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Autore: Silver Pard    20/02/2011    2 recensioni
Un’ombra vuota. Un idolo vacuo.
Tu la chiami tortura, ma in cuor tuo sai che è giustizia.
Genere: Generale, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Cloud Strife, Sephiroth, Un po' tutti, Zack Fair
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII, Advent Children
Capitoli:
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(Prateria degli Asfodeli) (Il conto alla rovescia)





Ai tempi in cui era ancora un giovanotto di Nibelheim, Cloud avrebbe detto: non giocare d’azzardo con Reno; quello è amico di Loki. L’avrebbe detto con le particolari inflessioni dell’accento del Nibel, e avrebbe fatto quell’impacciato sorriso di circostanza dei ragazzi di campagna in mezzo alla compagnia di città, in particolar modo quando si parla di dei e superstizioni. In posti come il mio paese, un’affermazione del genere si sarebbe guadagnata soltanto un cenno di approvazione e uno sguardo diffidente all’uomo in questione, ma in città vieni ringraziato con una faccia incredula e una risata sprezzante.

Però sì, Reno è amico di Loki. Diamine, il dio dell’inganno dev’essere stato suo nonno o un altro parente stretto visto il suo talento con le carte.

Taaaanto tempo fa giocavo molto spesso con Reno: baravamo entrambi senza ritegno, e di tanto in tanto buttavamo giù le carte per accusare l’altro di un qualche trucco di mano, e quando finivamo (Reno vinceva sempre, nel caso ve lo steste chiedendo; una volta mi aveva compatito per la peggiore faccia da poker che avesse mai visto) confrontavamo i rispettivi appunti.

I giochi di carte non sono l’unica arena in cui Loki è amico di Reno.

Alla base di tutti i trucchi c’è il depistaggio – mentre l’attenzione del tuo pubblico è concentrata sulle cose più ovvie, tu gli combini il vero trucco sotto il naso. Che è anche una parte essenziale della natura di Reno come Turk.

Può portare a termine il lavoro con gli occhi di tutti puntati addosso: mentre tutti si concentrano sulla roba grande, la roba spettacolosa per cui è famoso, approfitta dell’occasione per strisciare alle loro spalle e piazzare innumerevoli lavoretti due volte più importanti che loro non noteranno mai e che a lui non verranno mai riconosciuti.

È per questo che lui e Rude sono la squadra perfetta. I loro avversari tendono a tenere d’occhio Reno, l’aggressivo, vistoso Reno con i capelli rossi e il suo manganello elettrico, e Rude sfrutta la loro distrazione per inchiodarli con un colpo alla nuca (in molti casi, letteralmente. La prima cosa che dicevano i loro nemici quando si ritrovavano al cospetto di Hades era: « Ma ce l’avevo proprio davanti! »)

Sono la tag team del secolo. Vanno insieme, si… s’incastrano tra loro. Reno e Rude. Rotola sulla lingua, vero? (Capra e crepa. Tre e tigri. Ba e Boom!

—Rude e Rompiballe, sbuffa Sephiroth, irritato, squadrandoli torvamente.

La sua suscettibilità potrebbe avere qualcosa a che vedere con il famigerato poster pubblicitario di Reno dello “Shampoo Mako”, quello con un Seph mezzo nudo ricoperto di schiuma. Porca miseria se non fu divertente guardare i dirigenti che strabuzzarono gli occhi quando lo trovarono in bacheca.

Se non fossi stato io a fornire la foto ci sarei cascato a mia volta; quello del fotoritocco è un altro degli incredibili talenti di Reno.)

« Io non ci posso credere » borbotta a Rude in questo momento, battendosi leggermente la gamba con il manganello elettrico (sfortunatamente scarico). Rude, che non è mai stato famoso per la sua loquacità, grugnisce. « Insomma, cazzo » continua, ignaro della mancanza di interesse di Rude. « Il capo è impazzito e gioca a travestirsi, Strife è impazzito e gioca a fare il postino- » Sbatte le palpebre. « Merda, ché poi cos’è che dovrebbe fare il salvatore del mondo una volta salvato il mondo? »

Rude scrolla le spalle con indifferenza, controllandolo a vista perché riconosce i segnali – i giochi col manganello? Significano che Reno ha voglia di dare a qualcuno un assaggio di come potrebbe essere la sedia elettrica. Le improvvise partenze per la tangente? Reno sta cercando di resistere al summenzionato impulso. La mano che si passa di frequente tra i capelli? Il cervello di Reno si sta ribellando ai pensieri seri e Rude deve pensare a un modo per intrattenerlo, altrimenti possono dire addio a mezza città.

« Beh, chissene. » Fa un gesto di noncuranza con la mano. « Noi siamo Turk. E lui ci dice che dobbiamo starcene buoni ad aspettare e- »

« … Microonde. » lo interrompe.

Il treno dei pensieri di Reno deraglia completamente e si schianta contro la barriera di cemento di un Rude-che-parla, proprio come voleva Rude.

« Uh? » dice, ma Reno non è il partner di Rude da quando l’umanità è strisciata fuori dal brodo primordiale per niente. Ogniqualvolta Rude dica qualcosa ad alta voce, Reno sa che sta per succedere qualcosa di grande. L’attesa trepidante per ciò che sta per accadere comincia automaticamente a strillare da ogni cellula del suo corpo.

