Storie originali > Introspettivo
Segui la storia  |       
Autore: emily colburn    26/02/2011    4 recensioni
Perché erano insieme. E tutto il resto del tempo non contava.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
cap 1
« empty spaces.
 
 


 hurt, johnny cash.
 
primo giorno.
 
 
E il mare quel giorno cicatrizzava le ferite del mondo. Furia creatrice che deturpava le linee armoniche della sabbia soffiata via dal vento – vento vergine, respiro di onde che s’infilava fin dentro la pelle.
Il cielo era così livido che mancava il fiato a vederlo e il leggero fumo di una sigaretta si alzava pigro, come se non lo sapesse che il mondo poteva finire in quel momento.
Come se lui non lo sapesse che era vivo in quel momento.
James fumava piano, in una quiete lontana dalla rabbia del cielo e dalla rabbia del mare e dalla rabbia del mondo. Fumava e la gola gli bruciava in un rogo di parole mai dette e la testa gli girava in una confusione di pensieri che lui neanche sapeva come dire.
Le spiagge di Los Angeles quel giorno avevano un profumo diverso. Ma forse era solo lui a sentirsi diverso. Senza passato, senza capire come ci fosse arrivato.
Per quel che contava, in quel molo ci era arrivato in autobus. Non in macchina. Non con quelle macchine che s’incolonnavano sulla Freeway, grandi, enormi. Come tutto. Come gli spazi. Come le distanze. Come i culi. Ci era andato in autobus ed aveva aiutato una coreana che di inglese non sapeva nulla a salire con i sacchetti della spesa.
Non aveva preso la macchina perché la macchina era di Razor. Non sua. Los Angeles era di Razor. E lui non lo sapeva cosa ci stava a fare lì. Però intanto ci stava, perché non avevano deciso cosa fare, lui e i ragazzi. Intanto rimanevano nel vecchio appartamento di Razor in Venice Beach, che era una macchia di colori e canali che scavavano la terra. Una volta Razor, quando erano a New York, gliel’aveva spiegato che Los Angeles non era una città. Los Angeles erano tante persone messe insieme in quello strato di terra che stava tra il mare e le montagne, ma niente. Dodici milioni di persone senza radici che soffocavano sotto il cielo della città degli Angeli e un po’ se ne fregavano, anche, perché Los Angeles ti dava vita. Vita strozzata, vita spezzata, ma comunque vita. Uscire dallo Strip che è notte e sentire ridere tutti, ma proprio tutti, e qualcuno urla che è l’ex moglie di, o la figlia di, o chissà chi. Tutti che si sentono importanti, a Los Angeles, ma che poi magari importanti non lo sono neanche.
Anche James si era sentito importante. Per un momento. E scordarsi il verde del Connecticut e il gelo dell’Atlantico, e ritrovarsi tra i capelli la sabbia calda e respirare in bocca l’aria pesante.
Continuò a fumare e socchiuse gli occhi. Era seduto su uno dei tavolini in legno di quel molo distante forse mille miglia da Downtown e dalle luci.
Lì di luce non ce n’era. Quel giorno il sole sembrava essersi dimenticato di esistere. Razor lo diceva sempre che quel momento sarebbe arrivato. Ma Razor probabilmente sapeva tutto senza capire niente.
L’aveva incontrato la sera di Capodanno in un bar di New York, Ottava Avenue, se lo ricordava bene. James si era appena trasferito lì da suo fratello e non sapeva ancora cosa fare. E non semplicemente della vita, o chissà cosa di così grande, perché a James non piaceva pensare in grande: rischiava solo di fare grandi errori. Semplicemente, non sapeva neanche cosa fare di lì a qualche minuto. Perciò aveva camminato per un po’, cercando di ricordarsi che poco prima di mezzanotte doveva trovarsi in Times Square, sennò Charlie e la sua donna l’avrebbero cacciato di casa. Erano abbastanza incazzati con lui, e dire che non aveva fatto nulla – e forse era proprio quello il problema.
Ma comunque aveva camminato fin quando si era ritrovato nell’Ottava Avenue e lì, all’ombra di parcheggi e negozi di souvenir che si incastravano tra loro, era entrato nel primo bar che gli era capitato sotto mano. Non è che gli piacesse quel posto, ma avevano una birra scura che era la fine del mondo. E poi c’erano dei coglioni che facevano un chiasso assurdo, come se l’inizio dell’anno chissà cos’avrebbe portato. Come se l’inizio dell’anno avrebbe cancellato tutte le macchie che si portavano dentro.
