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Autore: crazyfred    03/03/2011    16 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
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When you crash in the clouds - capitolo 3


















Capitolo 3
You're not alone








Avevo perso il conto di quante vasche avevo fatto avanti ed indietro di fronte all’ingresso angusto del locale. Se ci fosse stata la security, se quella non fosse stata una bettola in un quartiere altamente malfamato, probabilmente a quest’ora sarei di fronte ad un poliziotto sospettoso e soprattutto scocciato a rispondere a domande assurde e perfettamente inutili.
Ma agli occhi dei rari passanti dovevo sembrare piuttosto un tossicodipendente in attesa del suo pusher, o di qualche altro disgraziato che uscisse dal locale per farci a botte e regolare chissà quale conto.
Non c’è spazio per le storie a lieto fine nel Bronx, al massimo ti puoi ritrovare senza una gamba dopo una sparatoria e dire che ti è andata bene; così mi era stato detto, se non altro.
Mi guardavo attorno attento, senza però dare l’impressione di essere estraneo ad un posto come quello. Nel frattempo s’erano fatte le 3 di notte ed avevo visto uscire tutti dal locale: dai vecchiacci bavosi, fino alla comitiva di cinesi allupati, che, completamente fatti, cantavano allegramente per strada un motivo che aveva tutta l’aria di essere particolarmente solenne e incredibilmente ridicolizzato.
Vidi uscire dal retro lo scimmione del locale, quello che per qualche miracolo aveva deciso di risparmiare dal pestaggio Aidan e la sua comitiva e pensai che non poteva mancare molto ormai all’uscita delle ragazze. Notai un muretto non molto alto poco distante dall’uscita posteriore del club, perfettamente di fronte dalla porticina di ferro da cui sarebbe dovuta uscire Mallory. Mi andai a sedere lì e l’aspettai. Finalmente, da sola e per ultima, vidi uscire anche lei.
La guardai attentamente e mi stupii da averla anche riconosciuta a primo colpo. Non aveva l’aria di una spogliarellista, né tantomeno di una squillo. Però una cosa non era cambiata: la fame. Se la portava dietro, come un’ombra, come quell’avvoltoio che vola, spiritato, attorno ad un’animale morente, come la iena bavosa e ridacchiante che già sente puzza di carcassa. I pantaloni, troppo larghi per quella sua vita da vespa, erano allacciati in vita da una vecchia cinta da uomo, probabilmente presa a qualche cliente come forma di pagamento o molto più probabilmente rubata. Indossava una maglietta slabbrata e sporca, con qualche buco sul collo, e si copriva dal freddo della notte autunnale newyorkese come meglio poteva, con un giubbotto vagamente militare che le arrivava alle ginocchia e le maniche, accorciate con almeno un paio di giri, le teneva ben strette tra le sue mani, come se fossero guanti.
L’uscita del locale era leggermente interrata rispetto al livello della strada, quindi  non ebbe modo di scorgermi e, sicuramente, altri pensieri affollavano la sua mente per ricordarsi di me, il primo cliente ad aver dato forfait davanti alle sue performance. “Ehi!” la chiamai, mentre si avviava nella strada buia, rimanendo ancora sul muretto “Ehi!”. Finalmente si girò e con un colpo di reni scesi dal muro e la raggiunsi. Lei dapprima sembrò non ricordarsi di me poi, puntandomi il dito contro “Tu … tu sei Tyler … giusto?” “In persona” le dissi sorridente, tendendole la mano “ e tu sei Mallory, o sbaglio?”. Speravo non si rabbuiasse come era accaduto nel club qualche ora prima, e mi mandasse via, ma probabilmente il malumore le era passato e, con aria un po’ divertita e un po’ frustrata mi rispose: “No … non sono Mallory … né Roxy, né Jennifer, né qualsiasi altro nome sentirai dentro quel locale …”
Come avevo intuito, era solo nomi fittizi, usati per recitare una parte o per non lasciare tracce di sé fuori da quell’ambiente.
Avrei voluto chiederle il suo vero nome, ma preferii non rischiare di commettere lo stesso errore due volte: doveva scoprire che poteva, anzi doveva fidarsi di me, che io l’avrei aiutata davvero, ma non stava a me darle dei tempi e forzare la mano.
