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Autore: BBV    25/02/2011    3 recensioni
A diciotto anni, la vita di Victoria Hamilton
è stata completamente stravolta da un brutto incidente,
che l'ha portata a trasformarsi in una teenager ribelle e sfacciata.
Sua madre decide di mandarla a vivere dal padre e dalla sua nuova famiglia: una moglie e due figlie.
Insieme a suo fratello Shane parte per Longwood, un piccolo paese sperduto del Wisconsin.
Per Victoria è l'inizio di un incubo, un incubo dove appare Nathan,
un ragazzo presuntuoso e irruente, il ragazzo della sua sorellastra.
Un ragazzo che con prepotenza, arroganza e gesti folli riesce a sconvolgerle la vita.
«Se non mi dici il tuo nome, io mi butto», strillò ancora, facendomi sobbalzare.
«Victoria», gridai con quanto fiato avevo in gola. «Il mio nome è Victoria».
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie ''The Rain Series''
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Capitolo 18

“Forse domani”

 

Ora che avevo tirato fuori tutta me stessa, quello che volevo e quello che non volevo dire, riuscivo a vedere con chiarezza tutto, da un altro punto di vista.

Forse avrei dovuto dire qualcosa, ma il caldo, il leggero venticello carezzevole sui nostri volti mi impedivano di rovinare un’atmosfera così rilassante.

«La tua vita è…un avventura», rise sommessamente.

Mi lasciai trascinare dalla sua risata. Qualcuno da fuori avrebbe potuto pensare che ci stavamo raccontando barzellette.

Nathan affondò le mani nella sabbia e distese le gambe per poi voltarsi verso di me. Occhi blu accesi.

«Ho parlato con Emma», esordì. «Le ho detto tutto. Dalla moto al falò. E forse ho peggiorato la situazione», alzò gli occhi verso il cielo socchiudendoli alla vista del sole accecante.

«Ora dovrei essere lì con lei…», fece una pausa. «Ma sono troppo egoista da privarmi di un altro minuto con te».

Lo fissai negli occhi alla ricerca di una traccia di impurità che non c’era, cercando qualcosa di sbagliato in quello sguardo che mi desse la forza di fermarlo. Non c’era nulla di sbagliato.

Io, Lui. Noi. Nonostante tutto.

«Tu lo sai che non posso restare, vero?». Deglutii prendendomela con me stessa. Perché trovi il coraggio di parlare solo per dire ciò che non vorresti mai fare?, disse lo scioglilingua nella mia testa. Anche respirare mi veniva terribilmente difficile.

«Non ti posso permettere di andare via, così», sospirò all’inizio. «Ma non posso permettermi di sbarrarti una strada a cui sei destinata», quando il mio cuore fece un tuffo, capii che non era quello che volevo sentirmi dire. Mi sarebbe bastata un “resta” per rimanere rinchiusa a Longwood e essere felice. Ma niente va come vogliamo noi.

«Ascolta Vicky», mi sentii afferrare entrambe le mani con impeto e mi ritrovai ad un centimetro dal suo viso.

«Se ti chiedessi di rimanere, ti perderei». Alzò la voce quasi stesse convincendo più se stesso. «Ho passato la notte ad immaginarci ancora qui…e ho capito che sarebbe il gesto più stupido che possa fare per entrambi. Tu devi diventare una cantante, devi far divertire milioni di persone così come hai fatto in tre mesi con me», strinsi più forte le sue mani ricacciando indietro le lacrime. «Ed io devo realizzare i miei sogni. Trovare la mia strada», la sua voce si incrinò fino a disperdersi.

«Tu devi andare via, io devo andare via», deglutì. «Per adesso non c’è un posto per noi…ma».

«Voglio che tu faccia una cosa per me», disse con più impeto. Mi alzò il mento con due dita e il mio cuore cadde direttamente sul fondo dell’oceano.

--------

Stavo ancora piangendo quando mio padre, con nostra sorpresa e paura, ci raggiunse sulla spiaggia con la sua divisa da lavoro. A nostro favore c’era l’impressione che lui stesse più a disagio di noi. 

«Salve ragazzi», cominciò a bassa voce quasi avesse paura di parlare. Nathan gli fece un cenno, io mi voltai.

Staccando le sue mani dalle mie si mise in piedi lasciandomi vuota. Mi guardo senza nessuna traccia di paura, probabilmente aveva riconosciuto in mio padre una tacita richiesta invisibile all’occhio femminile.

«Ci vediamo dopo». E scompari’ dietro la sabbia.

Nel frattempo papà aveva rimpiazzato Nathan e litigava con la sabbia sulle ginocchia. Per un attimo ebbi paura che cominciasse a inveire contro di me, e invece «Ricordi quanto pioveva a New York quand’eri piccolina?».

«E’ sempre lo stesso», dissi distaccandomi dal tono acido e afferrando una voce più naturale. Papà annuì.