Razor l’aveva capito che lui era un po’ scazzato. Cioè, era proprio andato da lui e gli aveva detto: «Hey, amico, sei scazzato stasera.»
E James non è che avesse proprio saputo rispondergli a tono, perché che diavolo si dice ad uno che t’arriva lì tra i piedi e prende a psicanalizzarti?
Ecco. Razor, dalla prima volta che l’aveva visto, gli era stato sul cazzo. Perché Razor semplicemente non poteva tenersi il suo spazio, il suo mondo, il suo gruppo d’amici, la sua donna, Razor voleva tutto e ne voleva sempre di più.
Per cui James non aveva potuto rispondere altrimenti, se non sì, quando lui gli aveva chiesto di aggregarsi agli altri. E avevano bevuto così tanto, quella sera, che ad ogni ora avevano elencato tutti i Paesi in cui l’anno nuovo era arrivato e li avevano mandati a farsi fottere, e tanti auguri, insomma.
Salvo poi ricordarsi che mancavano giusto una manciata di minuti, al loro anno nuovo, per cui si erano alzati tutti da gran bastardi – lui, Razor, Marcus, Declan e due tizi del quale non ricordava proprio il nome, assieme a qualche biondina deliziosa – ed erano corsi a Times Square, perché quella era una cosa che non si poteva perdere. Avevano corso così tanto che ad una delle biondine si era rotto un tacco e James l’aveva dovuta caricare sulle spalle, e Razor e gli altri ridevano come dei matti e a momenti avrebbero pure vomitato, e insomma, avevano continuato a correre e lui intanto aveva provato a controllare dove diavolo fosse suo fratello, ma probabilmente non l’avrebbe mai trovato, in quella confusione, per cui aveva continuato a correre fregandosene e il conto alla rovescia era iniziato appena lui aveva appoggiato la biondina a terra, e Razor gli si era avvicinato urlandogli a che cosa stesse pensando una faccia da stronzo come lui. James aveva riso e gli aveva risposto: «A Nietzsche.»
E perché cazzo pensi a Nietzsche?
Il disastro dell’anno nuovo, connubio perfetto con le parole di James che aveva guardato Razor e gli aveva spiegato tutto. Gli aveva detto di lui, di Nietzsche, di una chitarra appoggiata in quel di un appartamento pieno di finestre in Central Park South. E mentre glielo aveva detto, si erano allontanati, e Razor aveva ascoltato, Razor era bravo ad ascoltare, e avevano camminato. Avevano camminato tutta la notte, a volte parlando, spesso stando in silenzio, in uno di quei silenzi fatti di parole incastrate in gola e idee che neanche vuoi capirle. Avevano camminato così tanto che erano finiti a SoHo. E quella mattina, poco dopo essersi salutati, si erano ritrovati tutti quanti – lui, Razor, Marcus e Declan – nell’appartamento di Marcus, Holland Avenue, Bronx, NY. Era un altro giorno che sembrava un altro mondo e in quel momento James, mentre suonava la chitarra e Razor il basso, e Marcus la batteria e Declan cantava, aveva capito che quello, sì, quello, era un nuovo anno.
Avevano suonato così tanto che lui neanche ricordava com’era sentire le dita che bruciavano e fregarsene perché bruci pure da dentro, ma è di vita che stai bruciando, è di musica che stai bruciando. Ed erano partiti. Quattro idioti dietro a re Razor. Perché a lui non si poteva sfuggire. Lui ti rubava l’anima.
Razor, in definitiva, gli era sempre stato sul cazzo. Perché Razor non poteva semplicemente tenersi il suo spazio, il suo mondo. Razor voleva oltre. E James gliel’aveva sempre perdonato, perché lui pensava che uno come Razor non meritasse di passare la sua vita chiuso tra i caldi pontili di Venice Beach. Uno come Razor il mondo doveva conquistarlo. Perché Razor era sempre stato un passo – mille mila passi – avanti loro.
Solo che, quella volta, era andato troppo avanti. Non sarebbe più tornato e James non sapeva se questo sarebbe mai riuscito a perdonarglielo.
Sospirò e finì la sua sigaretta. Quindi si alzò e se ne andò.
 