« Pop-corn. » aggiunge Rude, solo per essere assolutamente certo che Reno lo ascolti. Ora Reno è in stato di allerta. Rude ha sempre le idee migliori, e gli lancia un’occhiata delle sue da sopra gli occhiali da sole. Sogghigna. « Boom. » conclude.

Reno è deliziato. Rude lo conosce come nessun altro – le esplosioni sono le sue preferite.



Quando entra nella chiesa, l’anello è lì ad attenderla.

Ovvio che non glielo potesse dare di persona. In fondo nessuno lo ruberebbe – a parte gli altri componenti dell’AVALANCHE, solo chi desidera protezione entra in questo luogo – e Cloud doveva sapere che proprio oggi sarebbe venuta in visita. Poi si chiede se non sia un regalo per Aeris, piuttosto che per lei.

È notevole. Brutto, ma notevole. È un’altra versione del gingillo che porta lui all’orecchio, ma è piccolo persino per le dita sottili di Cloud, e dev’essere stato fatto uno sforzo considerevole per snellire e rifinire i lineamenti del lupo, tanto che non ha l’aspetto più vigoroso e quasi tozzo dei suoi soliti ornamenti.

Non ha nulla dell’eleganza e della raffinatezza che lei cercherebbe in un anello, ma ammira la delicatezza nella rappresentazione della testa del lupo, le minuscole zanne, la curva gentile del muso, gli occhi saldi, la forma del pelo stilizzato in argento liquido.

Rimane un accessorio maschile, troppo vistoso e grande per lei, ma può imparare ad apprezzarlo, se significa quello che crede lei.

I lupi sono creature da branco, pensa, passando il pollice sul quel muso sospettoso, hanno bisogno di compagnia, e le viene in mente che se Cloud è un lupo, anche lui deve essere una creatura da branco. Capisce che è questo che il lupo al suo orecchio ha cercato ripetutamente di dirle mentre lei era troppo sorda per ascoltarlo.

Per quanto possa provare a distanziarsene, Cloud rimane un membro del branco che hanno formato, e se un branco può sciogliersi in tempi di ricchezza, in tempi di bisogno è una questione di sopravvivenza essere tra amici.

Tornerò, le dice ora il lupo. Io appartengo a questo luogo. Tu sei la mia famiglia. Sii paziente. Io ho bisogno di te.

A Tifa non sono mai piaciuti molto i lupi. Tanti anni fa i loro tetri ululati la tenevano sveglia la notte, e una volta arrivò a pensare che fossero gli spiriti che si erano smarriti lungo il viaggio sulla montagna che avrebbero passato il resto dell’eternità a richiamare nuove anime per mostrare loro la via.

Le sue mani la tradiscono, lo prendono e lo infilano a un dito.

Contro la sua volontà, comincia a immaginare un bambino, con i capelli di lui ma con i suoi occhi, o forse il contrario, un bambino che crescerà magro e minuto, alto quanto un monte ma senza la corporatura robusta e pesante costruita di generazione in generazione con la vita in montagna.

(A Nibelheim, bambini come quelli che immagina verrebbero considerati fragili e deboli, è verosimile che muoiano entro cinque inverni.)

Si vede con in braccio un bebè, un neonato. Riesce a sentire il suo (lei lui) peso sul fianco, i morbidi ciuffi di capelli chiari, la pelle liscissima appena creata e libera da cicatrici. Riesce a scorgere i suoi fiduciosi occhi azzurri, annuvolati come un cielo di maggio, che forse si scuriranno e si raddolciranno, diventeranno come la terra, calda e accogliente, o forse si schiariranno e si affileranno, diventeranno come il mare, liscio come il vetro in superficie ma insidioso in profondità, con le sue correnti nascoste e il freddo micidiale. Inspira quell’odore unico dei neonati, si avvolge addosso il calore della sua presenza come uno scudo.

Il mio bambino, pensa, e si sente spezzare il cuore da quanto è irraggiungibile, il mio bambino, mio figlio, mia figlia – la mia creatura. Non ha mai desiderato così tanto qualcosa in tutta la sua vita, ma nella sua mente uccide quel bambino, e lo seppellisce senza una preghiera. Ha imparato la lezione – i sogni sono cose pericolose e letali.

(—Provaci. Insegui l’impossibile, bisbiglia Aeris.

—Li stiamo distruggendo, dico io, ma Sephiroth mi calpesta:

—Siamo morti. Noi non facciamo niente. Sono le loro stesse scelte che li condannano a soffrire. Per cui che soffrano.

—Proprio tu parli di orgoglio, sibila lei.

—Ho per caso menzionato l’orgoglio? La sua voce è come uno schiocco di frusta, il sibilo tagliente dell’aria che si fende qualche istante prima della carne.

—Era sottinteso.

—Oh? mormora. Ogni tanto rimango meravigliato dal sarcasmo che il mio superiore riesce a imprimere a una sola sillaba.

Bambini. Piantatela, scatto. Sto ancora pensando a Tifa che culla quel neonato immaginario come una bambina con la sua bambola, ansiosa di crescere. Ah, quand’eravamo vivi non ero mai io il tipo giudizioso della situazione!)

