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Autore: _Helene_    15/02/2011    0 recensioni
"Bad decision
that's alright
welcome to
my silly life..."
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tuttiii :D Sì, lo so... Invece di postare i capitoli dell'altra storia, mi dilungo in one-shot xD Ma è stato un momento d'ispirazione *-* Avete ascoltato "Fuckin' perfect" di Pink? Beh, ve la consiglio perchè, oltre ad essere fantastica, questa song-fic è proprio quella canzone sottoforma di storiella :D hihihi...
I hope you like it xD c'ho messo un intero pomeriggio xD
 



                                            
                                  ... 
Fuckin'
 Perfect * 


      

                     "Bad decisions,
                    that's alright 
                         welcome to my
                              silly life..."





Fisso il soffitto da più di dieci minuti. Mi sento vuota e nella mia testa solo un’immensa voragine che incombe su di me.
Che la mia vita abbia preso l’ennesima disastrosa svolta?
E se non fossi ciò che ho sempre desiderato? Non so, sento che mi manca qualcosa, qualcosa di importante e, soffermando la mia mente sul mio passato, non riesco a capire cos’è che effettivamente manca.
Il mio letto è freddo come un iceberg e fare l’amore con lui non mi basta, non mi riempie il cuore.
Ecco, come previsto.
Lee mi fissa per alcuni istanti, gli sorrido in modo stentato per non trasparire cattive emozioni, dopodichè si gira di lato, si sistema le coperte e inizia a contare le pecorelle in attesa di addormentarsi, stanco. Questa volta è stata migliore delle altre: di solito esce sul terrazzino a fumare due o tre sigarette grattandosi la pancia in modo compiaciuto.
Vorrei mi abbracciasse. Da quand’è che non lo fa?
Vorrei sentire il suo calore in modo diverso, in modo più dolce…
Stringo a me il cuscino e non posso far a meno di pensare, mentre una stupida lacrima mi solca la guancia ancora impregnata di cipria.
Il mio sguardo si posa su un piccolo orsacchiotto gettato in un angolo di una vecchia poltrona.
Quant’è carino, ha un grande fiocco color dell’autunno proprio su quel collo stretto e morbido. E quel bottone al posto del nasino? Così tenero… Ho passato le migliori notti insonni in sua compagnia, cercando un’infantile consolazione.
Ricordo ancora quando mio padre lo portò a casa il giorno del mio quarto compleanno, quasi fosse ieri. Gli anni sono passati così veloci, eppure lenti a tal punto da portar addosso i segni indelebili delle mie sconfitte.
La mia infanzia non è stata delle migliori. Mio padre lasciò me e mia madre quando ero solo una bambina, avevo all’incirca cinque anni o giù di lì. Da quel maledetto sette luglio non sentii più il profumo del suo dopobarba al mattino, nessuno mi abbracciò, nessuno rispose alla chiamata più infantile.
- Papà? – sussurravo ingenuamente alla mamma, mentre lei si perdeva in un incessante pianto. Non capivo, come avrei potuto farlo?
Giorno dopo giorno però, mi resi conto che ogni traccia lui era scomparsa. I suoi vestiti, la sua schiuma da barba sul mobiletto del bagno, le sue pantofole sotto al letto, persino le foto sul camino. Era svanita ogni cosa.
Mia madre era distrutta e mi prestava sempre meno attenzioni.
Quando iniziai la scuola materna fu terribile. Tutti sembravano avercela con me, e non avevo voglia di fraternizzare con nessuno.
Ricordo solo ed esclusivamente un episodio e, quando ci penso, non posso far altro che stentare sorridere pensando a quante delusioni avrei dovuto trattenere sulle spalle.
I soliti codini tenuti all’insù da due elastici rosa, il solito vestitino che non mi andava poi così a genio ed il mio unico amico: un orso di peluche con tanto di fiocco. L’adoravo, così come adoravo mio padre.
Un ragazzino, punto in bianco, lo afferrò e lo lanciò in aria dall’altra parte del piccolo giardino in cui eravano soliti passare i primi pomeriggi soleggiati d’aprile. Ricordo solo gli occhi strabuzzati della signorina Hay, mentre atterravo il piccolo Thomas, tirandogli una buona dose di quei capelli fin troppo lunghi per un bambino della sua età. Nel momendo in cui la maestra mi sgridò, per quello che potei, mi sentii maltrattata, non capita, fuori luogo… Da quel giorno lo odiai a tal punto da non voler più frequentare quella scuola. Era come se, involontariamente e quasi in modo innocente, Thomas mi avesse toccato un pezzo della mia fragile vita in bilico tra la realtà di una giovane adulta e la favola di una bambina. Era come se avesse gettato in aria mio padre. E sentivo a tutti i costi di doverlo difendere dai nemici.
Passarono due o tre anni, avevo all’incirca otto anni al massimo. Durante quei trenta minuti ricreativi, me ne stavo perennemente nascosta nella mia classe. Ci era concesso fare uno spuntino in cortile o giocare con degli stupidi palloni gonfiabili che, in teoria, avrebbero dovuto farmi andare su di giri.
No, preferivo osservare i miei coetanei dalla finestra, il più lontano possibile da quelle brutte facce. Piangevo, ero distrutta. Avrei voluto far amicizia, ma il mio carattere non mi permetteva neppure di aprir bocca con qualcuno. Dicono sia facile, iniziare un rapporto da bambini. Magari scambiandosi le bambole, ideando romantiche scenette in cui, quasi sempre, il principe portava in salvo la sua principessa in un castello dimenticato dal resto del mondo. Perché non accadeva come nelle fiabe? Perché a soli otto anni, non riuscivo a buttar giù un sorriso sincero?
Con le mani imbrattate di tempera di un colore indefinibile, mi sporcai il viso tentando di nascondere il brutto anatroccolo che era in me. Fu lo stesso giorno in cui però, la mia tenera vita ebbe una svolta… Guardando una semplice lavagna scarabocchiata ed imbrattata da decine e decine di mani di una miriade di colori, ebbi un sussulto.
Arrivarono i quattordici. La mancanza di mio padre era sempre più alta e mia madre continuava a scaricare su di me le sue preoccupazioni, iniziando ad essere severa e apprensiva nei miei confronti.