Visto che non stava a me parlare, né lei sembrava interessata ad avere una conversazione con me, dopo un po’ che camminavamo insieme, silenziosi, come se nella strada mal illuminata lei nemmeno si fosse accorta della mia presenza, la piccola ragazzina che avevo di fianco prese a guardarmi con fare incuriosito, come se mi vedesse per la prima volta.
“Scusa, ma che vuoi da me?”. “Niente” risposi, abbozzando una risata divertita, pensando a quanto fosse assurda tutta quella situazione: ero nell’ultimo posto al mondo in cui avrei voluto ritrovarmi, solo, con una ragazza conosciuta in uno strip club solo poche ore prima, eppure senza avere il minimo timore che potesse accaderci alcunché di male, ma solo con l’obiettivo di starle accanto e proteggerla.
“Hai cambiato idea?” mi chiese, ma non capii a cosa si stesse riferendo. “Lavoro anche a casa però le regole rimangono le stesse del club” “Ancora!!!” esclamai, esasperato “voglio solo fare due chiacchiere con te, quelle per cui avevo pagato e non sono stato esaudito”. “Ma io ti ho ridato indietro i soldi” rispose, quasi dispiaciuta di aver perso quell’opportunità; così sfilai dalla tasca dei jeans i due bigliettoni da 50 che mi aveva tirato addosso prima e glieli misi fugacemente dentro la tasca, avvicinandomi leggermente a lei. Ovviamente la mia manovra non le sfuggì e vidi, alla luce fioca dei radi lampioni che costeggiavano le strada deserta, che non mancò di arrossire e sorridere alla buona sorte che, almeno per una volta, si era avvicinata anche a lei.
“Vieni” mi disse.
Entrammo in un discount aperto ad orario continuato, gestito da un indiano. La merce era ammassata disordinatamente e l’arredamento probabilmente non era stato né ammodernato né pulito dal giorno dell’apertura e le piastrelle recavano il segno di bevande gassate esplose sul pavimento e mai pulite. Con l’immancabile repertorio di musica etnica che il lettore cd stava riproducendo, mi chiesi se stando lì avrei avuto l’opportunità di assistere ad una rapina a mano armata in diretta, così cercai di ripetere mentalmente tutti i numeri d’emergenza di cui avremmo potuto avere bisogno. Con mio grande sollievo, constatai che li ricordavo tutti.
Mallory, o come cavolo si chiamava, passava svogliata tra gli scaffali e ogni volta che prendeva qualcosa, la rimetteva a posto quasi immediatamente, forse scoraggiata dal prezzo. Mantenendomi a debita distanza da lei, senza farmi notare, infilavo, in un cestino che avevo preso, tutto quello che lei stava scartando. Ovviamente non erano prodotti da Chez Maxime, ma era sempre meglio che rimanere a stomaco vuoto.
“Ma sei sicura che questa roba sia commestibile? … le scadenze si possono truccare, lo sapevi questo?”
Rise; probabilmente avevo la classica faccia da figlio di papà che mette il naso in terza classe, leggermente schifato, ma incuriosito, da creature strane come quando si visita per la prima volta allo zoo.
“Ti faccio ridere, eh?” le domandai, ma lei mi ignorò e si avviò verso il cassiere mezzo addormentato con un pacchetto di patatine e una bottiglia di coca.
Li intravidi parlottare un po’, mentre cercavo di interpretare cosa ci fosse dentro un barattolo di latta dalle scritte in arabo, che era persino sprovvisto di immagini.