Non ci penserà più. Lascerà quel possibile bambino qui, sotto i fiori gialli, un sacrificio come tanti all’altare del passato che hanno istituito.

(In questo posto si percepisce la disperazione – sa di sangue fresco, ti fa pensare a un uccellino che ti accarezza il viso con l’ala rotta mentre soccombe in una spirale.

La disperazione di Tifa risuona e vibra come un urlo, come il pianto che segue la rottura di un osso.

—Ehi, tesoro, arrenderti non è il tuo stile. Abbi un po’ di fiducia.)

« Ti amo » dice, e la sua voce si rompe di dolore, per la pressione di quelle piccole paroline che ha tenuto chiuse dentro di sé per tanto tempo. Qui dove non può vedere il suo viso può pronunciarle senza esitare.

(Ah, ma di fronte a una tale considerazione che altro può fare, il nostro Cloud, se non scappare?

—Già, che altro può fare, sbotta Aeris, e capisco che non riuscirà più a sopportare oltre.

(La tua è una battaglia persa in partenza, amore.) Si dondola piano, avanti e indietro, e mi chiedo se non stia pensando alla vita che avrebbe potuto avere, se anche lei non stia immaginando un bambino con i begli occhi di Cloud o i suoi capelli arruffati, e provo a non ingelosirmi. Io sono morto, mi dico, ma lei era viva come lui.)

« Lupi » continua, tornando a guardare l’anello, spingendo via le sue tenui illusioni con la realtà del suo peso, facendo cadere le parole come pietre nel silenzio immobile. « Lupi. Cloud, perché non potevi dirlo? »

I fiori non le rispondono, e rimane ferma per un lungo istante, tracciando quei lineamenti feroci con un dito, quel sorriso fiero. Non dice ti amo; non parla di eternità, vero amore e matrimonio, come avrebbe fatto un anello normale. Dice quest’assenza non è per sempre, e vale mille dichiarazioni del genere.



Il pasticcio di pop-corn e pezzi di microonde sarebbe orribile per i profani, ma tutti i Turk sopravvissuti sono abituati a cotali visioni. Tseng aggira attentamente (leziosamente) i pop-corn.

« Mi aspetto che tutto ciò venga ripulito prima di domani » ordina con una voce di seta, nel suo miglior tono da “NO-questo-casino-non-mi-tange”.

« Altrimenti? » prorompe Reno con voce strascicata, ammucchiando i pop-corn in piccoli cumuli prima di gettarli in aria. Rude tossicchia dall’altra parte della stanza, dove sta creando un mostro meccanico degno di Hojo – un terrificante amalgama di vitali componenti interne di microonde, scotch e cavi di riserva. Reno coglie il suggerimento e impasta uno sguardo contrito che non imbroglierebbe nessuno, figurarsi il signor Perfettini in persona.

(—Amareggiato, Zachary? mormora Sephiroth, e somiglia tantissimo al classico commento del Vero Sephiroth™, anche per il modo in cui l’ha detto, e il cuore mi salta in gola.

—Oh, no, dico con noncuranza. —Amareggiato? Io? Nah. Mi conosci, io e il rancore non andiamo d’accordo. È solo che, sai com’è, lui era coinvolto nel mio omicidio

Se questo fosse lo stesso Sephiroth che è stato mio amico, lo stesso Sephiroth che mi disse che saltellavo come un ragazzino sulla strada per Nibelheim, inarcherebbe un sopracciglio e accennerebbe un sorriso, una peculiare espressione che mi spronava sempre a continuare, tanto che alla fine le mie risposte perdevano coesione e si sbriciolavano di fronte al suo divertimento.

Ma questo non è il mio amico. Si volta, completamente disinteressato, come se non avessi detto nulla. O come se qualcosa l’avesse detto lui.)

« Altrimenti, puoi spiegare ad Elena che non ci saranno burrito passati al microonde. »

(… Devo ammetterlo, Tseng sa come giocarseli. Gli faccio comunque dei gestacci alle spalle.)

Il mostro meccanico di Rude emette un ding e comincia a trascinarsi a scatti verso Reno. Reno abbandona i pop-corn in un lampo. « Vieni da papà! » lo chiama deliziato, afferrando la macchina e aggredendola con un cacciavite. Tseng sospira stizzito e scivola fuori dalla stanza.



Reeve Tuesti non riesce a ricordare chi è. Ogni volta che crede di saperlo gli basta un’occhiata al piccolo gatto meccanico, muto e morto sulla sua scrivania, in attesa, per dubitare di tutto.

Tutti gli anni passati alla ShinRa a cercare in quella sua personalissima e tiepida maniera di aiutare i più sfortunati si annullano se paragonati a quel gatto tre volte maledetto. E come se non bastasse, Cait Sith non è nulla.

Moguri imbottito a parte, non era il membro più vistoso del gruppo, non era importante, non era utile (perfino le sue limit break sfidavano le frontiere dell’inefficienza e dell’inutilità: Reeve non è mai stato bravo con le slot machine), non è mai stato un granché se non spesso irritante e occasionalmente traditore.

Eppure, tutto ciò che Reeve abbia mai fatto impallidisce al confronto. Non è giusto.

