Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: rolly too    01/03/2011    5 recensioni
«Ehi!» lo chiamai ad alta voce, cercando di sovrastare il rumore della pioggia. La voce mi uscì più roca e vibrante di quanto avessi immaginato, ma non ci feci caso. Lui non rispose. Non si mosse, e non diede nessun segno di avermi sentito. «Ehi!» ripetei più forte, e solo allora si voltò verso di me. Una macchia di sangue scuro gli copriva la parte sinistra della fronte e il liquido scarlatto, unito alla pioggia, gli era colato sul volto e sulla maglietta inzuppata di acqua. Rabbrividii, mentre il cuore iniziava a rimbalzarmi in bocca e mi coglieva un fortissimo senso di nausea. Mi si offuscò per un attimo la vista, mentre il fischio nelle orecchie si faceva insopportabile. Che cosa avevo fatto?
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Lunedì 24 Novembre

Non avevo voglia di tornare a casa.
Non avevo fame, non volevo che mia madre mi costringesse a mangiare e, soprattutto, a raccontarle che cosa fosse successo. Alla fine delle lezione le avevo telefonato e le avevo spiegato brevemente che sarei rimasta fuori, quel pomeriggio, che non era il caso che mi aspettasse. Non ne sembrava contenta, ma accettò e alla fine smise di chiedermi se stavo bene.
Ero stanca, distrutta. Non avevo la forza per piangere e non sapevo che cosa fare. In realtà, forse non avevo voglia di fare niente. Se fosse dipeso da me mi sarei chiusa a chiave in camera e sarei rimasta lì fino a che non fossi morta d'inedia. Ma una vocina, nel mio cervello, diceva che non era quella la soluzione adatta. Dovevo reagire, trovare un hobby, qualche amico.
Da quando avevo litigato con Ines e Francesca mi sentivo sola. In un momento come quello, con l'immagine di Gabriele intento a baciare Elena che mi rimbalzava nella mente, avrei avuto bisogno di loro. Ma non mi guardavano neppure e io non avevo il coraggio di affrontarle.
Avevo bisogno di un consiglio e non avevo amici con cui parlare. Per un po', riflettei mentre camminavo, da sola, nei paraggi della scuola ormai deserta, avevo preso in seria considerazione l'idea di parlare con Gioele. Ma avevo rinunciato subito. Credevo che fosse troppo coinvolto, che avrebbe interpretato male il mio comportamento. Era sbagliato cercarlo solo quando avevo bisogno d'aiuto.
Mi lasciai cadere sugli scalini della chiesa davanti alla scuola e sistemai lo zaino a terra accanto a me. Poggiai la testa alla porta dietro di me e chiusi gli occhi. Non volevo pensare, eppure non riuscivo a non farlo. Facevo fatica anche a respirare, mi sembrava di non capire più niente. Vedevo Gabriele che baciava Elena, lo sentivo dire che tra loro c'era solo amicizia; poi l'immagine spariva e comparivano i volti furiosi di quelle che ormai erano mie ex-amiche, che mi gridavano d'averle trascurate, d'avere per la testa solo Gabriele, d'essere egoista e di essere troppo insistente con le persone; vedevo Gioele, dietro di loro, volteggiare come un'apparizione e dirmi che non sapeva come aiutarmi, che non poteva parlare... Era un'allucinazione. Una tremenda, dolorosa allucinazione.
E mi parve un'allucinazione anche la voce delicata e bassa, un po' roca, che mi giunse alle orecchie.
«Carlotta?»
Aprii lentamente gli occhi e sbattei un paio di volte le palpebre. Lo fissai per un p', inebetita, fino a che non ripeté timidamente il mio nome.
«Carlotta?»
«Gio'?» lo chiamai di rimando, giusto per essere sicura di non averlo solo immaginato.
«Scusa.» sussurrò prima che potessi aggiungere altro. «Non avrei dovuto seguirti.» Spostava il peso da un piede all'altro, a disagio, e fissava la strada, ma dopo un po' sembrò prendere coraggio e mi si avvicinò. «Ho visto che non stavi bene, a scuola. Ho pensato che... forse... avresti avuto bisogno di un po' di compagnia. Ma se non vuoi...»
Non lo lasciai nemmeno finire la frase e non rimasi a pensare nemmeno un secondo a quello che stavo facendo. Mi alzai, mi avvicinai a lui in fretta e lo abbracciai. Sembrava che se lo aspettasse, perché mi accolse, semplicemente, tra le braccia. Mi strinse a sé e lasciò che poggiassi il volto nell'incavo del suo collo.
