- «
empty spaces.
- primo giorno.
- E il
mare quel giorno cicatrizzava le ferite del mondo. Furia creatrice che
deturpava le linee armoniche della sabbia soffiata via dal vento
– vento vergine,
respiro di onde che s’infilava fin dentro la pelle.
- Il
cielo era così livido che mancava il fiato a vederlo e il
leggero fumo di una
sigaretta si alzava pigro, come se non lo sapesse che il mondo poteva
finire in
quel momento.
- Come se
lui non lo sapesse che era vivo in quel momento.
- James
fumava piano, in una quiete lontana dalla rabbia del cielo e dalla
rabbia del
mare e dalla rabbia del mondo. Fumava e la gola gli bruciava in un rogo
di
parole mai dette e la testa gli girava in una confusione di pensieri
che lui
neanche sapeva come dire.
- Le
spiagge di Los Angeles quel giorno avevano un profumo diverso. Ma forse
era
solo lui a sentirsi diverso. Senza passato, senza capire come ci fosse
arrivato.
- Per quel
che contava, in quel molo ci era arrivato in autobus. Non in macchina.
Non con
quelle macchine che s’incolonnavano sulla Freeway, grandi,
enormi. Come tutto.
Come gli spazi. Come le distanze. Come i culi. Ci era andato in autobus
ed
aveva aiutato una coreana che di inglese non sapeva nulla a salire con
i
sacchetti della spesa.
- Non
aveva preso la macchina perché la macchina era di Razor. Non
sua. Los Angeles
era di Razor. E lui non lo sapeva cosa ci stava a fare lì.
Però intanto ci
stava, perché non avevano deciso cosa fare, lui e i ragazzi.
Intanto rimanevano
nel vecchio appartamento di Razor in Venice Beach, che era una macchia
di
colori e canali che scavavano la terra. Una volta Razor, quando erano a
New
York, gliel’aveva spiegato che Los Angeles non era una
città. Los Angeles erano
tante persone messe insieme in quello strato di terra che stava tra il
mare e
le montagne, ma niente. Dodici milioni di persone senza radici che
soffocavano
sotto il cielo della città degli Angeli e un po’
se ne fregavano, anche, perché
Los Angeles ti dava vita. Vita strozzata, vita spezzata, ma comunque
vita.
Uscire dallo Strip che è notte e sentire ridere tutti, ma
proprio tutti, e
qualcuno urla che è l’ex moglie di, o la figlia
di, o chissà chi. Tutti che si
sentono importanti, a Los Angeles, ma che poi magari importanti non lo
sono
neanche.
- Anche
James si era sentito importante. Per un momento. E scordarsi il verde
del
Connecticut e il gelo dell’Atlantico, e ritrovarsi tra i
capelli la sabbia calda
e respirare in bocca l’aria pesante.
- Continuò
a fumare e socchiuse gli occhi. Era seduto su uno dei tavolini in legno
di quel
molo distante forse mille miglia da Downtown e dalle luci.
- Lì di
luce non ce n’era. Quel giorno il sole sembrava essersi
dimenticato di
esistere. Razor lo diceva sempre che quel momento sarebbe arrivato. Ma
Razor
probabilmente sapeva tutto senza capire niente.
- L’aveva
incontrato la sera di Capodanno in un bar di New York, Ottava Avenue,
se lo
ricordava bene. James si era appena trasferito lì da suo
fratello e non sapeva
ancora cosa fare. E non semplicemente della vita, o chissà
cosa di così grande,
perché a James non piaceva pensare in grande: rischiava solo
di fare grandi errori.
Semplicemente, non sapeva neanche cosa fare di lì a qualche
minuto. Perciò
aveva camminato per un po’, cercando di ricordarsi che poco
prima di mezzanotte
doveva trovarsi in Times Square, sennò Charlie e la sua
donna l’avrebbero
cacciato di casa. Erano abbastanza incazzati con lui, e dire che non
aveva
fatto nulla – e forse era proprio quello il problema.