“Senti … non puoi aspettare la prossima? Oggi non posso proprio, i soldi mi servono per pagare l’affitto!!!” “Basta! Sono due mesi che metto in conto! Ora mi paghi sennò ti mando la polizia”
Mi avvicinai intuendo che la situazione stava prendendo una brutta piega, e vidi che, quasi in lacrime, Mallory supplicava il commerciante di non chiamare la polizia e di concederle una proroga del conto che aveva aperto in quel negozio. Avere a che fare con gli sbirri avrebbe significato per lei finire in galera, oppure dover fuggire e darsi alla macchia; non per un stupido conto da un droghiere immigrato, ma perché sarebbero entrati nella sua vita, una vita a tutti gli effetti criminale. Probabilmente quella del commerciante era solo una minaccia, magari anche lui non era perfettamente in regola, ma tanto era bastato a mandarla nel panico. Picchiai sul bancone della cassa il piccolo cestito in ferro, in modo da fare rumore di proposito e attirare l’attenzione su di me. Mentre l’uomo batteva sulla cassa il prezzo dei prodotti Mallory li squadrava uno per uno e lasciava che il suo sguardo vagasse da me alla spesa, dalla spesa a me. Non impiegò molto a capire che avevo raccolto tutto quello che lei aveva lasciato ed incredula mi fissava, inebetita. Lasciai che le mie labbra le concedessero un sorriso. Non potevo sapere quale significato avesse per lei, ma tentai di trasmetterle tutta la fiducia che potevo infonderle. Volevo che si fidasse di me, lo volevo con tutto il cuore.
“Perché lo hai fatto?” mi chiese, una volta fuori dal negozio, mentre con la busta della spesa colma, la seguivo ancora per le strade del Bronx “perché hai pagato la mia spesa e hai persino saldato il mio conto?”  
“Perché mi andava di farlo … e perché ho fame, e voglio mangiare qualcosa anch’io quando arriviamo a casa tua.”
Si lasciò andare ad una fragorosa risata e iniziò a camminare all’indietro, per guardarmi bene in faccia mentre si rivolgeva a me “Allora vedi che vuoi venire a letto con me?” “Non voglio venire a letto con te! Cosa te lo fa pensare?” “Hai pagato la mia spesa” “Ma non ho pagato te!” obiettai, rispondendole per le rime. “Non paghi me perché la tua coscienza te lo impedisce … così hai meno rimorsi … sei cattolico per caso?”
Era molto intelligente, ed il suo umorismo cinico denotava non solo un vissuto troppo pieno per una ragazza evidentemente più giovane di me, ma anche un’educazione discreta, interrotta però sul più bello da qualcosa … o da qualcuno.
“Eccoci, siamo arrivati” mi disse, entrando in uno spiazzo. L’edificio sembrava essere un vecchio motel, infatti su un lato della costruzione campava ancora un’insegna sgangherata, e i due piani dello stabile – una serie di stanze che avevano come ingresso comune un lungo balcone che dava sul cortile - davano l’idea di poter cadere da un momento all’altro. Mallory mi spiegò che il condominio apparteneva al suo datore di lavoro, un certo Joe, che affittava alle sue colleghe e ad immigrati, completamente in nero, e il prezzo andava a sua discrezione. Qualcuna delle sue colleghe nemmeno lo pagava l’affitto, né le bollette, ma in cambio dovevano fornire prestazioni sessuali o girare filmini porno.
“Pensa di farmi paura con queste minacce di sfratto” continuò a sfogarsi, mentre gettava nel cortile l’ennesimo, a quanto pareva, cartello d’affitto “come se a qualcuno interessasse questa topaia. Preferisco rimanere con il culo per terra che darla a quel puttaniere. Io ho i miei diritti cazzo!”. Sembrava strano detto da lei, eppure era terribilmente giusto quello che diceva. Doveva esserci una distinzione ben precisa tra il lavoro e la vita fuori dal locale, anche se probabilmente fuori da quel posto non ci fosse un granché, ma sicuramente le garantiva ancora un minimo di sanità mentale.
Entrando in casa, ci accorgemmo che mancava la luce. “Di nuovo … vaffanculo!” imprecò, accendendo una candela che aveva sul davanzale della finestra accanto all’ingresso. “Che c’è?” le domandai “non hai pagato le bollette?”
“No” rispose, avvilita “ … è quello stronzo! Pensa che così mi decido a fare quello che gli dice la sua testa vuota, anzi suoi coglioni, visto che è con quelli che ragiona, ma non ha capito con chi ha a che fare … se ha bisogno di qualcuno per indurire il suo pisello moscio paghi una prostituta … io non sono una puttana!!!”
“Ah no?!” le chiesi. Mi pentii immediatamente di quello che le dissi, ma venne così spontaneo che non riuscii a trattenermi. Eppure lei non sembrò prendersela più di tanto, probabilmente era abituata a certe gaffes, o forse molto più semplicemente era abituata a sentirsi offendere così ogni giorno.