 
***
 
Johnny era stato l’infinito incompiuto di un viaggio senza fine.
Delilah chiuse gli occhi. Era sdraiata sul letto di lui, le tendine tirate per oscurare la stanza, tutt’intorno quadri appoggiati alle pareti, marchiati in basso a sinistra da quella R che lei sentiva nel respiro. Erano tele bianche squarciate da colori forti che si mescolavano in una convergenza di vita e droghe, fino a portare ad una lapide fuori Venice che si poteva toccare, che era fredda, che era lui.
Che Johnny Razor fosse semplicemente pazzo lei lo sapeva. E gliel’aveva detto nel tramonto pieno di luce della California che loro due – loro due lì, e laggiù il resto del mondo – erano il popolo eletto di dio Kerouac. Delilah l’aveva capito quando l’aveva sentito suonare per la prima volta. Non era una cosa che semplicemente si scordava. San Francisco, il mare, la musica ad ogni angolo di strada, di quella strada che va su, in cima, che neanche riesci a vederne la fine, San Francisco che era stata culla del popolo eletto ed era segnata sul viso delle persone che camminavano.
Lei non si aspettava Johnny.
Quella sera l’aria era più nebbia che altro. Era andata a North Beach senza conoscere nessuno e in uno dei locali stavano suonando. Lui toccava il basso come se toccasse una donna.
In quel momento, qualcuno bussò alla porta. Delilah si alzò di scatto e andò ad aprire. Era James.
«Hey, Jim.» Capì che era andato al molo perché sembrava l’avesse pettinato Edward mani di forbice.
James sorrise. «Gli altri?» Chiese.
«Marcus è di là in coma etilico, Declan è uscito con la tipa che mi ha scambiata per una groupie.»
«Chi?»
«Ma sì, la biondina slavata che sta qui davanti.»
«Quella dell’entrata 39?»
«Proprio lei.»
«Quella bella?»
«Dipende dai casi umani coi quali si ha a che fare.»
James le fece l’occhiolino. La conosceva ormai da quasi due anni e non smetteva di pensare che Delilah sembrava essere uscita da una canzone dei Beach Boys. Lui non immaginava che una persona potesse indossare così tanti colori, ma forse lei era in grado di frantumare ogni convinzione e probabilmente per questo Razor l’aveva raccolta a San Francisco e non l’aveva lasciata più andare. Delilah indossava senza preoccuparsi il rosso e l’azzurro, aveva tra i capelli scuri un sacco di fascette di ogni sfumatura, e gli occhi grandi gli facevano venir voglia di Natale, a lui che ogni volta che la guardava si sentiva un bambino sperduto.
Fissò da dietro le sue spalle e disse: «Piangevi?»
Delilah sbuffò. «Non dire stupidaggini. Mi è entrato solo un moscerino nell’occhio.»
«In entrambi gli occhi.»
«Sì, infatti. Grande spirito di osservazione.» Prese fiato. Lo inchiodò con lo sguardo. «Ma ho gli occhi rossi?»
Lui scosse la testa.
«E quindi?»
«E’ solo – spiegò James – che tu me l’hai tipo detto mille volte, questa cosa qui di Allen Ginsberg. Che bisogna togliere le serrature dalle porte. E poi togliere anche le porte dai cardini. E invece adesso ci sbatti pure la porta in faccia.»
«Cazzo, amico, ascolti tutte le stronzate che dico, eh.»
Lui fece spallucce. «Sai com’è, a furia di avere intorno a me gente come Marcus.»
E quello, sentendosi chiamare in causa, si alzò in fretta dal divano nel salottino, corse davanti ai loro occhi e quasi si affogò nel cesso cominciando a vomitare l’anima.
Delilah fece una smorfia disgustata. «Dicevo io che non si vive in una casa che ha un solo cesso.»
«In effetti fa schifo.»
Si piegarono entrambi in avanti per controllare che Marcus non fosse morto.
Era vivo. E non erano sicuri si trattasse di un evento auspicabile per l’intera umanità.
Lei tornò ad appoggiarsi allo spigolo della porta. I capelli le erano cresciuti e sfioravano le spalle.
Fece un gesto stizzito con la mano e spiegò a James: «Ma non è solo per quello, capisci?, è che si tratta di illuminazione.»
Lui non capì e lei continuò: «Ma a te le illuminazioni dove vengono?»
Non rispose. James aveva il difetto di non rispondere quando gli chiedevano qualcosa, ma semplicemente se gli andava o gli faceva comodo.
«Perché a me vengono al cesso, perciò ognuno dovrebbe averne uno », spiegò Delilah convinta. «Pensaci. Nel Medioevo non è che ci fossero, no? Di fatto quanta gente è morta per la peste?»
«Per la peste. Non perché non ci fossero i cessi.»
«Per William Blake, cosa mi tocca sentire! Fa’ qualche collegamento, no?» Si portò le mani al volto, disperata. Era scenica, come persona. Piccolina e scenica. A vederla leggere tranquilla seduta sotto un albero, non avresti detto che era un fuoco d’artificio.
«Non c’erano i cessi, no?» Aveva preso a gesticolare. Marcus continuava a vomitare. «Eccerto che quindi era impossibile che s’inventasse la penicillina! Mancava un luogo in cui avvenisse l’illuminazione. Per cui la peste ha avuto campo libero.»
Lui sbatté le palpebre. Si fissarono per un po’ in silenzio fin quando Marcus non li raggiunse.
«Oh, sto proprio male.»
«Non quanto lei», lo rassicurò James.
Delilah borbottò qualcosa su quanto fossero ignoranti quei due, dunque voltò loro le spalle e andò verso la cucina a prendersi una birra.
Marcus la guardò andare via senza capirci niente, totalmente inebetito. Poi sbottò: «Le odio queste donne. Quando hanno il ciclo, ti trattano male perché hanno il ciclo. Quando non hanno il ciclo, ti trattano male perché hanno la sindrome premestruale.»
 