- Ma
comunque aveva camminato fin quando si era ritrovato
nell’Ottava Avenue e lì,
all’ombra di parcheggi e negozi di souvenir che si
incastravano tra loro, era
entrato nel primo bar che gli era capitato sotto mano. Non è
che gli piacesse
quel posto, ma avevano una birra scura che era la fine del mondo. E poi
c’erano
dei coglioni che facevano un chiasso assurdo, come se
l’inizio dell’anno chissà
cos’avrebbe portato. Come se l’inizio
dell’anno avrebbe cancellato tutte le
macchie che si portavano dentro.
- Razor
l’aveva capito che lui era un po’ scazzato.
Cioè, era proprio andato da lui e
gli aveva detto: «Hey, amico, sei scazzato stasera.»
- E James
non è che avesse proprio saputo rispondergli a tono,
perché che diavolo si dice
ad uno che t’arriva lì tra i piedi e prende a
psicanalizzarti?
- Ecco.
Razor, dalla prima volta che l’aveva visto, gli era stato sul
cazzo. Perché
Razor semplicemente non poteva tenersi il suo spazio, il suo mondo, il
suo
gruppo d’amici, la sua donna, Razor voleva tutto e ne voleva
sempre di più.
- Per cui
James non aveva potuto rispondere altrimenti, se non sì,
quando lui gli aveva
chiesto di aggregarsi agli altri. E avevano bevuto così
tanto, quella sera, che
ad ogni ora avevano elencato tutti i Paesi in cui l’anno
nuovo era arrivato e
li avevano mandati a farsi fottere, e tanti auguri, insomma.
- Salvo
poi ricordarsi che mancavano giusto una manciata di minuti, al loro
anno nuovo,
per cui si erano alzati tutti da gran bastardi – lui, Razor,
Marcus, Declan e
due tizi del quale non ricordava proprio il nome, assieme a qualche
biondina
deliziosa – ed erano corsi a Times Square, perché
quella era una cosa che non
si poteva perdere. Avevano corso così tanto che ad una delle
biondine si era
rotto un tacco e James l’aveva dovuta caricare sulle spalle,
e Razor e gli
altri ridevano come dei matti e a momenti avrebbero pure vomitato, e
insomma,
avevano continuato a correre e lui intanto aveva provato a controllare
dove diavolo
fosse suo fratello, ma probabilmente non l’avrebbe mai
trovato, in quella
confusione, per cui aveva continuato a correre fregandosene e il conto
alla
rovescia era iniziato appena lui aveva appoggiato la biondina a terra,
e Razor
gli si era avvicinato urlandogli a che cosa stesse pensando una faccia
da
stronzo come lui. James aveva riso e gli aveva risposto: «A
Nietzsche.»
- E
perché cazzo pensi a Nietzsche?
- Il
disastro dell’anno nuovo, connubio perfetto con le parole di
James che aveva guardato
Razor e gli aveva spiegato tutto. Gli aveva detto di lui, di Nietzsche,
di una
chitarra appoggiata in quel di un appartamento pieno di finestre in
Central
Park South. E mentre glielo aveva detto, si erano allontanati, e Razor
aveva
ascoltato, Razor era bravo ad ascoltare, e avevano camminato. Avevano
camminato
tutta la notte, a volte parlando, spesso stando in silenzio, in uno di
quei
silenzi fatti di parole incastrate in gola e idee che neanche vuoi
capirle.
Avevano camminato così tanto che erano finiti a SoHo. E
quella mattina, poco
dopo essersi salutati, si erano ritrovati tutti quanti – lui,
Razor, Marcus e
Declan – nell’appartamento di Marcus, Holland
Avenue, Bronx, NY. Era un altro giorno che sembrava un altro
mondo e in
quel momento James, mentre suonava la chitarra e Razor il basso, e
Marcus la
batteria e Declan cantava, aveva capito che quello, sì,
quello, era un nuovo
anno.
