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Autore: _Helene_    28/02/2011    2 recensioni
Gli strani episodi di Samantha Walker iniziarono quel fatidico giorno in cui uno strano preludio di note preannunciò la morte dei suoi genitori. Una curiosa melodia. Un insieme di strazianti violini seguiti a ruota da martellanti colpi di tamburo e strumenti ignoti dai toni cupi e gravi.
Per ben undici anni quello strano suono all'interno della sua testa cessò e la sua vita proseguì più o meno normale ma, ad aggravare la sua precaria condizione, arrivò la morte della donna che si prese cura di lei e il trasferimento in uno strano collegio religioso: la Hand Of God's House, che altro non è che una vera e propria scuola di magia. Nuove vicende si apriranno, nuovi intrecci avranno luogo tra le mura del vecchio castello e la melodia, accompagnata da terribili visioni, tornerà ad imperversare su di lei. Ma una cosa è certa: non sarà l'unica a celare un segreto. E Sam, dovrà far fronte ad un'agghiacciante verità che le è da sempre appartenuta.
«Credo di essere pazza. Anormale. Schizofrenica e bisognosa di cure. Non è normale. Vedere la morte. Così come non lo è udire la lacerante melodia che accompagna le persone al patibolo».
Genere: Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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        La morte è l’una o l’altra di due cose.
                   O è un annullamento e i morti non hanno coscienza di nulla;
                              o, come ci vien detto,
                                        è veramente un cambiamento,
                                                  una migrazione dell’anima da un luogo ad un altro.
 
                                  
- Socrate




**


Undici anni prima.