Ma mi sentivo bene, meglio… imparai a nascondere le mie emozioni esternandole con qualcosa di meno evidente come ad esempio un rossetto scarlatto, una gonna scozzese, delle borchie e uno spesso filo di matita nera sotto i miei occhi azzurro cielo. In quel modo sì, che il brutto anatroccolo era al sicuro da occhi indiscreti.
Primo giorno di liceo. Ricordo solo il sonoro schiaffo di mia madre e l’anta del mio armadio sbattere ripetutamente.
- Voglio essere me stessa! – urlai, nella speranza che qualcuno potesse udire le mie richieste d’aiuto. Ma quella donna, mi tolse persino il diritto di ribellione.
Fu così che sedetti composta al mio nuovo banco, con i capelli raccolti in una coda di cavallo, ordinata, senza un filo di trucco ed una camicetta che sentivo di poter strappare con un solo respiro riducendola in mille e uno stracci per la polvere.
Mi sentivo persa, non a mio agio, ma per un attimo percepii di averne abbastanza di non riuscire a sorridere. Così tanto che tramutai la mia prima “F” in una faccina alquanto incazzata e ridicola allo stesso tempo. Era così che riuscivo ad esternare i miei sentimenti: disegnando, mettendo in moto la mia acuta fantasia.
Fuori apparivo tranquilla e serena, i miei sentimenti per un po’ di tempo vennero racchiusi tra le linee di una biro, facendo in modo che non fuggissero dai miei fossati mentali.
Gli anni del liceo furono degli anni in cui gettai sangue e fuoco. L’episodio che ancora provoca in me brividi a fior di pelle fu quel maledetto giorno in cui le mie suddette amiche dovettero provarsi i vestiti per il ballo di fine anno. Avevo diciassette anni, ma mi sentivo vecchia abbastanza da sentir di poter lasciare il mondo in quel preciso istante. Nessuno mi aveva invitata.
Me ne stavo rinchiusa in uno dei camerini. Ancora una volta non ero a mio agio. Non riuscivo a trovare in me un lato decente che, in un qualche modo, potesse piacere anche agli altri. Quei chili di troppo che accumulai man mano, ridussero la mia autostima pari a zero. Con la coda dell’occhio, le fissavo girarsi e rigirarsi davanti allo specchio, volteggiare come fate tra gli alberi di un bosco incantato. A quel punto feci un gesto di cui ancora me ne pento: anch’io volevo essere una fata. Rubai un vestito tre volte più piccolo della mia taglia, proprio come quelli che entravano a pennello alle smorfiose che avevo di fronte. Decisa e senza dare nell’occhio mi avviai verso l’uscita, ma appena il mio dannato piede fu fuori da quel negozio, l’allarme suonò e tutti risero di me. Scorsi qualcuno scattare una foto, mentre abbassavo la testa, sconfitta ancora una volta dal mio stesso modo di essere.
Era una sorta di gioco, un gioco malato, stanco e pieno di odio che  mi costringeva a seguire i miei demoni fino alla rovina. 
Quel pomeriggio giunsi al limite della sopportazione. Riempii la vasca d’acqua bollente, avevo bisogno di calore… Afferrai una lametta e, ingoiando la paura, iniziai ad affondarla nel mio braccio sinistro. Le gocce di un rosso scarlatto si tuffarono, mescolandosi in quell’acqua non più limpida e trasparente, ma di un vermiglio spento e colmo di ogni mia preoccupazione, di ogni promessa mancata, di ogni gesto perduto in tutti quegli anni.
Il dolore mi invase, ma mi liberò totalmente.
Abbandono per un attimo i miei pensieri e tolgo il braccio sinistro dalla pesante coperta: “PERFECT”, che altro avrei potuto incidermi? Era un’autoconvinzione piuttosto malata, era un andare contro tutti, era sentirmi come una miss, miss “ no, va tutto bene”, mentre dentro piangevo lacrime amare divenute difficili persino da versare.
Quel giorno fu lui a salvarmi. Sì, proprio lui. Il mio orsacchiotto se ne stava lì in una cesta, inerme della situazione. Ma ne ero sicura: se avesse potuto mi avrebbe salvata da quella sorte.
Lo scorsi e mi tornò in mente mio padre. Lui non avrebbe voluto vedermi morta in una vasca da bagno. Ma non c’era, non c’era più da troppo tempo ormai… Gettai la lametta in terra e uscii da quell’acqua divenuta di un tiepido malsano e poco confortante, così come lo era il mio cuore che, stanco a causa del sangue perduto, batteva debolemente, quasi volesse ribellarsi a quell’assurda sorte.
Afferrai una forbice e, di netto, tagliai i lunghi capelli castani che portavo. Un taglio corto. Sì, poteva andare bene, bene per una che aveva urgente bisogno di un cambiamento, di guardarsi allo specchio e dire “sono io, ma non mi importa il mio aspetto esteriore”.
Cazzate, da quel giorno rifiutai persino il cibo. Era diventata una tale ossessione apparire magra e priva di forme che ci riuscii. Vinsi quella sorta di gara malata in cui credevo di essere la vincitrice. Dimostrai alle mie amiche che anch’io, se volevo, potevo indossare una taglia da modella.
Non ne potevo più delle mia insana vita. Non ne potevo più di essere la seconda scelta degli altri, ne di essere considerata oggetto di burle e cattiverie varie. Sentivo di essere qualcuno, di poter essere qualcuno… Bastava solo volerlo, sarebbe stato sufficiente esternare tutta la rabbia che avevo in corpo in modo meno bestiale.
Un flashback mi invase la mente, lo ricordo come fosse ieri. Una lavagna, impronte di mani, gessetti colorati. Una “F”, uno smile. Una sconfitta, seguirà una vincinta, basta volerlo, basta crederci, basta non smettere mai di sperare in se stessi.
Afferrai un pennello e iniziai ad “esternare”. Disegnavo i miei stati d’animo, ed era soddisfacente vedere quanto ciò riusciva ad aiutarmi. Quella faccia colorata dalla semplice punta di un veloce pennello, contorta in una smorfia di dolore e dai corti capelli macchiati di nero, ero io. Ed ero rinchiusa, prigioniera di una semplice tela bianca.
Dipingere diventò così tanto un abitudine che, le mie opere, furono esposte in una famosa mostra ed un critico d’arte mi ingaggiò nella sua azienda.
Chi l’avrebbe mai detto? 
 