- Avevano
suonato così tanto che lui neanche ricordava
com’era sentire le dita che
bruciavano e fregarsene perché bruci pure da dentro, ma
è di vita che stai
bruciando, è di musica che stai bruciando. Ed erano partiti.
Quattro idioti
dietro a re Razor. Perché a lui non si poteva sfuggire. Lui
ti rubava l’anima.
- Razor,
in definitiva, gli era sempre stato sul cazzo. Perché Razor
non poteva
semplicemente tenersi il suo spazio, il suo mondo. Razor voleva oltre.
E James
gliel’aveva sempre perdonato, perché lui pensava
che uno come Razor non
meritasse di passare la sua vita chiuso tra i caldi pontili di Venice
Beach.
Uno come Razor il mondo doveva conquistarlo. Perché Razor
era sempre stato un
passo – mille mila passi – avanti loro.
- Solo
che, quella volta, era andato troppo avanti. Non sarebbe più
tornato e James
non sapeva se questo sarebbe mai riuscito a perdonarglielo.
- Sospirò
e finì la sua sigaretta. Quindi si alzò e se ne
andò.
- ***
- Johnny
era stato l’infinito incompiuto di un viaggio senza fine.
- Delilah
chiuse gli occhi. Era sdraiata sul letto di lui, le tendine tirate per
oscurare
la stanza, tutt’intorno quadri appoggiati alle pareti,
marchiati in basso a
sinistra da quella R che lei
sentiva nel
respiro. Erano tele bianche squarciate da colori forti che si
mescolavano in
una convergenza di vita e droghe, fino a portare ad una lapide fuori
Venice che
si poteva toccare, che era fredda, che era lui.
- Che
Johnny Razor fosse semplicemente pazzo lei lo sapeva. E
gliel’aveva detto nel
tramonto pieno di luce della California che loro due – loro
due lì, e laggiù il
resto del mondo – erano il popolo eletto di dio Kerouac.
Delilah l’aveva capito
quando l’aveva sentito suonare per la prima volta. Non era
una cosa che
semplicemente si scordava. San Francisco, il mare, la musica ad ogni
angolo di
strada, di quella strada che va su, in cima, che neanche riesci a
vederne la
fine, San Francisco che era stata culla del popolo eletto ed era
segnata sul
viso delle persone che camminavano.
- Lei non
si aspettava Johnny.
- Quella
sera l’aria era più nebbia che altro. Era andata a
North Beach senza conoscere
nessuno e in uno dei locali stavano suonando. Lui toccava il basso come
se
toccasse una donna.
- In quel
momento, qualcuno bussò alla porta. Delilah si
alzò di scatto e andò ad aprire.
Era James.
- «Hey,
Jim.» Capì che era andato al molo
perché sembrava l’avesse pettinato Edward
mani di forbice.
- James
sorrise. «Gli altri?» Chiese.
- «Marcus
è di là in coma etilico, Declan è
uscito con la tipa che mi ha scambiata per
una groupie.»
- «Chi?»
- «Ma
sì,
la biondina slavata che sta qui davanti.»
- «Quella
dell’entrata 39?»
- «Proprio
lei.»
- «Quella
bella?»
- «Dipende
dai casi umani coi quali si ha a che fare.»
- James
le fece l’occhiolino. La conosceva ormai da quasi due anni e
non smetteva di
pensare che Delilah sembrava essere uscita da una canzone dei Beach
Boys. Lui
non immaginava che una persona potesse indossare così tanti
colori, ma forse
lei era in grado di frantumare ogni convinzione e probabilmente per
questo
Razor l’aveva raccolta a San Francisco e non
l’aveva lasciata più andare. Delilah
indossava senza preoccuparsi il rosso e l’azzurro, aveva tra
i capelli scuri un
sacco di fascette di ogni sfumatura, e gli occhi grandi gli facevano
venir
voglia di Natale, a lui che ogni volta che la guardava si sentiva un
bambino
sperduto.