«Tesoro, sei strana oggi. C’è qualcosa che ti turba?», esclamò Joice con fare premuroso, levandosi dal viso una ciocca di quei boccoli dorati. A fronte corrucciata la fissai negli occhi, emettendo un lungo ed infastidito gemito, mentre a stento scossi debolmente il capo.
«Qualche compagno di scuola ti ha fatto un dispetto? Alla mamma puoi dire tutto, lo sai»,ma imperterrito, mi limitavo a fare “no” con la testa. Dopo il terzo tentativo di mia madre di farmi emettere una sola parola di sfogo, mi girai di lato, serrandomi le orecchie con i pugni ben saldi.
Non ne potevo più di quella musica, di quella straziante melodia che mi invasava le orecchie fino a sentirle scoppiare. Non capivo da dove filtrasse, lo stereo dell’auto era chiuso da un pezzo e non c’era nessun posto dalla quale potesse arrivare un simile suono. Era un insieme di violini, martellanti tamburi e flauti tenori gravi e solenni. Ogni tanto un intermezzo pianistico dai toni piuttosto cupi, faceva la sua apparizione, tempestando i miei timpani di quel preludio misterioso.
«D’accordo. Ora basta, vuoi che ci fermiamo per un po’? Dev’esserci un bar nelle vicinanze. Una cioccolata calda?», esclamò mio padre con fare rassicurante. Io, però, continuavo ad emettere quei fastidiosi lamenti che, di gran lunga, stavano facendo preoccupare i miei genitori seduti comodamente sui sedili anteriori della Volvo vecchio stile. Adoravo quell’automobile. Forse perché apparteneva al nonno e i sedili profumavano ancora della sua leggera acqua di colonia.
Inspirai a fondo, fermando una lacrima da nervosismo che pregava di poter intraprendere il suo naturale percorso attraverso una delle mie guance dagli zigomi scarlatti, tipici di un’allegra bambina di appena cinque anni.
«Sì, Harry. Deve avere il mal d’auto». 
Come avrei potuto spiegare ciò che stava succedendo all’interno della mia bolla d’aria?
Minuti più tardi, mio padre si fermò ad un malconcio autogrill, in attesa che mi passasse quel fantomatico mal d’auto che, secondo il loro parere, mi stava creando un grande disagio.
Era pieno inverno, ed eravamo diretti da alcuni dei parenti di mia madre nella cittadina di Burgess Hill per festeggiare il Natale, come eravamo soliti fare ogni anno. La nostra era una famiglia molto unita, quelle del tipo “va’ uno, vanno tutti”. E non sapevo fino a che punto potesse essere considerato un bene.
«Tieni», sussurrò mia madre, aprendosi in un largo sorriso rassicurante e porgendomi un gran bel bicchiere fumante della bevanda che più mi piaceva. Sarei stata capace di berne litri e litri anche durante la più calda delle estati: adoravo la cioccolata calda, specie guarnita di panna, con tanto di marshmallow bruciacchiato sulla profumata superficie cremosa.
Con mia grande sorpresa, rifiutai il tutto e strinsi la mano libera della donna, iniziando a lacrimare appena la melodia si fece più intensa e martellante del previsto. Avrei voluto strapparla con forza al di fuori della mia mente, perché ormai era ovvio provenisse da lì. Premeva contro la mia scatola cranica, riducendola simile a quella di un malato di emicrania al trecentesimo giorno della sua incessante agonia.
Joice si abbassò sulle ginocchia, carezzandomi lievemente una guancia rigata dalle lacrime.
«Devi dirmi cos’è successo», esclamò mio padre chiaramente irritato dal mio comportamento chiuso e impenetrabile.
«Shhhh, Harry, non alterarti. Troveremo una soluzione».
Neppure la voce calma e cristallina di mia madre si rivelò capace di calmare quell’immane frastuono che sbatteva sulle mie tempie da bambina nettamente inerme e succube della situazione.
«H-ho p-paura, m-amma»,dissi incespicando nelle mie stesse parole che uscirono a stento sottoforma di incapibile balbettio, «s-senti anche tu q-questa m-musica?».
«Musica?», intervenne mio padre. «Quale musica?».
Ad un tratto un fragore che mi fece balzare il cuore in gola, irruppe nella stanza. La melodia gradualmente aumentò a dismisura.
Appena i tizi incappucciati spararono due colpi d’arma da fuoco contro i miei genitori, l’insieme di note all’interno della mia testa cessò di esistere.
Avevo gli occhi coperti dai palmi delle mie manine minute e imbrattate di schizzi vermigli, non ricordo ciò accadde dopo, ma mio padre e mia padre erano stesi a terra in un lago di sangue rosso più delle mie guance. Quest’ultimo aveva gli occhi spalancati, ma assenti. In fronte un grosso buco grondava la sua linfa vitale. Joice invece, era stesa su di un fianco, immobile come una statua di gesso.
Immediatamente, alla vista di quella raccapricciante scena, mi serrai di nuovo gli occhi con le mani.
Alcune donne urlarono ma, per fortuna, quello stridio si rivelò più confortante del previsto. Credevo avessero colpito anche me.
Due mani grandi e possenti mi portarono fuori dal locale, mentre un’ambulanza dalla monotona sirena parcheggiava dinanzi ad esso. Dopo alcuni minuti gli infermieri e alcuni poliziotti uscirono. Alzavano con foga dei sacchi, dei sacchi neri, lunghi e dalla forma nettamente umana.
«Questa è la figlia delle vittime?», esclamò in tono grave un angente della polizia con tanto di uniforme e medaglie che, alla luce di un lampione apparivano sgargianti più che mai. Si era rivolto alla donna dietro di me, la stessa che mi aveva tratto, per così dire, in salvo da quella situazione.
«S-sì», singhiozzò, poi si portò una mano alle labbra, come per fermare quelle che ritenni essere delle semplici lacrime.
«Dovremmo portarla con noi», tuonò.
Sarei andata ovunque, ero molto piccola, non avevo realizzato ciò che era appena accaduto.
Scorsi alcune delle persone fuggire disperatamente verso le loro auto, poi ripartire in una folle corsa accelerando a più non posso.
«Come si chiama la bambina?», chiese alla stessa donna che aveva appena promesso di non seguirci. «Non lo so. Piccola… »mi si rivolse con occhi lucidi, «puoi dirci come ti chiami?».
Titubai per un attimo, poi balbettai: «S-sam».
«Samantha?».
Feci sì con la testa.
«Ho i documenti di Joice e Harry Walker, purtroppo sono…» la strana figura dai capelli lunghi e grigi lo zittì e il poliziotto fece un bizzarro gesto rammaricato, facendo volteggiare l’indice e il medio della sua grande mano sinistra.
Non capii nulla di quello che volesse dire.
«V-voglio la mamma»,riuscii ad esclamare con un fil di voce, mentre altri agenti mettevano in manette tre dei malviventi che, poco prima, avevano fatto irruzione nell’autogrill.
Tutto quello che ricevetti fu uno stentato sorriso non avente né capo né coda. Pensavo ad un assurdo gioco, forse nascondino, o guardie e ladri, dipende. Sta di fatto che mi ritrovai nuovamente ad ascoltare quella terribile melodia, pochi attimi prima che uno dei fuggiaschi sparò un colpo di pistola, colpendo alla tempia l’agente che mi teneva in braccio.
Si accasciò al suolo e la donna dal volto inorridito mi afferrò e mi infilò nella sua auto che ripartì ad un’immane velocità.
«Andrà tutto bene»,singhiozzò. «Non aver paura».




**


Ciao a tutti :* 
Ancora non si capisce molto la trama perchè questo capitolo è una sorta di prefazione, e non so neanch'io come mi è venuta l'ispirazione per questa nuova storia! :D
Beh, spero vi piaccia! 
A presto :) 

( Per quanto riguarda l'altra, "Phobia", posterò nuovamente i capitoli con le dovute correzioni e mi scuso con chi mi segue ma è un casino :S...)
   
 
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