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Autore: Vale11    22/02/2011    2 recensioni
Se il mare ti chiede di non lasciarlo dormire da solo, tu cosa fai?
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Capitan Uncino
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Un piccolo appunto: per la storia di James Hook ho preso spunto dal libro di Hart "Capt. Hook, the adventures of a notorious youth", che da noi in Italia, purtroppo, non è uscito. Me lo sono ordinato su Amazon e me lo sono letto in inglese. Ebbene si, sono fissata. Ad ogni modo, non è un libro per bambini: è cinico, crudele e disincantato anzichennò.
E' un ottimo libro, oso consigliarvelo.
Nel caso ve lo steste chiedendo, anche quando parlo uso queste parole. Immaginatevi le facce della gente che mi sta a sentire. Epiche. "Ma che cosa sta dicendo?"
Ed ora, a noi!


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Brutte ferite, non aveva potuto ricucirle tutte. Quella sul braccio era quasi regolare. Quasi. Quindi il lavoro di ago e filo era stato possibile. Ma la spalla no, le ferite erano talmente irregolari da poter essere classificate come sbrani, e quindi niente punti. E questo poteva creare problemi, oltre che sicuri fastidi al proprietario della spalla stessa, e una guarigione probabilmente più lenta. Aveva potuto ricucire solo il taglio che l’aveva impressionata più di tutti, quello che andava dalla scapola destra fin sotto lo sterno. Fortunatamente era relativamente superficiale, altrimenti sarebbe risultato fatale.
Lavorò ai nodi delle bende, maledicendosi per averli fatti così stretti. In ogni caso, quell’uomo avrebbe avuto un buon numero di cicatrici da aggiungere alla sua già corposa collezione. Il pezzo più pregiato e più crudele, sicuramente, era il polso destro. La pelle di quell’uomo somigliava quasi a una ragnatela, ma immaginava che comandare una nave pirata avesse i suoi effetti collaterali.
Liberò il braccio sinistro dalle bende, continuando a rimuginare sul fatto che se fosse stato possibile leggere la storia delle persone attraverso le cicatrici, quell’uomo sarebbe stato un libro aperto. E invece no: era un diario sigillato a suon di lucchetti. Uniche finestre in quella lastra d’ardesia erano gli occhi, che parlavano col linguaggio del mare.
C’erano tempeste e calma forzata la dentro, quando il loro proprietario li obbligava ad adeguarsi all’impassibilità della sua figura. Uno specchio che ti impediva di guardare attraverso. Salvo gli occhi, certo, che a volte parlavano troppo e lo fregavano. E che
Oddio
Non avevano mai smesso di fissarla da almeno dieci minuti. Non se ne era accorta fino a quel momento.
Gli sorrise.
“Si?”
 
Non riusciva a darle un contesto, mentre la guardava sciogliere le bende che coprivano il suo braccio sinistro. Ci aveva pensato, eppure niente. Sapeva che l’isola poteva raccogliere persone che venivano da luoghi e tempi completamente diversi, ma lei sfuggiva a qualsiasi categorizzazione. L’accento non era inglese, anche se la lingua era quella. Poteva sembrare irlandese, ma alcune consonanti erano così indurite da sembrare di cartavetra. E il gaelico è una lingua morbida, non ruvida come quella che ogni tanto le usciva di bocca.
Il suo modo di comportarsi, poi, era un mistero. Non era raffinato, al limite dello snob, come quello delle grandi dame. Non era nemmeno esageratamente sfacciato come quello delle prostitute. E neanche ingenuo, tanto da risultare irritante, come quello delle ragazzine.
Anche perché lei non gli sembrava davvero una ragazzina.
Era libera. Semplicemente libera e spontanea come aveva voglia di essere.
Poteva dimostrare 27 anni, forse 30. Ma forse anche 25. Grazie all’isola che confondeva le idee.
Se non avesse avuto un sopracciglio spaccato, che gli limitava i movimenti del viso, probabilmente la sua espressione sarebbe stata così perplessa da risultare comica. C’era da ridere, a pensare di dover ringraziare un coccodrillo per avergli evitato di fare una figura ridicola.
Sapeva come trattare le ferite, scoperta fatta grazie all’esperienza diretta, e sapeva anche come lavorare il ferro. Cosa stesse facendo quella mattina, per lui era ancora un mistero. Si rese conto che doveva averla fissata per tutto il tempo quando se ne accorse anche lei.
“Si?”
Gli sorrise. Lui le rispose col suo, di sorriso. Quello storto, che non permetteva mai ai due angoli della bocca di tirarsi su simultaneamente. La sua anima pirata prese il sopravvento.
“Ho una proposta. Un patto. Chiamalo come vuoi”
 