- Fissò
da dietro le sue spalle e disse: «Piangevi?»
- Delilah
sbuffò. «Non dire stupidaggini. Mi è
entrato solo un moscerino nell’occhio.»
- «In
entrambi gli occhi.»
- «Sì,
infatti. Grande spirito di osservazione.» Prese fiato. Lo
inchiodò con lo
sguardo. «Ma ho gli occhi rossi?»
- Lui
scosse la testa.
- «E
quindi?»
- «E’
solo – spiegò James – che tu me
l’hai tipo detto mille volte, questa cosa qui
di Allen Ginsberg. Che bisogna togliere le serrature dalle porte. E poi
togliere anche le porte dai cardini. E invece adesso ci sbatti pure la
porta in
faccia.»
- «Cazzo,
amico, ascolti tutte le stronzate che dico, eh.»
- Lui
fece spallucce. «Sai com’è, a furia di
avere intorno a me gente come Marcus.»
- E
quello, sentendosi chiamare in causa, si alzò in fretta dal
divano nel
salottino, corse davanti ai loro occhi e quasi si affogò nel
cesso cominciando
a vomitare l’anima.
- Delilah
fece una smorfia disgustata. «Dicevo io che non si vive in
una casa che ha un
solo cesso.»
- «In
effetti fa schifo.»
- Si
piegarono entrambi in avanti per controllare che Marcus non fosse
morto.
- Era
vivo. E non erano sicuri si trattasse di un evento auspicabile per
l’intera
umanità.
- Lei
tornò
ad appoggiarsi allo spigolo della porta. I capelli le erano cresciuti e
sfioravano le spalle.
- Fece un
gesto stizzito con la mano e spiegò a James: «Ma
non è solo per quello,
capisci?, è che si tratta di illuminazione.»
- Lui non
capì e lei continuò: «Ma a te le
illuminazioni dove vengono?»
- Non
rispose. James aveva il difetto di non rispondere quando gli chiedevano
qualcosa, ma semplicemente se gli andava o gli faceva comodo.
- «Perché
a me vengono al cesso, perciò ognuno dovrebbe averne uno
», spiegò Delilah
convinta. «Pensaci. Nel Medioevo non è che ci
fossero, no? Di fatto quanta
gente è morta per la peste?»
- «Per
la
peste. Non perché non ci fossero i cessi.»
- «Per
William Blake, cosa mi tocca sentire! Fa’ qualche
collegamento, no?» Si portò
le mani al volto, disperata. Era scenica, come persona. Piccolina e
scenica. A
vederla leggere tranquilla seduta sotto un albero, non avresti detto
che era un
fuoco d’artificio.
- «Non
c’erano i cessi, no?» Aveva preso a gesticolare.
Marcus continuava a vomitare.
«Eccerto che quindi era impossibile che
s’inventasse la penicillina! Mancava un
luogo in cui avvenisse l’illuminazione. Per cui la peste ha
avuto campo libero.»
- Lui
sbatté le palpebre. Si fissarono per un po’ in
silenzio fin quando Marcus non
li raggiunse.
- «Oh,
sto proprio male.»
- «Non
quanto lei», lo rassicurò James.
- Delilah
borbottò qualcosa su quanto fossero ignoranti quei due,
dunque voltò loro le
spalle e andò verso la cucina a prendersi una birra.
- Marcus
la guardò andare via senza capirci niente, totalmente
inebetito. Poi sbottò: «Le
odio queste donne. Quando hanno il ciclo, ti trattano male
perché hanno il ciclo.
Quando non hanno il ciclo, ti trattano male perché hanno la
sindrome
premestruale.»
- ***
- «Ciao.»
- «Ciao.»
- «Ti
disturbo?»
- «No,
tranquilla. Mettiti qui, su questo sgabello. Vedi? L’ho
portato apposta per te.
Per favore, siediti.»
- «Grazie.
Ma
cosa fai?»
- «Disegno.
Il
tramonto.»
- «Senza
colori?»