«Sto tanto male...» singhiozzai contro la sua spalla. Strinsi la stoffa della sua giacca, sulla schiena, e mi avvicinai ancora di più a lui. In quella giornata fredda, con il dolore che sentivo dentro e che mi ghiacciava le vene, il suo corpo mingherlino mi sembrava straordinariamente caldo. Avevo bisogno di quel contatto, avevo bisogno di parlare con lui.
«Sono stata così stupida...» continuai con voce rotta. «Avrei dovuto capire, avrei dovuto immaginare...»
«Non puoi dire queste cose.» mormorò lui contro i miei capelli. Sembrava addolorato o forse, nella mia disperazione, mi venne da pensare che anche lui stesse soffrendo. «Non sei stata stupida. Non è con te stessa che devi prendertela.»
«Mi ha sempre presa in giro.» ribattei tra un singhiozzo e l'altro. Non riuscivo a smettere di piangere e più piangevo più lui mi stringeva a sé. E sentivo che mi faceva bene. Ecco, quello di cui avevo bisogno era sempre stato lì, a disposizione, e io l'avevo ignorato! Dentro di me avevo sempre immaginato, o forse solo sperato, che sarebbe stato lui a consolarmi. Sapevo di avere bisogno di lui, l'avevo capito dalla prima volta in cui ci eravamo parlati. Ed essere tra le sue braccia, in quel momento, mi faceva stare meglio...
Ma rimase fermo solo un paio di minuti. Mi allontanò delicatamente da sé, mi guardò negli occhi e io capii che non era finita. C'era qualcos'altro che mi avrebbe dato il colpo definitivo e forse non sarebbe bastata nemmeno la sua rassicurante presenza per calmarmi. Vedevo i suoi occhi chiari, li vedevo umidi di lacrime e pieni di vergogna e di dolore.
«Mi dispiace, Carlotta...» mormorò con la voce che si incrinava. «Mi dispiace tanto...»
Mi stava implorando. Era in piedi di fronte a me, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, teso, a soli pochi centimetri di distanza, e mi stava confessando qualcosa che non riuscivo a capire.
«Cosa stai dicendo, Gio'?» sussurrai. Ma non volevo conoscere la risposta. Non volevo sapere perché le sue mani tremassero, né perché sembrasse così tormentato.
«Mi dispiace...» ripeté e la sua voce era un dolore lancinante al petto, una tortura immensa. Perché avevo capito e il suo sguardo mi confermava che avevo ragione.
«Lo sapevi?» gli domandai con un grido strozzato. Mi avvicinai, lo afferrai per la giacca e gli impedii di abbassare lo sguardo. Incontrai i suoi occhi e ripetei, a voce più alta:
«Lo sapevi, Gio'?»
Ma ancora non rispose. Sembrava paralizzato. Sembrava essersi pentito di essere lì, di essermi venuto a cercare. Vidi le lacrime che gli scendevano lungo le guance, ma continuò a guardarmi e il suo sguardo non mutò. Era il dolore, il pentimento. Li sentivo sul suo corpo rigido, li vedevo nel suo volto.
«Lo sapevi?» dissi ancora. La mia voce era ormai un urlo e lui, alla fine, cedette.
Annuì.
Lo lasciai andare come se fosse stato infuocato e feci due passi all'indietro. Non potevo fare a meno di osservarlo, ma in realtà volevo solo andarmene. Correre via, urlare, urlare ancora e prendermela con qualcuno. Con Gabriele, che mi aveva presa in giro; con Ines e Francesca, che mi avevano abbandonata; con Gioele, che sapeva e non mi aveva detto nulla.
Avrei voluto prenderlo per le spalle, sputargli in faccia, colpirlo, fargli male. Volevo dargli un pugno e sentire il suo naso che si rompeva sotto alle mie dita; colpirlo con un calcio e sentire che effetto faceva guardarlo mentre si accasciava a terra davanti a me.
«Perché?» gli chiesi invece, a voce bassa. Ero così stanca, così sfinita... Non m'importava. Che stesse zitto, che non mi rispondesse! Che tenesse per sé le proprie giustificazioni... Cosa avevo da guadagnarci? Che senso aveva conoscere le cause del suo comportamento quando ormai era tutto finito? Gabriele me l'aveva detto, di non fidarmi di lui, mi aveva avvertita... E se era vero che non potevo fidarmi nemmeno di Gabriele – e mi faceva male pensare a lui, mi faceva davvero male -, era vero anche che credevo che Gioele fosse l'unica persona su cui poter fare affidamento. E invece non era così.
Un'immensa menzogna. Tutto qui. Ecco cosa era stata la nostra amicizia. Lui sapeva e non mi aveva detto niente. Non avevo bisogno di altro per capire che non era una persona come lui quella di cui avevo bisogno.