(Non ci disturbiamo nemmeno a degnare quest’affermazione di una risposta. Certo che non è giusto, ma da quando questo conta qualcosa?)

Conosce i patti, certo che li conosce. Gli sfugge come gli altri siano giunti alla conclusione che sia necessario commemorare un giorno del genere (—È stata la vittoriosa conclusione di una campagna elettorale? propone Sephiroth, che non ha mai apprezzato la mentalità burocratica, decisamente) quando ci sono tanto lavoro da fare e tante verità da raccontare.

È lieto che la fine del mondo non sia arrivata e di tutto quello che ne è conseguito, ma questo non cambia il fatto che lui abbia ancora del lavoro da sbrigare e che la città sia ancora in rovina – e tanto lui non è mai stato una parte reale del gruppo. Non Reeve.

Lascia andare Cait al posto suo.

Va bene così. Non importa. Non era lui che volevano. Lui è l’uomo dietro Cait, dietro la sua strana cadenza dialettale e i gesti pomposi; sarà come se ci fosse.

Guarda l’aeronave partire prima di tornare al suo lavoro, vuoto e luttuoso.

Scarabocchia una dozzina di firme, si ferma, e vorrebbe che Cait fosse ancora qui, vorrebbe poter accarezzare le punte di quella stupida corona, percorrere con le dita il petto bianco e i segni netti sul muso, un’abitudine calmante diventata automatica ogni volta che si sente solo oppure, in alternativa, è circondato da noi.

Ormai non dorme più tanto. Non ne ha il tempo, né gli serve – deve auto-flaggellarsi, comporre dei piani; il suo mondo ruota attorno ai progetti e agli incontri del dipartimento, proprio come tanti anni fa, quando presentò Midgar al mondo come la più fiera delle levatrici.

Pratiche d’ufficio. È troppo occupato per festeggiare il ruolo che ha ricoperto nella salvezza del mondo per via di queste pratiche.

(D’altro canto, alla ShinRa funzionava così. Ragazzi, anche se Seph era un autentico mostro dell’ordine, ha visto la superficie della sua scrivania solo e soltanto quella volta che io ho azionato… accidentalmente… una Fire Materia.

Gh, saltò tutto in aria come… beh, come una serie di pacchi di fogli altamente infiammabili. Certo, me le diede per sette giorni di fila, ma l’enorme vaschetta di gelato ai biscotti che mi comprò dopo cancellò un po’ il gesto.

E poi, perlomeno scoprimmo che il sistema antincendio andava riparato.)

Ogni tanto parla con Cait, al buio, osservando la luce della luna che batte sul faccino meccanico, provando un impeto di adorazione paterna per quella creaturina che gli è tanto preziosa. Alla luce del sole viene schernito dagli occhi vacui e spenti e dall’immobilità simile alla morte del suo bambino, e lo odia con la furia impotente di chi passa inosservato, ma al buio non può vedere le sue colpe riflesse in quella scintillante corona da quattro soldi.

Nel monitor vede con gli occhi di Cait, e cerca di capire quand’è stato che Cait Sith ha smesso di essere un giocattolo e ha cominciato a essere lui.

« Ehi, Cait, che cosa facciamo stasera? » chiede gentilmente all’aria vuota, canzonando inconsciamente un cartone animato per bambini.

« Quello che facciamo tutte le sere, Reeve » si informa nella voce di Cait, un guizzo forse di umorismo, forse di malizia negli occhi. « Tentare di conquistare il mondo! »

Alza un bicchiere a noi, lo manda giù come se fosse acqua. Non parla, non piange, non vede nulla al di là della finestra ed esprime innumerevoli desideri con tutto se stesso.

Allunga distrattamente la mano per toccare Cait, ma le unghie gli affondano nel palmo quando le sue dita non trovano altro che aria.



Vincent sogna, e i sogni che fa non sono meglio dei suoi pensieri, complesse ragnatele di fuliggine e ardiglioni, catene di ricordi orrendi.

Qua e là intravede Lucrecia, ma non è la Lucrecia che vuole vedere. Qui e lì inciampa nell’incubo di qualcun altro, e di tanto in tanto si smarrisce nel maniero ShinRa, seguendo i nostri fantasmi mentre sfrecciamo di stanza in stanza (—Qui! Sa suonare il pianoforte, signor Valentine, uomo-vampiro? Da questa parte! In quella camera a Jenova è venuta la fame chimica, meglio non entrare, quella infetta!).

Vincent è l’incubo fatto carne, e passa molto tempo qui, nella sua testa, dove è meno un mostro e più un incidente del sogno.

Chaos si stiracchia e si alza per camminare al suo fianco nelle tenebre, le ali nere tagliate dalla notte che si spiegano per ammantare il mondo, la sua forma cangiante, incompleta. Parla in una voce di seta antica, scolorita e lisa, la sua risata è come il fruscio delle foglie secche sugli alberi morenti, si muove come un panno di raso che striscia su una lapide, come un Kwal sempre pronto a scattare.

In questo luogo, Vincent può guardarsi nel cuore senza spaventarsi. Forse può persino provare affetto per Chaos, qui, perché Chaos è una parte di lui che non può essere negata senza dolore. Sono entrambi liberi e contenti in momenti come questi, quando si trascinano per le stanze vuote in cui sono nati e sono stati plasmati.