- «Con
l’acqua.»
- «L’acqua
è
trasparente.»
- «E’
trasparente come il tuo fiato.»
- «Anche
come il
tuo, di fiato.»
- «Come
il fiato
di tutti.»
- Passava il
pennello umido sulla tela bianca che sembrava risucchiare la poca luce
della
giornata.
- «Ci
verresti
in un posto con me, Dee?»
- «Ci
verrei, se
tu colorassi il tuo fiato, Joh.»
- Una
volta qualcuno le aveva detto che ci si poteva ammalare di ricordi. E
allora
Delilah aveva pensato che lei era un caso incurabile, che lei aveva
dentro quei
ricordi di Johnny e li sentiva come vuoti pneumatici che
l’allontanavano da
tutto ciò che era reale. Lei a chiudere gli occhi e a
pensare a Johnny si
sentiva senza pelle. Lei a chiudere gli occhi e a pensare a Johnny si
sentiva
piena d’aria e più pesante di cicatrici. Lui era
quell’ombra che seguiva, come
fanno i ciechi, come faceva lei che altrimenti non avrebbe saputo che
passi
muovere. Ma Johnny Razor le aveva dato una vita, le aveva dato
coraggio, le
aveva dato tutto quello che serve per difendersi, per non morire sulla
strada,
a lei che si era buttata sul terreno asfaltato e segnato da passi senza
neanche
pensarci, semplicemente col bisogno di andarsene e respirare a pieni
polmoni.
- Johnny
Razor le aveva insegnato a non farsi male, ad andare avanti nonostante
tutto e
contro tutto, perché la pace dentro, lei non la poteva
trovare evitando la
vita. Delilah era rimasta in silenzio a guardarlo imparare ogni
centimetro
della sua vita e del suo corpo, geometria perfetta di lividi e voglia
di
camminare con i propri piedi. E adesso che lui non c’era non
importava niente,
ce l’aveva nei suoi pensieri.
- Johnny
che si lasciava chiamare col suo nome solo da lei e che disegnava al
tramonto
di giorni insensati sui tetti. Johnny che aveva la musica negli occhi e
lei
avrebbe solo voluto essere ogni canzone sulle sue labbra. Johnny che le
aveva
scombinato la vita e aveva gli occhi grigi di cielo. Johnny che era un
pescatore di uomini ma non era riuscito a salvarsi.
- Bevve
piano un sorso di birra. Era notte. Non sapeva da che parte guardare.
- ***
- «Mi ci
portava sempre qui.»
- «Razor?»
- «Sì.»
- E
intanto il mondo continuava ad andare avanti, mentre Delilah e James se
ne
stavano sul tetto. Sotto i loro piedi che davano nel vuoto alcune
persone
festeggiavano. Lui era andato lì sopra perché
sapeva di trovarla. Lo sperava.
Non voleva che si buttasse dal terrazzo di quella palazzina.
- «Faceva
tanto Jim Morrison, diceva. Solo che Jim leggeva, Johnny invece
disegnava.»
- «Sì,
era un gran coglione.» Poi James rimase in silenzio a
guardare il cielo. Ricordava
che quando era bambino, dietro casa sua, c’erano un sacco di
alberi e lui era
bravissimo ad arrampicarsi. Rimaneva lì per ore e sua
sorella piangeva perché
pure lei voleva salire. E ogni volta che sua madre gli chiedeva che
diamine ci
facesse là sopra, lui rideva e non le rispondeva. Lei non
avrebbe capito.
- Non
avrebbe capito e di questo lui non gliene faceva una colpa –
era stato
cresciuto con amore, era stato cresciuto che si sentiva solo. Ma Razor,
oh,
Razor diavolo se non l’aveva capito! Che lui guardava il
cielo e non vedeva
semplicemente l’ora di poter volare.
- «Si
vede qualche stella», disse all’improvviso lui.
