Lunedì 24 Novembre
Non avevo voglia di tornare a casa.
Non avevo fame,
non volevo che mia madre mi costringesse a mangiare e, soprattutto, a
raccontarle che cosa fosse successo. Alla fine delle lezione le avevo telefonato
e le avevo spiegato brevemente che sarei rimasta fuori, quel pomeriggio, che non
era il caso che mi aspettasse. Non ne sembrava contenta, ma accettò e alla fine
smise di chiedermi se stavo bene.
Ero stanca, distrutta. Non avevo la forza
per piangere e non sapevo che cosa fare. In realtà, forse non avevo voglia di
fare niente. Se fosse dipeso da me mi sarei chiusa a chiave in camera e sarei
rimasta lì fino a che non fossi morta d'inedia. Ma una vocina, nel mio cervello,
diceva che non era quella la soluzione adatta. Dovevo reagire, trovare un hobby,
qualche amico.
Da quando avevo litigato con Ines e Francesca mi sentivo sola.
In un momento come quello, con l'immagine di Gabriele intento a baciare Elena
che mi rimbalzava nella mente, avrei avuto bisogno di loro. Ma non mi guardavano
neppure e io non avevo il coraggio di affrontarle.
Avevo bisogno di un
consiglio e non avevo amici con cui parlare. Per un po', riflettei mentre
camminavo, da sola, nei paraggi della scuola ormai deserta, avevo preso in seria
considerazione l'idea di parlare con Gioele. Ma avevo rinunciato subito. Credevo
che fosse troppo coinvolto, che avrebbe interpretato male il mio comportamento.
Era sbagliato cercarlo solo quando avevo bisogno d'aiuto.
Mi lasciai cadere
sugli scalini della chiesa davanti alla scuola e sistemai lo zaino a terra
accanto a me. Poggiai la testa alla porta dietro di me e chiusi gli occhi. Non
volevo pensare, eppure non riuscivo a non farlo. Facevo fatica anche a
respirare, mi sembrava di non capire più niente. Vedevo Gabriele che baciava
Elena, lo sentivo dire che tra loro c'era solo amicizia; poi l'immagine spariva
e comparivano i volti furiosi di quelle che ormai erano mie ex-amiche, che mi
gridavano d'averle trascurate, d'avere per la testa solo Gabriele, d'essere
egoista e di essere troppo insistente con le persone; vedevo Gioele, dietro di
loro, volteggiare come un'apparizione e dirmi che non sapeva come aiutarmi, che
non poteva parlare... Era un'allucinazione. Una tremenda, dolorosa
allucinazione.
E mi parve un'allucinazione anche la voce delicata e bassa, un
po' roca, che mi giunse alle orecchie.
«Carlotta?»
Aprii lentamente gli
occhi e sbattei un paio di volte le palpebre. Lo fissai per un p', inebetita,
fino a che non ripeté timidamente il mio nome.
«Carlotta?»
«Gio'?» lo
chiamai di rimando, giusto per essere sicura di non averlo solo
immaginato.
«Scusa.» sussurrò prima che potessi aggiungere altro. «Non avrei
dovuto seguirti.» Spostava il peso da un piede all'altro, a disagio, e fissava
la strada, ma dopo un po' sembrò prendere coraggio e mi si avvicinò. «Ho visto
che non stavi bene, a scuola. Ho pensato che... forse... avresti avuto bisogno
di un po' di compagnia. Ma se non vuoi...»
Non lo lasciai nemmeno finire la
frase e non rimasi a pensare nemmeno un secondo a quello che stavo facendo. Mi
alzai, mi avvicinai a lui in fretta e lo abbracciai. Sembrava che se lo
aspettasse, perché mi accolse, semplicemente, tra le braccia. Mi strinse a sé e
lasciò che poggiassi il volto nell'incavo del suo collo.
«Sto tanto male...»
singhiozzai contro la sua spalla. Strinsi la stoffa della sua giacca, sulla
schiena, e mi avvicinai ancora di più a lui. In quella giornata fredda, con il
dolore che sentivo dentro e che mi ghiacciava le vene, il suo corpo mingherlino
mi sembrava straordinariamente caldo. Avevo bisogno di quel contatto, avevo
bisogno di parlare con lui.
«Sono stata così stupida...» continuai con voce
rotta. «Avrei dovuto capire, avrei dovuto immaginare...»
«Non puoi dire
queste cose.» mormorò lui contro i miei capelli. Sembrava addolorato o forse,
nella mia disperazione, mi venne da pensare che anche lui stesse soffrendo. «Non
sei stata stupida. Non è con te stessa che devi prendertela.»