«Perché sono un vigliacco.» rispose pacatamente lui, guardando a terra. «Avevo paura. Ce l'ho ancora.» Sospirò. «Solo che questa volta fa più male.»
Tacqui.
«Voglio spiegarti tutto.» mormorò con voce tremante. «Dopo, dopo so che non... non vorrai più avere niente a che fare con me. È giusto... Io... lo merito. Però...» mi guardò negli occhi. I suoi, pieni di lacrime. «Però, tu hai diritto a delle risposte. Delle spiegazioni. Ti racconterò ogni cosa. Tutto... tutto quello che è successo. Tra me e Gabriele. Forse... ti aiuterà a capire.»
Non riuscii a fare nient'altro che annuire. Si diresse verso una stradina laterale e io lo seguii. Ad aspettarci, lì, c'era suo padre. Ci guardava dalla macchina, l'espressione seria. Non disse nulla quando salimmo in macchina. Ignorò le lacrime di Gioele, silenziose. Non lo guardò nemmeno. Si concentrò sulla strada e rimase in silenzio per tutto il viaggio. Ci volle quasi un'ora per arrivare a casa di Gioele, e in quel lasso di tempo non riuscii a trovare una spiegazione per ciò che stava succedendo. Guardavo Gioele piangere, con la fronte poggiata al finestrino, e non riuscivo, per quanto mi sforzassi, a odiarlo per quello che aveva fatto. Sapeva tutto, e aveva taciuto. Ma sembrava così fragile, così debole, lì, accanto a me, pallido e tremante, che non riuscivo a pensare a nulla, se non che mi avrebbe dato delle risposte e che, forse, avrei compreso il suo comportamento.
Quando entrammo in casa suo padre si allontanò da noi, portando con sé Nguyet, che giocava con delle bambole, sdraiata a terra, e si chiuse in una stanza alla fine del corridoio che vedevo dall'ingresso.
Gioele si voltò verso di me.
«D'accordo. Adesso ti spiego.» mormorò alla fine guardando terra. Si torceva le mani e si mordeva il labbro inferiore, ma gli occhi erano sbarrati. Eppure mi sembrava che non stesse guardando nulla in particolare.
Mi fece cenno di seguirlo. Salimmo le scale in silenzio, poi passammo per il corridoio del soppalco e infine aprì una delle due porte dietro cui avevo visto sparire il resto della sua famiglia. C'era un altro corridoio, più largo, privo di arredamenti, eccezion fatta per un lungo tappeto scuro. Lo attraversammo e ci fermammo davanti all'ultima porta sulla destra.
Gioele l'aprì e mi fece cenno di entrare.
Era una camera da letto, la sua, immaginai. Era grande e luminosa, stranamente spoglia. Un armadio, un letto, un comodino e una scrivania. E un gran vuoto al centro. Scorsi un tappeto arrotolato abbandonato sotto a una finestra.
«Ci inciampavo sempre.» sussurrò quando vide che il mi sguardo si fermava lì. Mi indicò il letto e mi invitò a sedermi, poi si accomodò accanto a me.
«Comincerò dall'inizio.» esordì con un sospiro. Incrociò le mani pallide in grembo e, fissandosi le ginocchia, proseguì: «Come ti ho già detto, io e Gabriele eravamo amici. Un giorno mi ha presentato una ragazza, la sua fidanzata di allora. Non era un genio, in verità, ma... era simpatica. Ogni tanto mi chiamava per sentire come stavo, era molto premurosa. Sembrava che le piacesse vedermi.» spiegò a voce talmente bassa che faticai a sentirlo. Abbozzò un sorriso. «Se fosse vero, non lo so. Ma mi piace pensarlo. Comunque, dopo qualche mese Gabriele è venuto da me e ridendo mi ha detto che aveva un segreto da raccontarmi. Sono rimasto ad ascoltarlo, e lui mi ha spiegato che ne aveva conosciuta un'altra. Ragazza, intendo. Un'altra ragazza.» Mi guardò, colpevole. Quindi, alla fine, non era la prima volta che Gabriele si comportava così. Ma c'era da aspettarselo, da uno come lui. «Mi ha detto che aveva intenzione di uscirci, che avrei dovuto dargli una mano per fare in modo che l'altra non lo scoprisse.» Inspirò profondamente, come se quel racconto lo facesse soffrire. Gli sfiorai il gomito per incoraggiarlo a parlare, senza avere il cuore di interromperlo. Non volevo rendergli le cose più difficili di quanto non fossero già. Sapevo che era la mia unica possibilità di scoprire quello che era successo. «Sono stato educato in una famiglia in cui... Be', diciamo che questo genere di cose non sono tollerate. E io credo che sia giusto.»
«Per questo avete litigato?» mi azzardai a chiedergli.
Annuì.