«Eri affascinata dalla pioggia. Rimanevi ore e ore a fissare le gocce cadere nitide e decise… e a volte anche noi, a nostra volta, rimanevamo incantati da te. Sembrava quasi che le volessi contare. E appena la mamma ti diceva che non potevi uscire, perché pioveva, tu correvi alla porta e ti trascinavi sotto la pioggia e ridevi, volteggiavi, raccoglievi le gocce dalle tue mani e poi le guardavi fino a lasciarle scomparire tra le tue dita».

Restai senza parole, a fissarlo. Quello era lo sguardo di mio padre. Mi spaventai della facilità con cui ero riuscita a riconoscerlo. Sognante, malinconico, improvvisamente sembrò invecchiare di cent’anni.

«Te lo sto dicendo, non perché penso che tu sia testarda e impulsiva. Ma perché tu…hai passione. Non correvi sotto la pioggia per farci un dispetto, ma perché non credevi ci fosse niente di sbagliato. E non riuscivamo a farti cambiare idea neanche quando il giorno dopo ti saliva la febbre», rise tra sé. 

«Non voglio che tu pensi che non ti voglia bene. E’ assolutamente impossibile non volertene, sai?».

«E quello che ho fatto a Emma?». Non replicò subito. Soppesò le mie parole, con la probabile intenzione di trovarne altre. Mi voltai per giocare con la sabbia.

«Vedi, l’amore è venti percento testa e ottanta cuore…e si vede che il tuo cuore è da un’altra parte», mormorò improvvisamente con il sorriso di chi la sa lunga sull’argomento. E da quando mio padre sapeva qualcosa dell’amore?

«Hai quel qualcosa di trascinante…non è poi così difficile che Nathan Carver si sia innamorato di te», disse con una tranquillità che mi spiazzò. Appena notò il mio sguardo continuò. «Non lo pensi anche tu?».

«Innamorato?», fu l’unica parola che riuscii a sussurrare a me stessa.

«Come lo chiami tu un ragazzino che affronta tutto quello che è successo fino a ieri sera?»,  ragazzino. Sorrisi del modo che aveva usato mio padre nel parlare di Nathan. Dopotutto sotto gli occhi di un adulto Nathan era davvero poco più che un ragazzino.

Mi limitai a tacere ancora una volta sconvolta dal modo in cui Richard Hamilton era riuscito a radiografare la mia condizione in pochi secondi.

«E’ che non l’avevo mai vista da quel punto di vista», confessai pensierosa.

Era davvero così? Amore.  Era successo tutto così velocemente che non mi ero fermata neanche un attimo a pensare cosa stava nascendo davvero nel mio cuore. O forse avevo paura di aprire quel cassetto. Tuttavia era bastata una semplice parola del capo della polizia di Longwood, meglio conosciuto come mio padre/Signor Hamilton a scatenare in me adrenalina, dubbi, ansia e mille domande confuse, che come vortici formavano cerchi velocissimi davanti ai miei occhi.

Oh papà, pensai.

«E’ così che ci si dovrebbe sentire ad essere tua figlia?». E sorrisi sotto i raggi del sole mattutino.

Passai il resto del pomeriggio nell’auto con Marnie a cercare delle risposte nei nostri silenzi. E quando mi chiese cosa ne pensavo, solo dopo mezz’ora riuscii a spiegarle molto confusamente quello che credevo, uscita da quell’estate.

«Non posso programmarlo. Non posso neanche prevedere come finirà… perché l’amore è imprevedibile…e frustrante…e tragico pure. E bellissimo…ed io non so cos’è», mormorai stanca.

E finché non entrai in salotto quella notte, mi chiesi ancora se il mio era amore. Piansi con Marnie, urlai al mare, chiusi gli occhi al vento. Una domanda così semplice e maledettamente impossibile da rispondere.

«Shane», dissi sorpresa quando vidi mio fratello sdraiato sul divano, pensieroso, al buio.

Mi fece cenno di raggiungerlo sul divano ed io non esitai. Mi distesi poggiando la testa sulle sue ginocchia. «Shane», lo chiamai. Mi rispose con un verso che somigliava ad un “mmm”.

«Mi dispiace per averti rovinato l’estate», dissi accompagnato da uno sbadiglio.

«Oh sorellina, sorellina», Shane prese ad accarezzarmi i capelli in modo ipnotico e usò un tono dolce per spiazzarmi. «Tu mi hai fatto il regalo più bello, quest’estate».

«Mi hai insegnato che anche se sei acido, terribilmente irritante e cammini pure storto, hai qualche speranza. Puoi innamorarti», disse soffocando una grossa risata. Afferrai il cuscino ai miei piedi e glielo tirai in faccia. «Grazie», sussurrai prima di addormentarmi tra le sue braccia.

Forse domani troverò la mia risposta, pensai. Amore?
Piacere, io sono Victoria.

 

Fine Diciottessimo Capitolo.

  
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