Incredibile, Lee mi sta abbracciando. Sento il suo fiato caldo e dolce sul mio collo intorpidito da mille pensieri. Socchiudo gli occhi, come per assaporare questo momento di vittoria che, a momenti, appare inafferrabile a tal punto da sembrare solo un sogno.
Dopo un po’ decido di alzarmi e lui mi sorride. Mi accorgo che non sto sognando. Mi diriggo verso il mio orsacchiotto, lo afferro e presto arrivo in una piccola stanza colorata, dove una luce soffusa rischiara le pareti rosa e azzurre. È pieno di pupazzi in giro, sono ovunque.
Poso lievemente il piccolo orsacchiotto sul lettino, non voglio rischiare di svegliarla. Il mio unico amico si chiama JJ, proprio come il nonno della bambina che dorme accanto a me. Un sorriso sboccia dalle mie labbra e, lievemente, le sussurro le parole che sono sicura avrebbero potuto migliorare la mia vita da un bel po’ di tempo.
“You are perfect to me…”
Una lacrima si riversa sulle calde lenzuola e le mie dita sfiorano quel confortante tessuto.
Ero una maschera, e credo che basarsi sul giudizio altrui sia un qualcosa che, prima o poi, ci manderà fuori rotta, come è successo a me.
Ma è servito da lezione ed il mio braccio, di tanto in tanto, si diverte a ricordarmelo.
Ero perfetta, ognuno di noi lo è. Basta solo non soffermarsi sul passato e su ciò che riflette uno specchio, basta trovare il modo di esternare il proprio dolore e, quando lo si è trovato, trasformarlo nell’arte che più ci aggrada.




**


Spero vi sia piaciuta *-* Vi lascio con il link del video :D

http://www.youtube.com/watch?v=s4Rax2PXiWA&feature=related 

A presto! :*

 
 
 
 
 
 
 
   
 
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