- Delilah
non commentò. Pensava fino a consumarsi un po’
dentro. Pensava ad una delle
sere con Johnny,che giravano in van nell’Ohio,
l’odore vuoto della terra nuda
d’America che entrava attraverso i finestrini aperti,
direzioni da prendere che
potevano cambiare tutto. Si erano appena lasciati dietro le spalle il
Motel in
cui loro due e i Reckoners stavano, e Marcus quella sera, neanche a
dirlo, dopo
il concerto si era ubriacato. Johnny e Delilah avevano preso la
macchina. La
notte era una macchia d’inchiostro ferita di stelle e i
semafori di quella
cittadina senza gente sembravano rossi di sangue. Poi lei
l’aveva guardato e
aveva detto che c’erano le stelle. Johnny aveva sorriso e
l’aveva baciata –
respiravano lo stesso fiato. E poi lei aveva cominciato a cantare gli
Smiths e
Johnny era scoppiato a ridere chiedendole per quale fottuto motivo tra
tutte le
canzoni del mondo, proprio quella lagna di There’s
a light that never goes out doveva cantare. Ma lo sapevano
entrambi, quella
notte, che Delilah davvero ci credeva: morire al suo fianco sarebbe
stato un
gran bel modo di morire.
- «Te la
ricordi la sorellina di Declan?» Chiese James d’un
tratto.
- Delilah
annuì. Ricordava quella bimbetta bionda. Lo
guardò. «Perché, scusa?»
- «No,
niente, è che mi è venuto in mente quella volta
che siamo andati nel New Jersey
e siamo passati a salutare la famiglia di Declan.»
- Se lo
ricordava anche lei il New Jersey. L’oceano
d’autunno era ghiaccio liquido e ti
bloccava fino i pensieri.
- «Suzanne
ci ha detto che secondo lei le stelle portavano da qualche parte. Un
pensiero
profondo per una cosina di sette anni, no? Voglio dire,
l’intelligenza sarà
andata solo a lei.»
- Delilah
rise. «Penso di sì.»
- «Io
non
c’ho mai pensato a dove diamine portassero le
stelle.»
- Lei gli
scompigliò i capelli scuri e si avvicinò di
più a lui. Notò che aveva la barba
di qualche giorno. «Io sì, guarda.» E
indicò una stella a caso.
- James
seguì il suo dito e attese che continuasse.
- «Seconda
stella a destra», spiegò.
- «E
poi?»
- «E poi
dritti fino al mattino.»
- Non
dissero più niente. Rimasero in silenzio ad ascoltare i
rumori della notte,
quando nessuno poteva vederli e giudicarli, quando tutti potevano
tenere chiusi
gli occhi ed essere ciò che volevano.
- «E’
venuta una giornalista oggi, a proposito.» Fece lei.
- «Una
giornalista?»
- «Mmm.
Nessuno
d’importante, comunque. Non pensare al Rolling
Stone. Era una robetta in stile Seventeen,
ma che non avevo mai sentito in vita mia. Ha rotto le palle,
sai?»
- «Che
voleva?»
- Delilah
fece un smorfia. «Ma niente. Intervistare voi Reckoners e
sapere cos’avete
intenzione di fare ora. Ha detto che di solito dopo... be’,
di solito dopo una band si
scioglie.»
- «Che
carina.»
- «A
chiamarvi band? Sì, lo penso anch’io.»
- Lui la
guardò male.
- «Su,
Jimmy, non essere permaloso.»
- «Cosa
hai detto?»
- «Su,
Jimmy, non essere permaloso.»
- «No,
intendo, cos’hai detto alla
giornalista.»
- «Ah.
Specifica, per Ginsberg.»
- «Allora?»
- «Ma
niente. Che non volevate essere intervistati. Punto.»
- «Questo?»
- «Ma
sì.»
- «Dee?»
- Non lo
guardò più.
- «Non
ti
credo.»
- «Ma
non
credermi!» Sbottò lei infastidita.
- «Cos’altro
lei hai detto?»