“Perdonami, io …” “No, tranquillo, hai ragione … so benissimo come vengono chiamate quelle come me … ma quello che intendevo io era un’altra cosa” “Sì certo …” le risposi, come se potessi capirla. In realtà non ci riuscivo per niente. Faceva la prostituta a tutti gli effetti nel privé di quel club, e anche fuori, ma faceva la schizzinosa se qualcuno le offriva di pagare in natura anziché in contanti. Non che dovesse piegarsi ai ricatti di quel porco, ma mi sembravano assurdi quei moralismi.
Nel frattempo, i miei occhi si erano ormai abituati a quella penombra e Mallory aveva acceso candele qua e là e finalmente l’appartamento iniziava a prendere forma. Non mi aspettavo un loft extralusso, ma casa mia in confronto era un hotel a cinque stelle. In quello stanzone c’erano praticamente mobili, al di là di un divano letto, un comò; la cucina economica anni ‘60 ed un piccolo frigo alla parete destra mi ricordavano molto la piccola baita di montagna dove andavamo a campeggiare con la colonia estiva io e mio fratello da bambini. Il bagno era in fondo alla stanza, ma non osai nemmeno affacciarmi, considerato l’odore nauseante che arrivava da quel vano buio.
Preparammo dei sandwich e li mangiammo sul letto scricchiolante, sporco e scomodo, con le spirali della rete che si conficcavano praticamente dappertutto; se non fossi stato attento avrei anche potuto finire sodomizzato da una di quelle molle.
“Comunque io sono Allison, Allison Eugenia Riley” mi disse, nel bel mezzo del nostro spuntino, mentre le raccontavo di come ero andato a sbattere nel suo locale. Evidentemente aveva deciso che poteva fidarsi di me, e non potevo esserne che felice.
“Ed io sono Tyler Hawkins, piacere di conoscerti Allison!” le risposi, divertito e compiaciuto per aver raggiunto quel piccolo traguardo.
“Hawkins? Sei imparentato con Charles Hawkins per caso?”
“Sì. È … è mio padre. O mio Dio! Non mi dire che lui …”
“No! Tranquillo …” sorrise, mentre io mi rilassavo. Ero già pronto ad andare a spaccargli la faccia. Lo ritenevo un uomo squallido, ma non fino a quel punto. “Lo conosco solo di nome. Mio padre lavorava nella filiale della sua società ad Indianapolis ...” interruppe le sua spiegazione, rendendosi conto che forse aveva parlato troppo, o forse ciò che mi stava raccontando non era piacevole per lei. E comunque quant’era piccolo il mondo.
“Ed ora non lavora più per lui?” chiesi, curioso. Ma evidentemente stavo toccando una nota troppo dolente, perché non era più così tranquilla mentre parlava “ … i miei si sono trasferiti in un’altra … ehm, città, sì … due anni fa … e diciamo che … non mi andava di seguirli …” “E non avevi nessun’altro con cui stare?”
Non mi rispose. Il silenzio prolungato era il segnale che mi ero spinto troppo in là, così non mi intromisi oltre. Si alzò, e dallo zaino che aveva buttato per terra e che portava con sé dal lavoro tirò fuori una scatolina di latta. Aprendola venne fuori il profumo tipico dell’erba e vidi che effettivamente aveva acceso una delle canne che aveva già rollato. “Vuoi un po’?” mi disse. Era tanto che non me ne fumavo una, dai primi mesi dopo la morte di mio fratello, ma qualche tiro per allentare la tensione che mi portavo dentro a forza di mantenere a bada i miei ormoni, non mi avrebbe fatto male. Ci allungammo sul letto e, ridendo, lasciammo che la marijuana facesse il suo effetto.
Leggermente storditi dallo spinello restammo allungati su quel letto a fissarci, con le teste sepolte tra i cuscini. Lei continuava a fissarmi, mentre era allungata a pancia in giù, con quel bel panettone che si portava dietro in bella mostra, grazie al perizoma praticamente ridotto ad un filo e alla magliettina che usava per dormire che non arrivava a coprirle il fondoschiena. Per fortuna ero anch’io a pancia a terra, così potevo nasconderle il mio inconveniente senza che ricominciasse di nuovo con la storia del sesso. Cercai di convogliare la mia attenzione ai suoi occhi che mi scrutavano attenti, alla ricerca di qualcosa.