(Se fossi sincero, spiegherei che ci sono giorni in cui odio Vincent Valentine. Ci sono giorni in cui non riesco a tollerare di essere vicino a lui, a Valentine e al suo appariscente mantello rosso, ai suoi sospiri che fanno tanto ahimè, alla sua nauseante nube di autocommiserazione e alla sua arrogante insistenza nel caricarsi tutti i peccati del mondo sulle spalle. Ci sono giorni in cui piega la testa nel modo giusto, o fa un gesto preciso al millimetro e non vedo altro che Sephiroth e non posso fare a meno di pensare, perché non poteva succedere a te, inutile e patetico spreco di spazio tombale? Chi cazzo piangerebbe te nella stessa situazione?

Se fossi sincero, spiegherei che gli porto rancore. Gli porto rancore per aver dormito “per espiare” quando avrebbe potuto fare qualcosa, quando avrebbe potuto aiutare Seph. Gli porto rancore per Cloud, per la manica nera di Cloud e il suo capo chino. Gli porto rancore per aver insegnato a Cloud fin nelle minuzie come naufragare in oceani di Angst, per essere un’illustrazione tormentata, per essere una tale primadonna del cazzo.

Se fossi sincero, vi direi che disprezzo Vincent Valentine-

Ma non lo disprezzo.)

Vincent si sveglia, e non riesce a capire se si sia svegliato o se stia ancora dormendo. Diventa difficile rendersene conto, quando si trascorre tanto tempo nel reame dei sogni a vagolare nella terra dell’incubo. (No, ma veramente, non riusciranno mai a togliere quelle macchie di Angst dalle pareti.)

Ora è pronto ad affrontare ciò che deve in questo giorno – notte, anzi, perché la prima stella della sera brilla già. Chaos starà tranquillo, come spesso accade dopo questi sogni di comunione che Vincent dimentica deliberatamente. Anche Chaos è in lutto.

Vincent non rimugina oltre su questa benedizione, la accetta semplicemente mentre comincia a camminare, stringendosi forte il mantello attorno a sé.

Il rosso è il colore della passione, il colore della rabbia, dell’amore e del sangue. Vincent continua a indossare il mantello rosso perché crede che sia il colore del suo peccato (Sephiroth commenta in tono assente che dovrebbe continuare a indossarlo solo perché il colore gli si sta bene).

Il rosso, oggi, dovrebbe stare per nuovi inizi, per una rinascita, dovrebbe essere il colore di una rosa appena sbocciata, ma lui non cambia il significato.

Deve affrettarsi, prima che gli altri lo lascino indietro. Oggi si riuniscono, la loro famigliola di disadattati, e malgrado ciò che è diventato lui onora le sue promesse e i legami a cui si lascia vincolare.

Non lo ammetterà mai nemmeno a se stesso, ma vuole trovare riparo tra le loro braccia accoglienti, vuole delle persone che sappiano ciò che è e non ne abbiano paura. Non vuole stare da solo, stanotte, sapendo che suo figlio è morto.

(Tre parole per riassumere Vincent Valentine: testimonial di complessi.)



Tseng li fissa. Elena si alza sulle punte per dare una sbirciatina da sopra la sua spalla, e deve ripiombare giù e schiacciarsi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere troppo forte.

Rude sta riprendendo fiato nell’angolo – avrei detto che stesse avendo un infarto, se non fosse che i Turk sono come gli scarafaggi: se anche gli crollano addosso palazzi interi sono i palazzi che si fanno male – perché ha pulito la stanza da cima a fondo in quindici minuti spaccati. (Ah! E voi che pensavate che i Turk fossero buoni solo a fare casini. Dopo sanno anche ripulire.)

Reno se ne sta seduto al centro della stanza, il completo ancora più spiegazzato del solito. Con un largo sorriso orgoglioso che pregusta il futuro più prossimo, pigia un nuovo pulsante e Il Mostro ha uno spasmo. Gli lampeggiano delle luci. Ronza. « Zeng – è uno – ztronzo » riesce a balbettare, prima di auto-distruggersi in uno scoppio di scintille azzurre.

« Ma no » sbuffa Reno mestamente, guardandolo disintegrarsi, appena un secondo prima che Rude lo tiri via dalla traiettoria della sedia che Tseng gli ha lanciato in testa.



Yuffie ama le foreste. Le adora. Le foreste vere, non gli alberi cadaverici e scheletrici che circondano la Città Dimenticata, perché quelli sono semplicemente strani, e non la stupirebbe trovarci in mezzo Vinnie; quello sembra proprio il tipo di luogo in grado di attrarre la sua natura morbosa (bare, rendiamoci conto).

No, lei ama le foreste dove gli alberi hanno la corteccia marrone e il fogliame verdeggiante, foreste di tanti strati di tonalità di verde che si fondono fra loro e fervono di vita – compresi quegli stupidi uccellini che detesta nella maniera più assoluta quando cantano per l’alba prima ancora che il sole abbia fatto la grazia di mostrarsi all’orizzonte, quei piccoli imbecilli cinguettanti. Soprattutto, sono l’unico posto dove non c’è un solo sussurro di casa.

