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Autore: Bellis    21/02/2011    3 recensioni
Guardando dietro di sé con gli occhi della memoria, John H. Watson riflette sul percorso della propria vita, e sul modo in cui il suo caro amico Holmes ne ha fatto parte.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scritta per la mia più cara amica, che oggi compie gli anni.
Il titolo - non a caso - era anche il
motto di Jeremy Brett, che il Cielo l'abbia in gloria.

Cento di questi giorni, Evangeline.
E... ad majora. Sempre.



Onward and Upward

Giunsi ad un punto della mia vita in cui pensai di non poter più andare oltre.
Ritenevo che ogni strada che io potessi prendere si dovesse interrompere, spezzandosi dopo pochi metri, franando sotto il mio passo malfermo, convergendo in un orrido, profondissimo baratro, nel ventre oscuro del quale la mia pressochè inutile esistenza dovesse concludersi. Uno straziante grido, un singhiozzo, e poi... più nulla. Ne avevo visti molti morire in questo modo, sulla pianura di Maiwand. Quei tragici suoni ancora tormentavano la mia coscienza afflitta, durante la notte.

Non possedevo il beneficio di parenti ancora in vita, in Inghilterra, e di mio fratello non avevo notizie da molti anni. Rammentavo con affetto gli anni della nostra giovinezza, trascorsi insieme nelle vicinanze di Edimburgo. Non avrei mai potuto presentarmi nuovamente a lui, nello stato in cui mi trovavo - con la salute malferma, i nervi scossi e privo d'altro sostentamento che non fosse un magro sussidio militare. Non ne avrei avuto il coraggio. Un poco di dignità ancora mi rimaneva.

Fui lieto di incontrare Stamford, e di constatare come egli si ricordasse ancora di me.
Fui ancora più felice d'averlo incontrato qualche mese dopo, quando riconobbi, dentro di me, che era stato grazie a lui che avevo potuto conoscere Sherlock Holmes.

Ad Holmes bastava un'occhiata; un solo breve, penetrante sguardo, ed egli era in grado di descrivere nei più minuti particolari l'occupazione, i trascorsi recenti, la probabile psicologia e la sincerità contestuale di qualsiasi persona gli si presentasse innanzi. Non ero avvezzo a tale sorta di minuziosa ispezione, ed in principio ne fui piccato, considerando quasi ineducata una intrusione così manifesta nella privatezza e nei pensieri altrui.
Per onor del vero, debbo dire di esserne ancora piuttosto infastidito, quando capita che sia io il soggetto di qualche mirabolante deduzione di colui che ora ho la fortuna di poter considerare mio amico. So per certo che non riuscirei a nascondergli nulla - non esiste parte del mio animo che lui non abbia esplorato, con le sue quasi magiche arti di veggente e di profondo conoscitore dell'indole umana.

Esiste, certo, chi l'abbia superato in astuzia - ma no, io non potrei mai: lo stesso Holmes ha più volte rimarcato come io sia di indole fondamentalmente ingenua. Definizione che io non mi sarei mai dato; almeno, non dopo ciò che avevo veduto, durante la guerra.
Holmes la pensava diversamente; non esisteva in me un segreto che avrei potuto definire tale, di fronte a lui. Più volte lo definii, preso dall'indignazione di fronte all'espressione della sua completa e formidabile lucidità, una mente senza cuore. La verità è che quelle frasi, dette in un momento di genuina volontà di riaffermazione della mia umanità - e certo senza malizia - erano solamente un banale errore di giudizio.

Sherlock Holmes sapeva. Come avrebbe detto lui, era il suo mestiere, quello di sapere il maggior numero di nozioni che potessero essergli utili. E, per una strano, curioso vezzo della sua eccezionale intelligenza, egli aveva sempre ritenuto utile il sapere tutto anche riguardo a me.
Non si era mai fatto sfuggire nulla, nemmeno il più piccolo dettaglio.

Era sempre stato consapevole dei miei incubi, delle immagini terribili che, notte dopo notte, in seguito al mio ritorno dall'Afghanistan, avevano preso a popolare i miei sogni ed a turbare i miei sonni. Mi aveva visto entrare nel salotto di Baker Street, in una sera in cui il temporale all'esterno riproduceva, in una crudele e pittoresca replica, i cupi scenari ed i distanti rombi che io avevo visto ed udito in ben altri luoghi, non molto addietro. Mi aveva osservato, con quei suoi occhi gelidi, chiari, ed io, rabbrividendo e stringendo nella destra l'impugnatura del mio bastone, avevo cercato di mettere insieme qualche parola di cortesia, meditando già sull'idea di ritornare nella mia stanza: alla vergogna del pubblico, preferivo di gran lunga la solitudine del privato. Temevo il suo sguardo; o meglio, temevo che assumesse quelle sfumature di disprezzo ed ironico scherno che tante volte avevo visto rivolte a qualche incompetente Yarder le cui illazioni non avevano portato a nulla.

Tuttavia, il mio coinquilino era di idee molto differenti, ed io ero prossimo a scoprirlo.
"- I rumori mi contrariano, perchè ho i nervi scossi, e mi sveglio alle ore più assurde. -"
Riferì, a memoria, le parole che gli avevo detto nel laboratorio, in occasione del nostro primo incontro. Ebbene, la delicatezza non è mai stata il suo forte, ma notai con intima sorpresa come l'acciaio nei suoi occhi sembrasse fondersi, mentre incontrava il nocciola dei miei, il grigio velato di empatia. Questo bastò a suggerirmi la sua linea di pensiero. La mia supposizione fu definitivamente confermata quando il detective, dopo aver lasciato che mi accomodassi di fronte a lui su di una poltrona imbottita, iniziò a narrarmi, a voce bassa e tranquilla, uno dei primi casi alla cui risoluzione aveva contribuito.
Fugò i miei timori ed i miei incubi con una semplicità che non avrei mai creduto possibile; ma, sul momento, avvinto com'ero alla narrazione - e forse meditando di trarne uno dei miei racconti, dopo il successo di Uno studio in rosso - non me ne resi conto.