 
***
 
 
«Ciao.»
«Ciao.»
«Ti disturbo?»
«No, tranquilla. Mettiti qui, su questo sgabello. Vedi? L’ho portato apposta per te. Per favore, siediti.»
«Grazie. Ma cosa fai?»
«Disegno. Il tramonto.»
«Senza colori?»
«Con l’acqua.»
«L’acqua è trasparente.»
«E’ trasparente come il tuo fiato.»
«Anche come il tuo, di fiato.»
«Come il fiato di tutti.»
Passava il pennello umido sulla tela bianca che sembrava risucchiare la poca luce della giornata.
«Ci verresti in un posto con me, Dee?»
«Ci verrei, se tu colorassi il tuo fiato, Joh.»
 
Una volta qualcuno le aveva detto che ci si poteva ammalare di ricordi. E allora Delilah aveva pensato che lei era un caso incurabile, che lei aveva dentro quei ricordi di Johnny e li sentiva come vuoti pneumatici che l’allontanavano da tutto ciò che era reale. Lei a chiudere gli occhi e a pensare a Johnny si sentiva senza pelle. Lei a chiudere gli occhi e a pensare a Johnny si sentiva piena d’aria e più pesante di cicatrici. Lui era quell’ombra che seguiva, come fanno i ciechi, come faceva lei che altrimenti non avrebbe saputo che passi muovere. Ma Johnny Razor le aveva dato una vita, le aveva dato coraggio, le aveva dato tutto quello che serve per difendersi, per non morire sulla strada, a lei che si era buttata sul terreno asfaltato e segnato da passi senza neanche pensarci, semplicemente col bisogno di andarsene e respirare a pieni polmoni.
Johnny Razor le aveva insegnato a non farsi male, ad andare avanti nonostante tutto e contro tutto, perché la pace dentro, lei non la poteva trovare evitando la vita. Delilah era rimasta in silenzio a guardarlo imparare ogni centimetro della sua vita e del suo corpo, geometria perfetta di lividi e voglia di camminare con i propri piedi. E adesso che lui non c’era non importava niente, ce l’aveva nei suoi pensieri.
Johnny che si lasciava chiamare col suo nome solo da lei e che disegnava al tramonto di giorni insensati sui tetti. Johnny che aveva la musica negli occhi e lei avrebbe solo voluto essere ogni canzone sulle sue labbra. Johnny che le aveva scombinato la vita e aveva gli occhi grigi di cielo. Johnny che era un pescatore di uomini ma non era riuscito a salvarsi.
Bevve piano un sorso di birra. Era notte. Non sapeva da che parte guardare.
 