- «Ma
nulla di particolare.» Sentendolo ridere le venne voglia di
prenderlo a
schiaffi. «Ok, ascolta, potrebbe anche essere che io in quel
momento fossi
incazzata perché mi avevate lasciata sola.»
- «Ci
hai
insultati?»
- «Sì.»
- «Esattamente?»
- «Bah.
In pratica ho consigliato a questa tipa qui di non scriverlo,
l’articolo. E non
solo perché tu, Marcus e Declan siete degli idioti,
ignoranti, egoisti e senza
un minimo di spessore e/o sensibilità. Ma ci sarebbero state
controversie sul
titolo: La Fattoria degli Animali, ahimè, è
già stato usato.»
- James
fischiò.
«Ti prego, non continuare, mi sto commovendo per la tua
grazia.»
- Delilah
mise i piedi sul muretto e poi, con una spinta, se ne tirò
giù dimenticando il
vuoto sotto di lei – il vuoto allo stomaco. «Io me
ne vado a dormire, stronzo.»
- Gli
fece un cenno e gli voltò le spalle. Poi, proprio mentre
stava per uscire da
quell’enorme terrazzo sul tetto, James la bloccò.
«Perché, tu riesci a
dormire?»
- Ma
sentendo che l’unica risposta che gli
arrivava era il vento, capì che se ne era andata.
- Era
stato con Razor che James aveva ripreso a suonare la chitarra
– la sua bella
donna – su cui aveva inciso Nietzsche.
L’aveva portata con sé a NY perché non
se la sentiva di lasciarla in quella
casa troppo grande fino per lui che si nascondeva nel verde del
Connecticut.
- Aveva
conosciuto Razor e si era riconosciuto nell’unica vita che
avrebbe voluto
vivere. D’altronde, come gli aveva sempre detto lui, non
c’era droga migliore
che suonare. Salire su un palco che fuori è buio e dentro
è pieno di luce –
luce luce luce – e le persone non ti conoscono, ma poi ti
capiscono, quando tu
suoni, loro ti capiscono, loro ti sentono, loro ti toccano e tu tocchi
loro in
una comunione perfetta che magari puoi far fatica a ricordare, ma non
potrai
mai dimenticare.
- Avevano
girato stati e avevano conosciuto persone. Non ce n’era una
che fosse entrata
loro dentro, e non ce n’era nessuna che non li avesse
segnati.
- Delilah
era un’eccezione. Non è che avesse fatto qualcosa
per essere un’eccezione. Solo
c’erano alcune persone che erano eccezioni, che non erano
fatte a stampini, ma
rompevano cerchi che si tramandavano. Delilah non era fatta a stampino,
per
quanto lei sostenesse di essere stata montata all’Ikea, e
anche male, visto che
le istruzioni erano in finlandese. Ma Delilah non era così,
lo sapevano tutti.
Perché lei aveva occhi scuri psichedelici e quando si era
avvicinata per la
prima volta a loro in quella sera piena di nebbia di San Francisco,
Razor aveva
pure ricordato che Robert Plant l’aveva cantato: Qualcuno me
l’ha detto che qua
fuori c’è una ragazza che ha l’amore
negli occhi e i fiori tra i capelli. Razor
l’aveva detto e non le aveva offerto da bere come a tutte le
ragazze che
incontravano dopo un concerto. Aveva detto che lì dentro
c’era troppa luce –
luce luce luce - e lui aveva bisogno di buio - quando tutti potevano
tenere
chiusi gli occhi ed essere ciò che volevano. Erano usciti
insieme senza dare
spiegazioni, senza conoscere i loro nomi, ma con quella voglia matta di
fuggire
insieme – insieme, uniti, due corpi sconosciuti che si
conoscono e si imparano
– e per due giorni Razor non era tornato nel Motel dove
stavano. L’avevano
chiamato, l’avevano cercato e Marcus aveva pure pianto. Razor
per due giorni
non era tornato.
- Era
tornato il terzo giorno.