Quando mio fratello morì, solitario, in Scozia, lui lo seppe immediatamente - lo capì subito: quando mi giunse, in una missiva, la tremenda notizia, vide il suo contenuto impresso nei miei lineamenti - ma non disse nulla.
Ed io lo rimproverai, dentro di me, molte volte di non essermi stato tanto vicino quanto avrei voluto che un amico lo fosse, in quel frangente. Gli rinfacciai d'esser stato indelicato, quando, deducendo con minuziosa meticolosità da un semplice orologio a chi l'oggetto fosse appartenuto prima di passare nelle mie mani, riportò alla mia memoria ricordi molto amari ed un incolmabile senso di vuoto mi afferrò il cuore.
Poi, però, lo ringraziai, perchè fu grazie a lui - o meglio, grazie agli intricatissimi enigmi che il caso gli proponeva - che mi fu concesso di distogliere la mia mente dalla tragedia... e soprattutto, fu grazie a Holmes che il mio angelo, Mary, potè accompagnarmi per un buon tratto della mia vita, riempiendola nuovamente di speranza e di gioia.

Quando ella si ammalò, io ero lontano, con la mente. Ero ancora sul ciglio di quel baratro, sull'orlo della roboante cascata nelle cui acque spumeggianti e selvagge credevo che il mio più caro amico riposasse. Quando ella morì, morii anch'io, rimanendo nuovamente solo.
In quei tre anni implorai la mia ombra che camminasse al posto mio, pregai la mia mente che rimanesse intenta al lavoro, perchè altre vite non dovessero essere spente invano, per una mia mancanza, per la tragedia della mia assenza. Si trattava del mio dovere, dinanzi alla mia coscienza, al mio impegno, al mio giuramento... dinanzi a Dio, e non potevo mancare ancora, come già avevo fatto - un peso che mi accompagnerà fino alla tomba. Il Cielo, al posto loro, ascoltò le mie invocazioni, e mi fu concesso di sopravvivere fino alla rivelazione che ebbe luogo tre anni dopo.
Fu proprio Holmes a dirmi che il lavoro è il miglior antidoto al dolore, ed io volli credergli. Mi trascinò nel fulcro di una nuova avventura, nel corso della quale temetti ancora di perderlo, e lo vidi invece vivo, seduto accanto al fuoco, con la pipa tra i denti e gli occhi che scintillavano verso di me. In capo ad un anno, un giovane medico di nome Verner acquistò, per almeno il doppio del suo valore, il mio studio di Kensington Road, ed io mi ritrovai nuovamente insediato al 221b.

"Curiosa persona, quel Vernet," intervenni casualmente, in un fresco pomeriggio autunnale, spezzando il silenzio comfortevole che si era allargato nel salottino.

Ebbi la rara soddisfazione di vedere il mio amico sollevare di scatto gli occhi acuti sul mio viso, che riuscì a rimanere impassibile per pochi istanti ancora.
"Mi pareva che aveste detto 'Verner', Watson," rispose lui, evasivo.

Scoppiai in una bassa risata bonaria, "Oh, suvvia, Holmes. Nemmeno io sono così ingenuo."

Gli anni passarono, e, purtroppo, Holmes ed io ci allontanammo, come due pianeti fanno, nella loro continua orbita intorno al Sole: si separano con la certezza che le loro orbite si incroceranno di nuovo, periodicamente, inevitabilmente. Molte volte ebbi la chiara impressione che Holmes non si curasse di me, o di cosa accadeva a Londra. Era la mia ottusità a mal interpretare un adagio popolare che la mia mente aveva assorbito e di tanto in tanto rimuginava.

Dicono che gli amici siano quelle rare persone che ti chiedono come stai e poi ascoltano persino la risposta. Chi sia giunto in possesso di questo manoscritto, se ha avuto modo di scorrere qualche volta i resoconti da me dati delle brillanti indagini del celeberrimo detective, avrà notato come in molte occasioni io mi sia interessato alla sua salute, mentre egli ha usato questa premura nei miei confronti una sola volta.
Ma il lettore, se penserà che si sia trattata di indifferenza - così come accadeva a me in quei rari, eppur presenti, momenti di umor nero - incorrerà in un grave fraintendimento.
Sherlock Holmes non domandava come io mi sentissi, o cosa mi affliggesse: non ne aveva bisogno. Egli semplicemente sapeva.

E, mentre il tempo grava le mie spalle d'un fardello che presto non potrò più portare, ritorno con la mente al suo fervido intelletto, alla sua saggezza, alla sua rettutidine, a ciò che egli ha fatto per il nostro Paese, dimostrando come la volontà e la forza di un solo uomo possano avere la meglio su tanti mali, sradicandoli con la giusta veemenza d'un novello Davide; rammento la sua costante presenza nella mia vita, la sua onnisciente capacità di comprendere l'animo altrui, l'ammirazione che suscitava in me, ispirandomi a tendere verso qualcosa di più alto, migliore, positivo: un futuro che forse non si può dire con certezza più lieto, ma che comunque rimane saldo nelle mani di chi lo crea... ripenso a quanto io sia onorato e fiero di potermi considerare un suo caro amico.


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Ringrazio il Cielo anch'io come Watson.
"Onward and upward" è un proposito molto difficile da mantenere: ma grazie all'amicizia, diviene d'un tratto un esercizio naturale.



   
 
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