 
***
 
«Mi ci portava sempre qui.»
«Razor?»
«Sì.»
E intanto il mondo continuava ad andare avanti, mentre Delilah e James se ne stavano sul tetto. Sotto i loro piedi che davano nel vuoto alcune persone festeggiavano. Lui era andato lì sopra perché sapeva di trovarla. Lo sperava. Non voleva che si buttasse dal terrazzo di quella palazzina.
«Faceva tanto Jim Morrison, diceva. Solo che Jim leggeva, Johnny invece disegnava.»
«Sì, era un gran coglione.» Poi James rimase in silenzio a guardare il cielo. Ricordava che quando era bambino, dietro casa sua, c’erano un sacco di alberi e lui era bravissimo ad arrampicarsi. Rimaneva lì per ore e sua sorella piangeva perché pure lei voleva salire. E ogni volta che sua madre gli chiedeva che diamine ci facesse là sopra, lui rideva e non le rispondeva. Lei non avrebbe capito.
Non avrebbe capito e di questo lui non gliene faceva una colpa – era stato cresciuto con amore, era stato cresciuto che si sentiva solo. Ma Razor, oh, Razor diavolo se non l’aveva capito! Che lui guardava il cielo e non vedeva semplicemente l’ora di poter volare.
«Si vede qualche stella», disse all’improvviso lui.
Delilah non commentò. Pensava fino a consumarsi un po’ dentro. Pensava ad una delle sere con Johnny,che giravano in van nell’Ohio, l’odore vuoto della terra nuda d’America che entrava attraverso i finestrini aperti, direzioni da prendere che potevano cambiare tutto. Si erano appena lasciati dietro le spalle il Motel in cui loro due e i Reckoners stavano, e Marcus quella sera, neanche a dirlo, dopo il concerto si era ubriacato. Johnny e Delilah avevano preso la macchina. La notte era una macchia d’inchiostro ferita di stelle e i semafori di quella cittadina senza gente sembravano rossi di sangue. Poi lei l’aveva guardato e aveva detto che c’erano le stelle. Johnny aveva sorriso e l’aveva baciata – respiravano lo stesso fiato. E poi lei aveva cominciato a cantare gli Smiths e Johnny era scoppiato a ridere chiedendole per quale fottuto motivo tra tutte le canzoni del mondo, proprio quella lagna di There’s a light that never goes out doveva cantare. Ma lo sapevano entrambi, quella notte, che Delilah davvero ci credeva: morire al suo fianco sarebbe stato un gran bel modo di morire.
«Te la ricordi la sorellina di Declan?» Chiese James d’un tratto.
Delilah annuì. Ricordava quella bimbetta bionda. Lo guardò. «Perché, scusa?»
«No, niente, è che mi è venuto in mente quella volta che siamo andati nel New Jersey e siamo passati a salutare la famiglia di Declan.»
Se lo ricordava anche lei il New Jersey. L’oceano d’autunno era ghiaccio liquido e ti bloccava fino i pensieri.
«Suzanne ci ha detto che secondo lei le stelle portavano da qualche parte. Un pensiero profondo per una cosina di sette anni, no? Voglio dire, l’intelligenza sarà andata solo a lei.»
Delilah rise. «Penso di sì.»
«Io non c’ho mai pensato a dove diamine portassero le stelle.»
Lei gli scompigliò i capelli scuri e si avvicinò di più a lui. Notò che aveva la barba di qualche giorno. «Io sì, guarda.» E indicò una stella a caso.
James seguì il suo dito e attese che continuasse.
«Seconda stella a destra», spiegò.
«E poi?»
«E poi dritti fino al mattino.»     
Non dissero più niente. Rimasero in silenzio ad ascoltare i rumori della notte, quando nessuno poteva vederli e giudicarli, quando tutti potevano tenere chiusi gli occhi ed essere ciò che volevano.
«E’ venuta una giornalista oggi, a proposito.» Fece lei.
«Una giornalista?»
«Mmm. Nessuno d’importante, comunque. Non pensare al Rolling Stone. Era una robetta in stile Seventeen, ma che non avevo mai sentito in vita mia. Ha rotto le palle, sai?»
«Che voleva?»
Delilah fece un smorfia. «Ma niente. Intervistare voi Reckoners e sapere cos’avete intenzione di fare ora. Ha detto che di solito dopo... be’, di solito dopo una band si scioglie.»
«Che carina.»
«A chiamarvi band? Sì, lo penso anch’io.»
Lui la guardò male.
«Su, Jimmy, non essere permaloso.»
«Cosa hai detto?»
«Su, Jimmy, non essere permaloso.»
«No, intendo, cos’hai detto alla giornalista
«Ah. Specifica, per Ginsberg.»
«Allora?»
«Ma niente. Che non volevate essere intervistati. Punto.»
«Questo?»
«Ma sì.»
«Dee?»
Non lo guardò più.
«Non ti credo.»
«Ma non credermi!» Sbottò lei infastidita.
«Cos’altro lei hai detto?»
«Ma nulla di particolare.» Sentendolo ridere le venne voglia di prenderlo a schiaffi. «Ok, ascolta, potrebbe anche essere che io in quel momento fossi incazzata perché mi avevate lasciata sola.»
«Ci hai insultati?»
«Sì.»
«Esattamente?»
«Bah. In pratica ho consigliato a questa tipa qui di non scriverlo, l’articolo. E non solo perché tu, Marcus e Declan siete degli idioti, ignoranti, egoisti e senza un minimo di spessore e/o sensibilità. Ma ci sarebbero state controversie sul titolo: La Fattoria degli Animali, ahimè, è già stato usato.»
James fischiò. «Ti prego, non continuare, mi sto commovendo per la tua grazia.»
Delilah mise i piedi sul muretto e poi, con una spinta, se ne tirò giù dimenticando il vuoto sotto di lei – il vuoto allo stomaco. «Io me ne vado a dormire, stronzo.»
Gli fece un cenno e gli voltò le spalle. Poi, proprio mentre stava per uscire da quell’enorme terrazzo sul tetto, James la bloccò. «Perché, tu riesci a dormire?»
 Ma sentendo che l’unica risposta che gli arrivava era il vento, capì che se ne era andata.
 