Non ci sono delle vere e proprie aree boschive a Wutai. Nessuna foresta imponente, nessuna giungla vasta, solo scarni, radi boschi sparpagliati come lacrime dimenticate in punti cui è difficile accedere.

Wutai ha una bellezza austera – le montagne scolpite, le pianure sconfinate e persino le spiagge della sua terra sono aspre: la sabbia è ghiaiosa, ruvida, e non ha niente a che vedere con le dune soffici di Costa del Sol su cui ha corso scalza per ore durante i suoi primi giorni lì, strillando di gioia, affascinata oltre ogni dire. E i suoi uomini e le sue donne hanno combattuto e sono morti in ogni dove per preservarla, prima che suo padre la riducesse a una trappola per turisti: niente lotta, niente onore, niente cuore, niente anima.

Ama il suo paese, crede con ardore nell’onore e nella gloria della sua gente e della terra della sua gente, ma i suoi doveri in quanto discendente e unica erede dei Kisaragi sono pesanti, ed è scappata nelle foreste per provare ad alleggerirli.

La Materia è il motivo per cui è venuta nella terra del nemico (rappresenta la ShinRa, il potere del Pianeta che la ShinRa aveva raccolto, domato e usato contro la sua nazione, il potere che era stato loro negato con la sconfitta, e non c’è nulla di più bello che rubare qualcosa che è stato adoperato contro di te per rivoltarlo contro il suo stesso creatore), ma la sensazione di pace e l’illusione di libertà dai legami di onore che professa di negare sono le ragioni per cui ci è rimasta.

Il problema di Yuffie è anzi che sente l’onore in maniera troppo viscerale. Suo padre, sente, ha rovinato la sua gente, il suo paese, li ha privati del loro orgoglio, e non importa l’idea che si sia fatta, è suo dovere, sua responsabilità trovare il modo di restituire a tutti quell’orgoglio.

(—Compito gravoso per una mera ragazzina, commenta Sephiroth, completamente indifferente, dallo stronzo insensibile che sa essere.)

Le foreste sono indescrivibilmente reali per Yuffie. C’è qualcosa nella loro vitalità, nel senso dell’età, nell’abbondanza di panorami, suoni e aromi che la manda in estasi, la mette a suo agio, che la fa sentire solo il piccolo tassello di un mosaico molto grande, la benvenuta in un posto tanto distante da casa.

In primo luogo, le aveva scelte come posto ideale per le sue imboscate perché erano tecnicamente le più adatte alle sue abilità: le fornivano riparo e protezione, le permettevano di sfrecciare in combattimento e uscirne con altrettanta rapidità se le cose si fossero messe un pochino male (non che sia mai successo, insiste).

In secondo luogo, le aveva scelte per la facilità con cui le consentivano di infiltrarsi nel cuore del continente nemico, difesa dalla loro stessa vegetazione, il classico concetto che allettava il suo lato vendicativo, nascosto ad arte da esuberanza infantile e furti birichini.

Le piace saltellare su e giù, sentire la terra cedere appena sotto gli stivali, sapendo che la respingerà sempre verso l’alto. Le piace stare sulla cima degli strapiombi e gridare fino a farsi venire la voce roca. Le piace fissare il sole fino a che tutto si tinge di nero. Le piace vivere e vivere e vivere.

Qui c’è il Pianeta nella sua forma migliore, e quando vola in quei cosi terrificanti che Cid insiste nel definire il miglior mezzo per viaggiare, o si ritrova in quelle minuscole, oscillanti scatole su ruote, sente come di star perdendo volontariamente un pizzico di se stessa.

Le viene sempre la nausea, circondata da ogni parte da metallo, dall’odore dei macchinari, e se gli dei avessero voluto che le persone si spostassero più velocemente di quanto fosse loro consentito dalle gambe, beh, i Chocobo che li avevano creati a fare?

I suoi dei sono nel suolo, nelle montagne, nei fiumi, nell’aria, e quando visita la chiesa (altare) di Aeris non riesce mai a mettere a tacere la curiosità di sapere come sia possibile che qualcuno potesse vivere a Midgar.

Com’è possibile che a qualcuno potesse piacere essere attorniato da metallo, vetro e fumo senza nemmeno il misero conforto di una pianta in un vaso a ricordargli cosa fosse davvero la vita? A ricordare a tutti quanti, La vita è questo. Non la sorprende che Cloud vada alla chiesa. Lui è un montanaro, un provinciale; lui dovrebbe saperlo.

Crede che le foreste siano la vita, e non è troppo lontana dalla verità. Non c’è bisogno dell’odore di Mako e della luce scintillante perché chiunque le attraversi si accorga che questo posto pullula della stessa energia.

Yuffie l’ha capita: la Meteora, tutto ciò che l’ha preceduta e l’ha seguita, tutti quegli eventi – non sono stati l’unica cosa importante della sua vita. Certo, è stato un periodo veramente straordinario (quante persone possono dire di aver dato una mano a salvare il mondo?), ma non è tutto.

Ha trovato degli amici, ne ha persi alcuni e ha fatto delle cose certamente sbalorditive, ma questo non significa che debba rimanere ferma a quel momento per sempre. “Per sempre” è un intervallo di tempo terribilmente lungo, e non vede perché sperperarlo tutto sugli ieri quando ci sono così tanti domani.