«Mi ha sempre
presa in giro.» ribattei tra un singhiozzo e l'altro. Non riuscivo a smettere di
piangere e più piangevo più lui mi stringeva a sé. E sentivo che mi faceva bene.
Ecco, quello di cui avevo bisogno era sempre stato lì, a disposizione, e io
l'avevo ignorato! Dentro di me avevo sempre immaginato, o forse solo sperato,
che sarebbe stato lui a consolarmi. Sapevo di avere bisogno di lui, l'avevo
capito dalla prima volta in cui ci eravamo parlati. Ed essere tra le sue
braccia, in quel momento, mi faceva stare meglio...
Ma rimase fermo solo un
paio di minuti. Mi allontanò delicatamente da sé, mi guardò negli occhi e io
capii che non era finita. C'era qualcos'altro che mi avrebbe dato il colpo
definitivo e forse non sarebbe bastata nemmeno la sua rassicurante presenza per
calmarmi. Vedevo i suoi occhi chiari, li vedevo umidi di lacrime e pieni di
vergogna e di dolore.
«Mi dispiace, Carlotta...» mormorò con la voce che si
incrinava. «Mi dispiace tanto...»
Mi stava implorando. Era in piedi di fronte
a me, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, teso, a soli pochi centimetri
di distanza, e mi stava confessando qualcosa che non riuscivo a capire.
«Cosa stai dicendo, Gio'?» sussurrai. Ma non volevo conoscere la risposta.
Non volevo sapere perché le sue mani tremassero, né perché sembrasse così
tormentato.
«Mi dispiace...» ripeté e la sua voce era un dolore lancinante
al petto, una tortura immensa. Perché avevo capito e il suo sguardo mi
confermava che avevo ragione.
«Lo sapevi?» gli domandai con un grido
strozzato. Mi avvicinai, lo afferrai per la giacca e gli impedii di abbassare lo
sguardo. Incontrai i suoi occhi e ripetei, a voce più alta:
«Lo sapevi,
Gio'?»
Ma ancora non rispose. Sembrava paralizzato. Sembrava essersi pentito
di essere lì, di essermi venuto a cercare. Vidi le lacrime che gli scendevano
lungo le guance, ma continuò a guardarmi e il suo sguardo non mutò. Era il
dolore, il pentimento. Li sentivo sul suo corpo rigido, li vedevo nel suo
volto.
«Lo sapevi?» dissi ancora. La mia voce era ormai un urlo e lui, alla
fine, cedette.
Annuì.
Lo lasciai andare come se fosse stato infuocato e
feci due passi all'indietro. Non potevo fare a meno di osservarlo, ma in realtà
volevo solo andarmene. Correre via, urlare, urlare ancora e prendermela con
qualcuno. Con Gabriele, che mi aveva presa in giro; con Ines e Francesca, che mi
avevano abbandonata; con Gioele, che sapeva e non mi aveva detto nulla.
Avrei voluto prenderlo per le spalle, sputargli in faccia, colpirlo, fargli
male. Volevo dargli un pugno e sentire il suo naso che si rompeva sotto alle mie
dita; colpirlo con un calcio e sentire che effetto faceva guardarlo mentre si
accasciava a terra davanti a me.
«Perché?» gli chiesi invece, a voce bassa.
Ero così stanca, così sfinita... Non m'importava. Che stesse zitto, che non mi
rispondesse! Che tenesse per sé le proprie giustificazioni... Cosa avevo da
guadagnarci? Che senso aveva conoscere le cause del suo comportamento quando
ormai era tutto finito? Gabriele me l'aveva detto, di non fidarmi di lui, mi
aveva avvertita... E se era vero che non potevo fidarmi nemmeno di Gabriele – e
mi faceva male pensare a lui, mi faceva davvero male -, era vero anche che
credevo che Gioele fosse l'unica persona su cui poter fare affidamento. E invece
non era così.
Un'immensa menzogna. Tutto qui. Ecco cosa era stata la nostra
amicizia. Lui sapeva e non mi aveva detto niente. Non avevo bisogno di altro per
capire che non era una persona come lui quella di cui avevo bisogno.
«Perché
sono un vigliacco.» rispose pacatamente lui, guardando a terra. «Avevo paura. Ce
l'ho ancora.» Sospirò. «Solo che questa volta fa più
male.»
Tacqui.
«Voglio spiegarti tutto.» mormorò con voce tremante. «Dopo,
dopo so che non... non vorrai più avere niente a che fare con me. È giusto...
Io... lo merito. Però...» mi guardò negli occhi. I suoi, pieni di lacrime.
«Però, tu hai diritto a delle risposte. Delle spiegazioni. Ti racconterò ogni
cosa. Tutto... tutto quello che è successo. Tra me e Gabriele. Forse... ti
aiuterà a capire.»