Lo guardò piegando la testa di lato, come fanno gli animali per ascoltare meglio. Si limitò a tirare su un sopracciglio e ad annuire, voltandosi per prendere bende pulite e alcool. Un patto con un pirata poteva essere anche pericoloso, ma si esimeva da qualsiasi giudizio prima di sentire cosa aveva da dirle. Si sedette di fianco a lui, col suo braccio appoggiato sulle ginocchia.
“Spiegami”
 
Fece una smorfia ma non emise un suono quando l’alcool entrò in contatto con la carne viva della ferita, riguadagnando subito la sua compostezza.
“Una domanda a testa. Volendo, è possibile non rispondere. Ma solo se strettamente necessario”
Il suo sorriso sghembo gli affiorò nuovamente sulle labbra. La vide alzare tutte e due le sopracciglia, stupita, mentre gli teneva il polso in grembo.
“Oh, è questo? Credevo peggio”
 
Si stupì ancora di più quando lo sentì ridere. Era una risata bassa, quasi sinistra, probabilmente efficacissima nell’irritare i nemici. In ogni caso, non le fece quell’effetto. Forse perché, per ora, non aveva nessun motivo di vederlo come un nemico. Soppresse la tentazione di appoggiargli una mano sull’addome, da dove la risata sembrava provenire, per verificare se fosse davvero lui a ridere o uno strano demone nascosto nelle vicinanze. La guardò, gli occhi improvvisamente vivi.
“Vedo che la mia reputazione mi precede”
 
Sentì una delle sue mani stringersi intorno al suo polso, mentre l’altra appoggiava il panno imbevuto d’alcool e si allungava verso le bende. Sospirò di sollievo. Almeno una delle ferite era a posto, per quel giorno. Non l’aveva dimostrato, ma la medicazione non era affatto piacevole. Era allenato, però. E orgoglioso. Resisteva perfettamente. Lo stupì quando gli tolse i capelli dagli occhi, chiedendogli di alzare la testa per poterli assicurare di nuovo alla coda larga che gli aveva fatto il giorno prima. Ma lo stupì ancora di più quando gli disse mi dispiace, iniziando a fasciargli il braccio.
Le dispiace?
“E di cosa?”
“Di averti giudicato così velocemente”
Eccola, la terza ondata di stupore. Decise di salvare la situazione in qualche modo, sorridendo ferino.
“Ti assicuro che la mia reputazione è duramente guadagnata, e assolutamente ben meritata”
“No, non tutta. Ne sono quasi sicura. Forse sei meglio di quello che pare. Vogliamo iniziare il tuo gioco, adesso?”
Quarta ondata di stupore. Preso in pieno, e atterrato. Rischiò di sorridere con due angoli della bocca invece che con uno solo, ma si riprese in tempo e la indicò con un cenno della testa.
“Prima le signore”
Lo stupì di nuovo, quando si accorse che la prima domanda non fu affatto semplice come credeva.
“Posso sapere il tuo nome completo, ed avere il permesso di usarlo?”
Se a rispondere fosse stato qualcun altro, sarebbe stato uno scherzo. Non per lui.
 