(È così che dovrebbe essere. La vita è questo, la vita può essere questo, e non è morte, malinconia e nuvole di pioggia tutto il tempo, è divertente, piena di risate e di massì, chi cazzo se ne frega? Carpe diem e stronzate varie, è questo che avrebbero dovuto imparare da tutta questa storia.

Sephiroth borbotta qualcosa di velenoso che in realtà sono lieto di non aver sentito. Lo guardo storto, e la sua unica risposta consiste in uno sbuffo e un sogghigno; chiaramente i miei bizzarri stati d’animo lo divertono. (I miei bizzarri stati d’animo? Che schizofrenico bastardo!) Per ripicca, mi chino e mormoro all’orecchio di Yuffie che, almeno, qualcuno che ha pagato per le ferite inferte alla sua terra c’è.)

Sì, annuisce, ricordando all’improvviso (è stupefacente quanto fosse facile dimenticarlo, con tutti quei giorni passati a correre confusionariamente da una parte all’altra del globo per una causa che davvero non l’aveva, o meglio, non avrebbe dovuto coinvolgerla) che Sephiroth era il capo dell’esercito della ShinRa, che era di lui che i vecchi mormoravano e che per lui facevano segni arcaici per scacciare la scalogna che il suo nome inevitabilmente portava quando pronunciato.

(« Wutai non ha paura degli uomini » disse Godo quel giorno. Sembrava rattrappito e vecchio, nulla a che vedere con il leader di guerra dinamico che era stato. Io diedi un’occhiata a Sephiroth, freddo e imperturbabile, e persino io, la cosa più vicina a un amico che avesse, sentii un brivido di paura al pensiero che potesse ridurre un uomo come Godo in quello stato. « Wutai non ha paura degli dei » disse Godo. « Ma Wutai ha paura di te. »

Sephiroth piegò il capo all’indietro e stirò le labbra in un sorriso glaciale. « Wutai è saggia. »)

E lui è morto. Parte del prezzo di sangue è stato pagato, un pezzo dell’onore sbrindellato riconquistato.

« Prendi questo! » Yuffie sogghigna, dando un pugno all’aria. « Ho vinto, bastardo! Yuffie la Cacciatrice di Materia batte tutti! »

(—Batte tutti un corno, sbotta Sephiroth, il suo umorismo svanito più in fretta di una birra nelle vicinanze di Reno. Lo sguardo letale che mi rivolge mi fa domandare se si possa morire due volte. Se sì, credo che lo sperimenterò presto e nel modo più doloroso.)

Di tutti quelli che entrano in contatto con noi, Yuffie è quella che tormentiamo di meno. Quando Sephiroth si sente particolarmente in trappola, e dunque amareggiato, attribuisce la cosa alla sua stupidità, alla sua incapacità di comprendere argomenti di tale portata, alla sua ingenuità/giovinezza (che per lui sono la stessa cosa), alla sua completa insignificanza all’interno del gruppo, all’amicizia, al Grande Schema delle Cose e via discorrendo.

Personalmente, io credo sia perché, di tutto il gruppo, Yuffie è quella con la testa più ragionevolmente a posto. I morti sono morti, per lei, perciò i fantasmi non la importunano. È lei a controllare i suoi ricordi; non sono loro a controllare lei.

(—Potrei farle cambiare idea, borbotta Sephiroth soprappensiero, prima di scivolare via, da Cloud. Che fantasmino fedele che è diventato, per essere stato un uomo che si irritava anche per gli ordini più logici. Aeris lo segue con gli occhi, ansiosa, ma non va con lui – finirebbe col creare ulteriori incubi della sua morte, con tutti gli attori principali riuniti.)

Mi piace gironzolare intorno a Yuffie. Vorrei che gli altri condividessero la sua filosofia – non ci sarebbe tanto bisogno di noi.

(—A me piace stare qui, dice Aeris sfacciatamente. Mente, credo, e le passo un braccio attorno alle spalle e sospiro. Standole tanto vicino, riesco quasi ad accettare la crudeltà di rimanere qui.

—Anche a me. Solo che non mi piace guardare le persone andare in pezzi.

—Come potremmo aiutarli a guarire se non così? chiede lei, e confesso di non averne idea. Mi dico che non me ne andrei se ne avessi la possibilità, e quando penso a Cloud e all’addio che non sono mai riuscito a dargli, al modo giusto di salutarlo come avrei voluto, so che non lo farei.

—Guarda, bisbiglia. —C’è Cid.

È vero. E si riuniranno tutti, pezzi di una cosa sola, e strapperanno via le croste di ferite appena guarite, scaveranno nei ricordi che vanno un po’ troppo a fondo per poter essere sanati condividendoli.

Ah, merda, tanto che importa? Noi ci saremo, come sempre.)



Non sono mai stato a Cosmo Canyon prima d’ora, vivo o morto (Pianeta, detto così suona stupido. Vero, ma stupido).