Non riuscii a fare nient'altro che annuire. Si diresse
verso una stradina laterale e io lo seguii. Ad aspettarci, lì, c'era suo padre.
Ci guardava dalla macchina, l'espressione seria. Non disse nulla quando salimmo
in macchina. Ignorò le lacrime di Gioele, silenziose. Non lo guardò nemmeno. Si
concentrò sulla strada e rimase in silenzio per tutto il viaggio. Ci volle quasi
un'ora per arrivare a casa di Gioele, e in quel lasso di tempo non riuscii a
trovare una spiegazione per ciò che stava succedendo. Guardavo Gioele piangere,
con la fronte poggiata al finestrino, e non riuscivo, per quanto mi sforzassi, a
odiarlo per quello che aveva fatto. Sapeva tutto, e aveva taciuto. Ma sembrava
così fragile, così debole, lì, accanto a me, pallido e tremante, che non
riuscivo a pensare a nulla, se non che mi avrebbe dato delle risposte e che,
forse, avrei compreso il suo comportamento.
Quando entrammo in casa suo padre
si allontanò da noi, portando con sé Nguyet, che giocava con delle bambole,
sdraiata a terra, e si chiuse in una stanza alla fine del corridoio che vedevo
dall'ingresso.
Gioele si voltò verso di me.
«D'accordo. Adesso ti spiego.»
mormorò alla fine guardando terra. Si torceva le mani e si mordeva il labbro
inferiore, ma gli occhi erano sbarrati. Eppure mi sembrava che non stesse
guardando nulla in particolare.
Mi fece cenno di seguirlo. Salimmo le scale
in silenzio, poi passammo per il corridoio del soppalco e infine aprì una delle
due porte dietro cui avevo visto sparire il resto della sua famiglia. C'era un
altro corridoio, più largo, privo di arredamenti, eccezion fatta per un lungo
tappeto scuro. Lo attraversammo e ci fermammo davanti all'ultima porta sulla
destra.
Gioele l'aprì e mi fece cenno di entrare.
Era una camera da
letto, la sua, immaginai. Era grande e luminosa, stranamente spoglia. Un
armadio, un letto, un comodino e una scrivania. E un gran vuoto al centro.
Scorsi un tappeto arrotolato abbandonato sotto a una finestra.
«Ci inciampavo
sempre.» sussurrò quando vide che il mi sguardo si fermava lì. Mi indicò il
letto e mi invitò a sedermi, poi si accomodò accanto a me.
«Comincerò
dall'inizio.» esordì con un sospiro. Incrociò le mani pallide in grembo e,
fissandosi le ginocchia, proseguì: «Come ti ho già detto, io e Gabriele eravamo
amici. Un giorno mi ha presentato una ragazza, la sua fidanzata di allora. Non
era un genio, in verità, ma... era simpatica. Ogni tanto mi chiamava per sentire
come stavo, era molto premurosa. Sembrava che le piacesse vedermi.» spiegò a
voce talmente bassa che faticai a sentirlo. Abbozzò un sorriso. «Se fosse vero,
non lo so. Ma mi piace pensarlo. Comunque, dopo qualche mese Gabriele è venuto
da me e ridendo mi ha detto che aveva un segreto da raccontarmi. Sono rimasto ad
ascoltarlo, e lui mi ha spiegato che ne aveva conosciuta un'altra. Ragazza,
intendo. Un'altra ragazza.» Mi guardò, colpevole. Quindi, alla fine, non era la
prima volta che Gabriele si comportava così. Ma c'era da aspettarselo, da uno
come lui. «Mi ha detto che aveva intenzione di uscirci, che avrei dovuto dargli
una mano per fare in modo che l'altra non lo scoprisse.» Inspirò profondamente,
come se quel racconto lo facesse soffrire. Gli sfiorai il gomito per
incoraggiarlo a parlare, senza avere il cuore di interromperlo. Non volevo
rendergli le cose più difficili di quanto non fossero già. Sapevo che era la mia
unica possibilità di scoprire quello che era successo. «Sono stato educato in
una famiglia in cui... Be', diciamo che questo genere di cose non sono
tollerate. E io credo che sia giusto.»
«Per questo avete litigato?» mi
azzardai a chiedergli.
Annuì.
«Sì. Diceva che non sono un buon amico, che
avrei dovuto capirlo. Che era legittimo. Che lui voleva solo... Sì, insomma, che
con quella ragazza nuova non c'era nulla, ma lui aveva bisogno di uno sfogo
diverso, per così dire, rispetto a quelli che gli offriva la sua
fidanzata.» Parlava a voce più alta, adesso. Sembrava aver acquistato un po' di
fiducia, nonostante sussurrasse ancora. Riuscivo, perlomeno, a
sentirlo.
