Quanto a Daniela, l'unica cosa che può sperare è di riuscire in qualche modo a proteggerla, a darle almeno l'affetto e l'educazione all'amore che lei non ha mai ricevuto.

    Ha ancora impressa nella mente l'immagine dei suoi genitori seduti in poltrona a fissare lo schermo freddo della televisione, mentre lei li osservava in lacrime dalla soglia del salotto, con la mano di Sofia sulla sua spalla. Daniela vi sovrappone il ricordo pieno d'amore del giorno prima: lei era accoccolata sul divano, mentre Alessio posava la testa sul suo pancione, per ascoltare il cuore della nuova vita che cresceva in lei.

    Sa che non sarà una madre eccellente, ma vuole almeno provare ad essere una madre amorevole. Vuole che sua figlia non arrivi a serbarle rancore, vuole crescerla educata ma felice, nei limiti del possibile.

    Nella speranza che anche lei, un giorno, possa arrivare a sentirsi serena.

    Fine.

    Giudizio di Marta86

    Grammatica e Sintassi 9,95/10Perfetta e impeccabile. L’unica cosa che ho notato è che in questa frase “Ora Daniela capiva che risalire le sarebbero voluti anni” ci manca un “per” tra “che” e “risalire”. Il resto è impeccabile.

    Stile 10/10Stile fantastico. Con le parole riesci a immedesimare fin da subito il lettore con la situazione infelice e poi drammatica della protagonista. Il tono crudo e disincantato ben si adatta al tuo racconto, valorizzandolo e mettendo in risalto ogni più piccolo particolare. Crei un’atmosfera rilassata con le introspezioni dei personaggi per poi arrivare di colpo al “fattaccio” e alle sue conseguenze, lasciando il lettore spiazzato e desideroso di continuare. Hai reso davvero bene la lotta interiore e la fatica che Daniela prova per uscire dal baratro con parole e frasi semplici ma d’effetto. Non so se ti sei ispirata a una esperienza realmente vissuta, ma ho percepito questa storia come qualcosa di reale e di vero. E sei riuscita a farmi emozionare. Complimentoni.  

    Originalità 9/10Purtroppo, in giro ci sono tante storie di violenza e abuso di donne ma tu hai scritto questa storia non limitandoti a citare l’episodio in sé ma a creare tutto un contorno prima e dopo, rendendo la fic qualcosa di unico e speciale. 

    Caratterizzazione dei personaggi 10/10I personaggi sono molto ben caratterizzati e particolari: passando per i genitori, tutti presi dall’apparenza e rigidi e freddi con le figlie, bramose di una goccia di affetto da parte loro, si arriva alla protagonista, una ragazza carina che le piace vestirsi bene, ma additata per questo come una “poco di buono” e una “provocatrice” da una società fatta di benpensanti e pregiudizi. Ed è stato spiazzante leggere delle presunte colpe della protagonista, che è stata una vittima ma contemporaneamente colpevole per essere nata donna e colpevole per aver sperato nella comprensione e nell’affetto dei genitori. È stato scioccante leggere della sua depressione e del suo tentato suicidio, come le voci dei suoi cari non le arrivavano più a farsi sentire e come imparava a bloccare le voci di chi le andava contro. Ho tirato un sospiro di sollievo quando ho letto che Daniela era riuscita a tirare avanti la sua vita, consapevole però che non riuscirà mai a lasciarsi alle spalle l’abuso perché le ferite sono troppo profonde. E questo l’hai descritto bene quando hai parlato del rapporto col marito Alessio e di quanto c’è voluto perché il rapporto diventasse tale e si evolvesse. Il personaggio che mi è piaciuto di più però è stata Sofia, la sorella. Calma e mansueta ai voleri dei genitori, trova il coraggio di ribellarsi alla loro rigidità e al conformismo della società, arrivando a inimicarseli per amore della sorella. È lei che ha la forza di soccorrere Daniela, di angosciarsi per le sue crisi ma standole comunque sempre accanto e non abbandonarla. Anche i personaggi minori sono ben definiti: il “carnefice” Simone che, appena ottenute le cose, ne perde automaticamente l’interesse; la zia Enrica, conforme alla società, la nonna, una vecchietta simpatica e profonda che si vede solo nei ricordi affettuosi di Daniela, la psicologa Elisa.In sostanza, tutti i personaggi sono pieni di spessore psicologico e sembrano reali.

    Contestualizzazione della parola da usare 9/10 La pietra turchese è apparsa nella collana di Daniela regalatale dalla nonna e la sua valenza è stata rispettata. La parola “pericolo” associata è stata ispiratrice nella prima parte della storia dove è successo quel che sappiamo. Ed è stata veramente bella l’idea che è successo l’abuso proprio una sera che Daniela non aveva indossato la collana. La seconda parte sono le conseguenze e la depressione di Daniela quindi il “pericolo” è stato più incisivo nella prima parte della storia. 

    Gradimento personale 5/5Ho adorato questa storia. Ho provato diverse emozioni, leggendola e sono arrivata al finale col fiato sospeso per l’interesse. Appena finita di leggerla, sono rimasta talmente impressionata da fissare il foglio vuoto di Word, cercando di trovare le parole per esprimermi nella recensione. Perciò scusami se le mie parole risulteranno banali, ma sono rimasta ammutolita per un po’ dopo aver letto la tua storia. Bella. Profonda. Scioccante. Vera.  

    TOTALE: 52,95/55
       
     
    Leggi le 5 recensioni
    Ricorda la storia  |       |  Torna su
    Cosa pensi della storia?
    Per recensire esegui il login oppure registrati.
    Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: ceciotta