Mi è stato raccontato che la fiamma di Cosmo Canyon arde da secoli. Non sono mai stato un patito del folclore, quindi non ho idea di cosa questo significhi, ma probabilmente è una metafora sull’arginare l’oscurità del male o robe così. (—Zack! protesta stridula Aeris, guardandomi scioccata quando salto oltre il fuoco; non è ancora riuscita a perdere del tutto il senso mortale di evitare rischi stupidi. Sephiroth accenna un sorriso prima di sedersi a gambe incrociate di fronte al falò, guardando i propri peccati dispiegarsi tra la luce ferma e l’ombra vacillante.)

Nanaki entra nel nostro campo visivo; la sua presenza è tradita solo dal suono flebile delle zampe sul suolo polveroso. Volta l’occhio buono verso di noi, i fermacapelli scintillano quando intercettano la luce che mette in risalto le parti piane del suo muso leonino.

« A che scopo siete qui? » chiede, accennando un ringhio gutturale verso la fine della domanda. (Io trasalisco a metà salto, finendo al centro delle fiamme, facendole ondeggiare. Aeris si porta una mano sugli occhi per l’orrore, o forse per l’esasperazione. Sephiroth inarca un sopracciglio, ma non distoglie lo sguardo dalla scena che sta osservando nel fuoco. —Ehm, è il mio commento geniale, e mi guardo disperatamente attorno per cercare aiuto.)

« Non mi ripeterò » prosegue sommessamente. (Di colpo quelle zanne paiono molto affilate, forse per il modo in cui brillano alla luce. Sephiroth alza finalmente la testa, e incrocia l’occhio d’oro di Red con i propri d’acciaio. Di fronte al guizzo delle fiamme, le sue pupille sono dilatate al punto da sembrare quasi normali.

—Cosa vuoi che facciano i fantasmi? domanda, imperturbato.)

Nanaki si accovaccia, il pelo gli si rizza un poco sulle scapole, la coda si muove, agitata, ma a ogni altro cittadino appare sereno. « Dovreste andare avanti » afferma senza emozione, ruotando l’occhio verso Aeris. (Noi non siamo troppo sicuri di cosa intenda. —Non è così semplice, gli dico.)

« È molto semplice. »

(—Magari.)







NdA: Loki ha deciso che anche se non è una Summon come Odino [Odin] (soprattutto perché non è una Summon come Odino), non si sarebbe di certo lasciato scappare la possibilità di intrufolarsi qui dentro. Considerate Nibelheim e le sue origini nordiche mi è sembrato appropriato che sapessero bene chi fosse. (Il che ci porta alla domanda, beh, allora perché il dio della morte è Ade [Hades]? Ade è presente nel gioco ed ha pertanto la precedenza su Hel, la dea della morte e degli inferi.)
Tra l’altro, con tanti di quei pantheon a disposizione, perché limitarsi a uno solo?

NdT: … Devo confessare che ai trip mentali sulle Summon del gioco non ci ero arrivata nemmeno io. xD
AH! Le “cadenze dialettali” di Cait. Se a qualcuno interessa. Nella versione inglese (e come credo si noti chiaramente solo in AC e DoC perché doppiati) parla con un forte accento scozzese, riferimento stranamente azzeccato visto che la figura a cui è ispirato proviene appunto dal folclore scozzese. Reeve non ha inflessioni dialettali e parla in maniera molto seria e rispettabile, al contrario dello sgarbatissimo Cait Sith, ed è per questo che a detta di molti è pazzo. Reeve, intendo. Il che è molto triste, dato che è forse l’unico personaggio veramente e pienamente altruista di tutto il gioco, ma vabbè. :D
Nell’originale giapponese Cait Sith parlerebbe invece nel dialetto del Kansai (forse più di Osaka che di Kyoto), come Selphie e Zell e tutti i personaggi un po’ scemi. Per quest’ultima informazione ringraziate Vale, a cui una volta, perché le voglio tanto bene, ho fatto analizzare certi pezzi dello script giapponese del gioco (non chiedetemi come l’ho trovato, non ne ho idea sono i trucchi del mestiere). ;D
… Potrei parlare per ore di questo capitolo, davvero. Dai paragrafi sofferti di Tifa (e Aeris) ai Turk che trolleggiano in grande stile (a proposito: lo shampoo Mako esiste), a Reeve che si deprime ed è abbastanza deprimente, a (OMFG) Nanaki che parla.
La parte di Yuffie in particolare mi ha fatto fangirlare da impazzire e mi ha fatto rinnamorare per l’ennesima volta di lei, ma la cosa veramente esilarante è che tutto lo spezzone di Vincent avrei potuto scriverlo io, concettualmente, frasi Vincent-padre-di-Sephiroth a parte. E infatti mi sono divertita vergognosamente a tradurla, tanto che in certi punti mi sono dovuta controllare xD Quella delle macchie di Angst non avrei mai potuto pensarla, però, e mi inchino di fronte a cotanto genio.
Forse, se nella Compilation e nelle fanfiction Cloud non avesse cominciato ad agghindarsi di patacche (oddio, il paragrafo dell’anello… xDD) e non fosse diventato il fratello scemo di Vincent e se tanta gente non mi accoppiasse Yuffie con Vincent solo per farla diventare la sorella scema di Vincent (!! YUFFIE!), non mi infastidirebbe più di tanto.
Forse.
Ma blatero :D Ormai la storia è agli sgoccioli ;o; Un altro paio di settimane e abbiamo finito.
A presto :)
   
 
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