Era stato con Razor che James aveva ripreso a suonare la chitarra – la sua bella donna – su cui aveva inciso Nietzsche. L’aveva portata con sé a NY perché non se la sentiva di lasciarla in quella casa troppo grande fino per lui che si nascondeva nel verde del Connecticut.
Aveva conosciuto Razor e si era riconosciuto nell’unica vita che avrebbe voluto vivere. D’altronde, come gli aveva sempre detto lui, non c’era droga migliore che suonare. Salire su un palco che fuori è buio e dentro è pieno di luce – luce luce luce – e le persone non ti conoscono, ma poi ti capiscono, quando tu suoni, loro ti capiscono, loro ti sentono, loro ti toccano e tu tocchi loro in una comunione perfetta che magari puoi far fatica a ricordare, ma non potrai mai dimenticare.
Avevano girato stati e avevano conosciuto persone. Non ce n’era una che fosse entrata loro dentro, e non ce n’era nessuna che non li avesse segnati.
Delilah era un’eccezione. Non è che avesse fatto qualcosa per essere un’eccezione. Solo c’erano alcune persone che erano eccezioni, che non erano fatte a stampini, ma rompevano cerchi che si tramandavano. Delilah non era fatta a stampino, per quanto lei sostenesse di essere stata montata all’Ikea, e anche male, visto che le istruzioni erano in finlandese. Ma Delilah non era così, lo sapevano tutti. Perché lei aveva occhi scuri psichedelici e quando si era avvicinata per la prima volta a loro in quella sera piena di nebbia di San Francisco, Razor aveva pure ricordato che Robert Plant l’aveva cantato: Qualcuno me l’ha detto che qua fuori c’è una ragazza che ha l’amore negli occhi e i fiori tra i capelli. Razor l’aveva detto e non le aveva offerto da bere come a tutte le ragazze che incontravano dopo un concerto. Aveva detto che lì dentro c’era troppa luce – luce luce luce - e lui aveva bisogno di buio - quando tutti potevano tenere chiusi gli occhi ed essere ciò che volevano. Erano usciti insieme senza dare spiegazioni, senza conoscere i loro nomi, ma con quella voglia matta di fuggire insieme – insieme, uniti, due corpi sconosciuti che si conoscono e si imparano – e per due giorni Razor non era tornato nel Motel dove stavano. L’avevano chiamato, l’avevano cercato e Marcus aveva pure pianto. Razor per due giorni non era tornato.
Era tornato il terzo giorno.
Lei era con lui e lui era con lei e loro due erano insieme, a Razor questo piaceva sempre dirlo – lei è con me e io sono con lei e noi due siamo insieme. E quando gli avevano chiesto dove diamine fosse andato a finire per tutto quel tempo, lui aveva riso e aveva detto: «Hey, Dee, che cazzo di scusa inventiamo?»
«Ma che ne so. Di’ che siamo stati giù tra campi di fragole. Giù, giù, giù.»
Con loro – loro due insieme – era sempre così. Parlavano come se non ci fosse nessun altro.
Perché erano insieme. E tutto il resto del tempo non contava.
 