“James Matthew Hook. Chiamami come preferisci.”
La risposta era completa, ma il tono di voce era strano. Come il suo cognome. Hook.
“Hook è il tuo vero cognome?”
“Tu che ne dici? In ogni caso, questa è un’altra domanda”
Ghignò, per la prima volta le parve pericoloso. Poi sembrò calmarsi, assottigliando lo sguardo sul soffitto mentre lo aiutava a sedersi per sciogliere le bende intorno alla spalla, spostandogli i capelli sulla spalla sinistra.
“Comunque no. Non è il mio cognome. Gli errori di percorso, i figli bastardi, non se lo meritano un cognome. O così pare. E quel cognome nemmeno lo vorrei”
 
La risposta gli scappò di bocca come la risacca, impossibile da trattenere. Lo disse con un astio ed una soddisfazione tale da farsi salire l’acido in bocca, pensando a con quanta forza aveva rinnegato l’unico genitore che aveva conosciuto, quando non aveva ancora vent’anni. Atto di per se inutile, visto che suo padre non l’aveva mai riconosciuto.
“Capisco”
“No, non credo”
Si voltò verso di lei così velocemente da perdere l’equilibrio, ma riuscì a mantenersi seduto. La vide fissarlo, pensando evidentemente a qualcosa.
“Come preferisci che ti chiami? Come ti chiamano le persone?”
Si sentì la bocca secca.
“Non per nome. Mai. Capitano, di solito”
 
Gli sorrise, gettando via le bende sporche di sangue.
“Non posso chiamarti così, non sono un pirata dei tuoi. Posso chiamarti James?”
Lo vide scuotere la testa.
“Mio padre mi chiamava James, ne farei volentieri a meno. Avevo un amico. Mi chiamava Jas. Fai quel che vuoi del mio soprannome”
Jas. Aveva un suono interessante, e scivolava bene sulla lingua.
“Mi piace, penso che potrei anche usarlo. E ti sta bene. È affilato”
Si sedette dietro di lui a gambe incrociate, la spalla appoggiata al centro della schiena del pirata. Era una posizione comoda: aveva via libera per medicare le ferite sul retro della spalla e lo aiutava a stare seduto.
 
Strinse i denti quando l’alcool toccò la carne viva, questo era molto peggio del braccio. Sentì il braccio della donna farsi strada intorno alla sua vita, avvicinandolo alle sue gambe.
“Scusami, ma non riesco a medicarti se non stai fermo. Ti dispiace?”
Strinse il braccio sul suo addome per enfatizzare la domanda. Le rispose scuotendo la testa, non fidandosi della voce. Non era una persona qualsiasi, era pur sempre il capitano di una nave pirata, e piuttosto che dimostrare di stare soffrendo si sarebbe mozzato la lingua.
Il braccio della ragazza intorno alla vita, però , non lo disturbava sul serio. Non aveva alcun secondo fine, altrimenti se ne sarebbe accorto, ed in effetti il contatto con l’alcool non lo aiutava a stare immobile. Trovava, anzi, quella posizione abbastanza comoda: se fosse stato capace di rilassarsi anche solo per pochi minuti si sarebbe appoggiato volentieri alla sua spalla con la schiena. Ma non ne era capace. Forse non ne era mai stato capace, da che ne aveva memoria.
“Scusami, di nuovo. Non mi piace l’idea di farti male. Anche se d’altra parte, se non ti medico è un problema”
Il resto della frase della donna si perse in un borbottio, mentre continuava a tamponargli la spalla che aveva fatto da aperitivo al coccodrillo.
“Non è colpa tua. Non sei verde, non hai le zanne, non sei un rettile. Va bene così”
Trattenne il fiato mordendosi la lingua, poi convinse la sua voce a restare stabile.
“Tocca a me, adesso. Posso sapere il tuo nome, ed aspirare ad usarlo?”
La sentì immobilizzarsi, il panno alzato a mezz’aria.
“Il mio nome è la conclusione della mia storia. Se vuoi conoscerlo devo raccontartela. Se hai tempo. E se vuoi.”
 
Lo vide buttare la testa all’indietro, appoggiandola brevemente sulla sua spalla. I capelli gli scivolarono di nuovo sulla schiena, scomposti. Capelli ribelli, che avrebbero avuto bisogno di una sciacquata. Gliel’avrebbe proposto.
La guardò con un ghigno divertito, nonostante fosse ancora evidentemente provato dall’incontro subacqueo col coccodrillo e dalle sue conseguenze.
“Dimmi, credi che abbia molto altro da fare?”
Trasformò il ghigno nel suo sorriso sghembo, portatore di tempeste sul mare.
“Ti ascolto. Se vuoi.”
  
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