«Insomma voleva solo andarci a letto.» tirai le somme io.
«Precisamente.» Scosse la testa e si passò una mano sul volto. «Io credevo –
lo credo ancora – che fosse sbagliato. E non volevo prendere parte a uno scempio
simile. Prendere in giro una ragazza innamorata di lui, solo perché non
soddisfaceva i suoi impulsi animali! E, allo stesso modo, sfruttarne un'altra
che invece ci stava. Non riuscivo a trovare una motivazione per aiutarlo.
Gliel'ho spiegato, si è infuriato. Ha minacciato di picchiarmi, di farmi trovare
da alcuni suoi amici.»
«L'ha fatto?»
«Sì.»
S'interruppe e per diversi
secondi rimase in silenzio. Mi diede l'impressione che volesse smettere di
parlare, perciò lo spronai:
«Tu che cos'hai fatto?»
«Ho minacciato di dire
tutto alla sua fidanzata.» Non mi lasciò continuare. Si strinse le ginocchia con
le mani fino a che le nocche diventarono bianche e continuò: «E l'ho fatto. Me
ne sono andato, perché ero a casa sua, e l'ho chiamata all'istante. Le ho detto
che dovevo parlarle, che era importante. Ci siamo incontrati.»
«Come l'ha
presa?» mormorai, ma dentro di me conoscevo già la risposta. Era così
ovvio...
«Adesso mi odia. In quel momento... Ha pianto. Mi ha colpito un paio
di volte, urlava che era colpa mia, cose così. Non ha più voluto né vedermi né
sentirmi. Non voleva che la chiamassi. Io l'avrei lasciata in pace, in realtà,
solo che... volevo... scusarmi. Volevo veramente scusarmi con lei, ma non me
l'ha mai permesso.»
Mi guardò, implorante, allungò una mano verso di me. Ma
non mi sfiorò neppure. La tenne sollevata accanto al mio braccio, poi la mosse
verso il basso, come in una carezza.
«Capisci perché non te ne ho parlato,
Carlotta?» gemette con voce vibrante. «Lo capisci? Io... Sono stato un
vigliacco!» Scattò in piedi, fece un paio di passi per allontanarsi dal letto e
si voltò a guardarmi. «Ho così tanta paura che ti stanchi di me... Anche tu...
Io... Io... non ho nessuno. Mi sento solo. E tu sei stata l'unica che...»
ansimò. La sua voce era inudibile. Poco più che un soffio, un sospiro. Sembrava
non ci stesse nemmeno mettendo suono. Era come sentir parlare il vento. «Non
volevo che succedesse di nuovo.»
Tornò a sedersi accanto a me, ma questa
volta più vicino. Mi sfiorò la mano e mi guardò negli occhi. I suoi erano
lucidi, carichi di emozione.
«Non odiarmi per questo, Carlotta, ti
imploro...» Abbassò la testa. Appariva esausto. «Ti imploro...»
E come avrei
potuto? Non sarei mai stata in grado di odiarlo... Lui, che aveva fatto così
tanto per me! Che c'era sempre stato. Anche quando l'avevo trattato male, quando
fingevo di essermi dimenticata di lui, quando non lo andavo mai a cercare ed era
lui che veniva da me. Non potevo credere che non avesse capito. Sapeva che avevo
bisogno di lui ed era sempre pronto, sempre al mio fianco. E io, in tutto
quello, ero stata cieca.
Gli misi una mano sulla schiena, lo tirai a me,
appoggiai la mia fronte alla sua.
«Non potrei mai, Gio'.» Lasciai che mi si
avvicinasse, che poggiasse il capo sulla mia spalla. Gli passai una mano tra i
capelli ricci. Erano morbidi, profumavano di shampoo. Lo cinsi anche con l'altra
mano, in un abbraccio. Era lì, tutto quello di cui avevo bisogno.
Tra le mie
braccia. E io ero tra le sue, perché mi aveva tirato a sé e con una mano giocava
con le punte dei miei capelli, con delicatezza.
Non volevo nient'altro.
Bastava così.
Ebbene, ecco qui il motivo della litigata tra
Gabriele e Gioele.
E Gioele che anche lui, comunque, del tutto innocente non
è. Però Carlotta l'ha perdonato, per il semplice motivo che non sarei stata in
grado di non farlo perdonare. Ma come si fa a odiare uno così? Me lo dite,
eh?
Comunque, i vostri commenti, sia positivi che negativi, mi farebbero molto piacere.
Baci,
rolly too