 
***
 
Sulla porta d’ingresso dell’appartamento di Razor c’era scritto: Umanità, mi stai sul cazzo. Delilah sorrise e le venne anche da piangere. L’aveva scritto Bukowski, l’aveva riportato Johnny.
Entrò. Declan e Marcus stavano guardando alcune vecchie repliche di Okay, il prezzo è giusto!.
Li fissò stralunata.
«Eccoti, Dee!» Fece Marcus quando si accorse di lei. «Proprio te stavamo aspettando.»
«Ci sei mancata», suggerì Declan.
«Le magliette ve le lavate da soli», tagliò corto lei.
«Nooo, ma sai che non ti chiederemmo mai niente di simile.» Quando Marcus faceva quegli occhioni lì non c’era mai da fidarsi. Aveva preso quel brutto vizio da Jimmy, ma Jimmy aveva gli occhi di un verde così profondo che c’era racchiuso tutto il sapore del New England. Marcus invece era uno che, a guardarlo, sapevi che stava nel border line. Nel senso che ti era impossibile capire se era un genio o un deficiente completo.
«Vogliamo semplicemente due birre», disse il deficiente completo.
«Oh, be’. Rieccoci al luogo comune del maschio cavernicolo che chiede alla femmina una birra.» Mentre urlava, sentì la serratura della porta scattare e intravide Jimmy rientrare a casa e guardarli divertiti.
«Be’, ma smettila anche tu, cazzo, con ‘sto luogo comune dei maschi imbecilli!»
Delilah lo guardò innocente. «Non ho detto niente, Marcus. Semplicemente, sto constatando che in questo momento ho almeno un esempio di deficienza maschile col quale sto comunicando.» E, prima che lui potesse alzarsi dal divano e placcarla, si rinchiuse nella camera di Johnny. 











salve, 'bbbelli!
non so se riuscirete a leggere questa nota - causa istinti omicidi nei vostri confronti per aver aperto la pagina e/o nei confronti dell'autrice (hahahah, che sarei io e non fa ridere nessuno, ma quanto sono simpatica ._.) per averla creata. ma comunque sia, ponendo caso che siate arrivati fino alla fine - seh - ci tenevo a dirvi una cosa.
non preoccupatevi.
non preoccupatevi se dopo aver letto non ci avrete capito assolutamente nulla o se vi verrà la tonsillite, cioè, è normale leggendo qualcosa di mio, non è colpa vostra, sul serio! l'unico rimedio sicuro per combattere questi morbi infernali è: chiudere la pagina; insultarmi. il tutto eseguito secondo questo preciso ordine v.v
comunque sia, io rimango speranzosa. ma ci dovrà pur essere un'anima pia che risponda a questo mio esaltante lavoro (?!)  con un 'wow' detto con tanto di occhi sbrilluccicosi (*-*)
no, eh?
no.
ok. babbe'. vedo di andare avanti con la scrittura di questa... ehm... storia che sicuramente amerete quanto un cactus infilato su per il deretano con amorevole grazia.
andate in pace.


p.s. una ina cosina finale. l'immagine. fa parte di wake, una raccolta creata dal filmmaker adam jeppesen, che vi consiglio vivamente di vedere.
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: emily colburn