“Io non capisco …” disse ad un certo punto, stizzita, rigirandosi nel letto e facendo cigolare tutto “com’è che non hai voglia di fare sesso con me?”. Come rigirare il coltello nella piaga … decisi, masochisticamente, di mettermi alla prova e di farle capire una volta per tutte che non era per quello che ero rimasto con lei.
Mi voltai anch’io, mettendomi supino, e mostrando il rigonfiamento un evidente nonché imbarazzante tra i pantaloni. Di solito non mi creava problemi, era motivo di scherzo con gli amici e di vanto con le donne, ma non davanti a lei.
“Secondo te?” le chiesi.
“E allora? Vuoi provare” incalzò lei, convinta di avermi piegato. “No, grazie” risposi laconico. Poteva dirmi quello che le pareva, ormai avevo preso la mia decisione, anche se dolorosa. Il che mi fece pensare che un filmino per adulti non ci sarebbe stato male l’indomani …
“Guarda che sono brava!” insistette, portandosi in ginocchio sul letto, mentre io rimanevo ancora steso. “Non lo metto in dubbio …” risposi, alquanto impacciato, distogliendo lo sguardo. Dio! Mi sembravo un ragazzino poco più che adolescente alle prese con le sue prime turbe ormonali. “E allora qual è il problema? Non mi sembra che non ti piaccio …” ironizzò, accennando al mio pacco; eppure per attimo mi fece tenerezza: sembrava una bambina, di quelle che fanno i capricci perché la mamma non compra loro il giocattolo che volevano.
Allora balzai e, gentilmente, la presi portandola sotto di me. I nostri corpi non si erano avvicinati così tanto prima, e per un attimo fui costretto ad impormi di respirare, se la mia intenzione era ancora quella di mantenere un certo contegno. Poggiai le braccia con i gomiti sul materasso, ai lati del suo bel viso. A vederla bene da vicino aveva degli occhi bellissimi, nonostante il trucco sbavato; non potevo distinguerli al buio, anche la luna aveva paura ad affacciarsi da quelle parti, ma erano grandi e brillavano, colmi di vita, passione e speranza. Era una ragazza forte, la conoscevo da poco, ma nonostante l’avessi vista affrontare la vita vera, quella tosta e bastarda, non era uscita una lacrima dai quei suoi bellissimi occhi.
Le tirai via qualche ciocca di capelli e, lievemente, carezzai la sua guancia.
“Sei bellissima …” le sussurrai “… ma non voglio essere come gli altri”.
Percepii il suo corpo fremere sotto di me, mentre le dedicavo delle attenzioni che meritava, per la sua forza, per il suo coraggio, ma che mai aveva potuto chiedere, e mai nessuno le aveva concesso.
Avrei combattuto perché tornasse ad essere viva e libera, perché lo meritava.
“Ora dormiamo” le dissi, mentre mi risistemavo al mio posto, dandole le spalle “buonanotte!”
La sentii muoversi nel letto e capii che si stava avvicinando. Si strinse a me con un braccio e presi la mano che mi aveva teso, come se stesse chiedendo aiuto. Sono qui Allison, sono qui.
Accucciò il suo viso sulla mia schiena e riuscivo ad immaginarla mentre si rannicchiava contro di me. “Buonanotte Tyler” mi sussurrò “ … e grazie”.
























NOTE FINALI

Come avrete notato alcuni dettagli di Welcome to the Rileys li ho cambiati in modo da poter avere tutti i personaggi del film presenti anche in questa storia. Nella vita, come del resto in questa storia, le cose non vanno sempre come dovrebbero, come vorremmo; anzi il più delle volte il bicchiere è mezzo vuoto. Ed è per questo motivo che Mallory, o meglio Allison, ha voluto dare a se stessa, più che a Tyler, questa opportunità.
Ma, come già detto, le cose non sempre vanno nella maniera in cui desideriamo.

à bientot

Federica

   
 
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