«Sì. Diceva che non sono un buon amico, che avrei dovuto capirlo. Che era legittimo. Che lui voleva solo... Sì, insomma, che con quella ragazza nuova non c'era nulla, ma lui aveva bisogno di uno sfogo diverso, per così dire, rispetto a quelli che gli offriva la sua fidanzata.» Parlava a voce più alta, adesso. Sembrava aver acquistato un po' di fiducia, nonostante sussurrasse ancora. Riuscivo, perlomeno, a sentirlo.
«Insomma voleva solo andarci a letto.» tirai le somme io.
«Precisamente.» Scosse la testa e si passò una mano sul volto. «Io credevo – lo credo ancora – che fosse sbagliato. E non volevo prendere parte a uno scempio simile. Prendere in giro una ragazza innamorata di lui, solo perché non soddisfaceva i suoi impulsi animali! E, allo stesso modo, sfruttarne un'altra che invece ci stava. Non riuscivo a trovare una motivazione per aiutarlo. Gliel'ho spiegato, si è infuriato. Ha minacciato di picchiarmi, di farmi trovare da alcuni suoi amici.»
«L'ha fatto?»
«Sì.»
S'interruppe e per diversi secondi rimase in silenzio. Mi diede l'impressione che volesse smettere di parlare, perciò lo spronai:
«Tu che cos'hai fatto?»
«Ho minacciato di dire tutto alla sua fidanzata.» Non mi lasciò continuare. Si strinse le ginocchia con le mani fino a che le nocche diventarono bianche e continuò: «E l'ho fatto. Me ne sono andato, perché ero a casa sua, e l'ho chiamata all'istante. Le ho detto che dovevo parlarle, che era importante. Ci siamo incontrati.»
«Come l'ha presa?» mormorai, ma dentro di me conoscevo già la risposta. Era così ovvio...
«Adesso mi odia. In quel momento... Ha pianto. Mi ha colpito un paio di volte, urlava che era colpa mia, cose così. Non ha più voluto né vedermi né sentirmi. Non voleva che la chiamassi. Io l'avrei lasciata in pace, in realtà, solo che... volevo... scusarmi. Volevo veramente scusarmi con lei, ma non me l'ha mai permesso.»
Mi guardò, implorante, allungò una mano verso di me. Ma non mi sfiorò neppure. La tenne sollevata accanto al mio braccio, poi la mosse verso il basso, come in una carezza.
«Capisci perché non te ne ho parlato, Carlotta?» gemette con voce vibrante. «Lo capisci? Io... Sono stato un vigliacco!» Scattò in piedi, fece un paio di passi per allontanarsi dal letto e si voltò a guardarmi. «Ho così tanta paura che ti stanchi di me... Anche tu... Io... Io... non ho nessuno. Mi sento solo. E tu sei stata l'unica che...» ansimò. La sua voce era inudibile. Poco più che un soffio, un sospiro. Sembrava non ci stesse nemmeno mettendo suono. Era come sentir parlare il vento. «Non volevo che succedesse di nuovo.»
Tornò a sedersi accanto a me, ma questa volta più vicino. Mi sfiorò la mano e mi guardò negli occhi. I suoi erano lucidi, carichi di emozione.
«Non odiarmi per questo, Carlotta, ti imploro...» Abbassò la testa. Appariva esausto. «Ti imploro...»
E come avrei potuto? Non sarei mai stata in grado di odiarlo... Lui, che aveva fatto così tanto per me! Che c'era sempre stato. Anche quando l'avevo trattato male, quando fingevo di essermi dimenticata di lui, quando non lo andavo mai a cercare ed era lui che veniva da me. Non potevo credere che non avesse capito. Sapeva che avevo bisogno di lui ed era sempre pronto, sempre al mio fianco. E io, in tutto quello, ero stata cieca.
Gli misi una mano sulla schiena, lo tirai a me, appoggiai la mia fronte alla sua.
«Non potrei mai, Gio'.» Lasciai che mi si avvicinasse, che poggiasse il capo sulla mia spalla. Gli passai una mano tra i capelli ricci. Erano morbidi, profumavano di shampoo. Lo cinsi anche con l'altra mano, in un abbraccio. Era lì, tutto quello di cui avevo bisogno.
Tra le mie braccia. E io ero tra le sue, perché mi aveva tirato a sé e con una mano giocava con le punte dei miei capelli, con delicatezza.
Non volevo nient'altro. Bastava così.

 

 

Ebbene, ecco qui il motivo della litigata tra Gabriele e Gioele.
E Gioele che anche lui, comunque, del tutto innocente non è. Però Carlotta l'ha perdonato, per il semplice motivo che non sarei stata in grado di non farlo perdonare. Ma come si fa a odiare uno così? Me lo dite, eh?

Comunque, i vostri commenti, sia positivi che negativi, mi farebbero molto piacere.

Baci,

rolly too

   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: rolly too