- Lei era
con lui e lui era con lei e loro due erano insieme, a Razor questo
piaceva
sempre dirlo – lei è con me e io sono con lei e
noi due siamo insieme. E quando
gli avevano chiesto dove diamine fosse andato a finire per tutto quel
tempo,
lui aveva riso e aveva detto: «Hey, Dee, che cazzo di scusa
inventiamo?»
- «Ma
che
ne so. Di’ che siamo stati giù tra campi di
fragole. Giù, giù, giù.»
- Con
loro – loro due insieme – era sempre
così. Parlavano come se non ci fosse
nessun altro.
- Perché
erano insieme. E tutto il resto del tempo
non contava.
- ***
- Sulla porta
d’ingresso dell’appartamento di Razor
c’era scritto: Umanità, mi stai sul cazzo. Delilah
sorrise e le venne anche da
piangere. L’aveva scritto Bukowski, l’aveva
riportato Johnny.
- Entrò.
Declan e Marcus stavano guardando alcune
vecchie repliche di Okay, il prezzo
è
giusto!.
- Li
fissò stralunata.
- «Eccoti,
Dee!» Fece Marcus quando si accorse di
lei. «Proprio te stavamo aspettando.»
- «Ci
sei mancata», suggerì Declan.
- «Le
magliette ve le lavate da soli», tagliò corto
lei.
- «Nooo,
ma sai che non ti chiederemmo mai niente
di simile.» Quando Marcus faceva quegli occhioni
lì non c’era mai da fidarsi. Aveva
preso quel brutto vizio da Jimmy, ma Jimmy aveva gli occhi di un verde
così
profondo che c’era racchiuso tutto il sapore del New England.
Marcus invece era
uno che, a guardarlo, sapevi che stava nel border line. Nel senso che
ti era
impossibile capire se era un genio o un deficiente completo.
- «Vogliamo
semplicemente due birre», disse il
deficiente completo.
- «Oh,
be’. Rieccoci al luogo comune del maschio
cavernicolo che chiede alla femmina una birra.» Mentre
urlava, sentì la
serratura della porta scattare e intravide Jimmy rientrare a casa e
guardarli
divertiti.
- «Be’,
ma smettila anche tu, cazzo, con ‘sto luogo
comune dei maschi imbecilli!»
- Delilah lo guardò innocente. «Non ho detto niente, Marcus. Semplicemente, sto constatando che in questo momento ho almeno un esempio di deficienza maschile col quale sto comunicando.» E, prima che lui potesse alzarsi dal divano e placcarla, si rinchiuse nella camera di Johnny.
salve, 'bbbelli!
non so se riuscirete a leggere questa nota - causa istinti omicidi nei vostri confronti per aver aperto la pagina e/o nei confronti dell'autrice (hahahah, che sarei io e non fa ridere nessuno, ma quanto sono simpatica ._.) per averla creata. ma comunque sia, ponendo caso che siate arrivati fino alla fine - seh - ci tenevo a dirvi una cosa.
non preoccupatevi.
non preoccupatevi se dopo aver letto non ci avrete capito assolutamente nulla o se vi verrà la tonsillite, cioè, è normale leggendo qualcosa di mio, non è colpa vostra, sul serio! l'unico rimedio sicuro per combattere questi morbi infernali è: chiudere la pagina; insultarmi. il tutto eseguito secondo questo preciso ordine v.v
comunque sia, io rimango speranzosa. ma ci dovrà pur essere un'anima pia che risponda a questo mio esaltante lavoro (?!) con un 'wow' detto con tanto di occhi sbrilluccicosi (*-*)
no, eh?
no.
ok. babbe'. vedo di andare avanti con la scrittura di questa... ehm... storia che sicuramente amerete quanto un cactus infilato su per il deretano con amorevole grazia.
andate in pace.
p.s. una ina cosina finale. l'immagine. fa parte di wake, una raccolta creata dal filmmaker adam jeppesen, che vi consiglio vivamente di vedere.