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Autore: Alessia Heartilly    03/03/2011    0 recensioni
Era così debole, lei, che l'amore la squarciava.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LOVEBIRD

Crescere con una persona per anni, condividere gioie, dolori, speranze, sogni e fallimenti e delusioni, sposarsi, avere un figlio e dividere la propria attenzione tra l'amore ingombrante, soffocante, liberatorio e luminoso per il proprio marito e quello dolce, tenero, tranquillo per il proprio bambino. Vivere per quando lui tornava a casa, e la sua voce risuonava tra le stanze riempiendole, perché quel nido sembrava così vuoto quando lui era via; ed era bellissimo chiamare nido il posto in cui vivevano perché dava un'idea di intimità che casa non conteneva, per lei. Dava un'idea di cura, di affetto, di qualcosa di costruito poco a poco, con le proprie mani, cementato con la propria unione. Che si sorreggeva sull'amore.

Poi un giorno lui uscì, per allenarsi. Lui si divideva tra il suo amore per lei, un amore quasi protettivo di una persona forte che si prendeva cura di una persona debole, quello per il blitzball, di cui era la star celebrata in tutta Zanarkand, e quello goffo per il loro bambino. A volte lo guardava guardarlo, e si chiedeva che cosa davvero Jecht provasse per Tidus: se fosse un affetto paterno che non era in grado di esprimere, se fosse l'imbarazzo di dimostrarsi orgoglioso di un esserino tanto piccolo, o se fosse la volontà di vedere se stesso rappresentato nel loro bambino. Lei stava in disparte, come sempre: d'altra parte era così che aveva immaginato la sua famiglia. Il bimbo nel letto, il marito nella stanza che lo rassicurava che non c'erano mostri nell'armadio e che non c'era da aver paura del buio, e lei che li osservava dalla porta.

In fin dei conti lei era una persona troppo debole per rassicurare chiunque, e se lei stessa aveva, a volte, paura del buio, della solitudine, delle ombre che diventavano mostri, come poteva far credere al proprio bambino che non c'era proprio nulla da temere?

A volte pensava che Jecht più che da marito si comportasse da padre, nei suoi confronti. Che a volte i suoi abbracci protettivi sembravano dati a una bimba e non a una donna, e che a volte le sue confidenze fossero in realtà i racconti fantastici di un uomo che voleva essere il suo eroe. Com'era ingenuo, Jecht, a pensare di dover fare qualcosa di particolare per farsi amare da lei. Lei provava un amore così totalizzante e adorante, per lui, che a volte se ne sentiva annientata e la mancanza della sua vicinanza fisica pareva lacerarla. La gettava in una tensione che si scioglieva solo quando la porta si riapriva e lui entrava e a lei si allargava il cuore, e le pareva di dimenticare che esisteva anche un bambino in quella casa. Jecht era l'amore della sua vita e lei si buttava a capofitto in quel sentimento così intenso, quasi spasmodico, quasi delirante.

Un giorno lui uscì per allenarsi, per un altro degli amori di cui a tratti si sentiva gelosa. Si avvicinava la partita più importante della stagione e per quanto lei avesse cercato di stargli vicino e rassicurarlo che tutto sarebbe andato bene, qualcosa gettava un'ombra scura sulle confidenze di suo marito. Lui beveva. Non riusciva a trovare un lavoro che giudicasse all'altezza delle sue capacità, e beveva per nascondere il fallimento, inventando storie di eroismo e dignità e orgoglio che poi le raccontava. E lei gli credeva, perché lui era Jecht, suo marito, l'amore della sua vita, il suo tutto e non avrebbe mai potuto mentirle. Vedeva solo vagamente ciò che lo angustiava; comprendeva a malapena perché l'invecchiare e il dover smettere con il blitzball lo gettasse in quella specie di malinconia. Pensava che fosse un gioco, che aveva procurato loro una casa, una famiglia, e che permetteva di andare avanti; ma nulla più di quello. Non poteva pensare che per lui il blitzball fosse sopra ad ogni altra cosa, perché se per lei lui veniva prima della sua stessa vita, in qualche modo doveva essere così anche per lui, no?

Anche se lei era una persona debole, infinitamente dipendente e così maldestra, lui l'aveva scelta e questo doveva significare qualcosa. E il suo amore infinito, lacerante e tranquillizzante non le permetteva di pensare che qualcosa, per lui, fosse più importante di lei e della sua devozione.

Era strano, a ripensarci, come avesse trascorso quella giornata come tutte le altre. Lui era uscito presto, e lei aveva lavato e vestito il loro bambino, lo aveva portato agli allenamenti delle squadre giovanili, aveva pulito la casa, girato per Zanarkand, raccolto i complimenti di tutti coloro che adoravano suo marito come il dio del pallone. E poi era tornata a prendere suo figlio, era tornata a casa, e aveva trascorso il resto del tempo cercando di leggere, nell'attesa che lui tornasse. Nulla di diverso dal solito. Che strano, per una giornata che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.

Quando suonò il campanello, andò ad aprire convinta che Jecht avesse dimenticato le chiavi. Si trovò davanti degli sconosciuti con quelle facce addolorate di circostanza, che la informavano che suo marito era andato al largo e non era più tornato. Non volle crederci, all'inizio. Lui era troppo allenato per annegare, riusciva a stare per svariati minuti sott'acqua, durante le partite, e il mare di Zanarkand era sempre così calmo che non poteva averlo colto di sorpresa. Non c'era un naufragio da tempi immemorabili, e suo marito semplicemente non poteva essere svanito nel nulla, così. Sarebbe tornato, prima o poi; lei lo sapeva.

Seguì gli sconosciuti per tutte quelle cose burocratiche di cui non sapeva nulla perché era sempre stato Jecht a occuparsi di tutto. E poi le parve che le giornate fossero interminabili, e che ad ogni minuto le si presentasse davanti alla faccia la verità: lui non sarebbe tornato, il mare pareva averlo inghiottito e il suo re, colui che dominava l'acqua, sembrava essere annegato lontano da lei. Era struggente pensare che non l'avrebbe più visto, era lacerante pensare che lui se n'era andato salutandola con la stessa convinzione di tornare di sempre, era spaventoso pensare alla vita buia di solitudine che l'aspettava. Portava il suo bambino con sé, al molo, osservava le ricerche e si sentiva mancare ad ogni uomo che scuoteva la testa e le posava una mano nella spalla convinto che prima o poi lei se ne sarebbe fatta una ragione. Le sembrava di impazzire, aveva la testa inondata di ricordi e credeva di poterlo vedere ovunque. Ma Jecht non c'era, Jecht non c'era più e lei si sentiva così distrutta, così annientata, che le pareva inutile vivere.

E poi c'era Tidus. Che la seguiva di malavoglia, che le tirava la manica perché si voltasse a guardarlo; ma lei aveva gli occhi fissi sul mare, alla ricerca di un qualsiasi appiglio che potesse farle credere che Jecht sarebbe tornato. E c'era il dolore indicibile di suo figlio che la guardava e le diceva che lui era felice che Jecht non tornasse, perché lui suo padre lo odiava.

Ed era così lacerante quella sensazione, che non sapeva affrontarla in modi sani e si chinava a guardare suo figlio per dirgli che doveva sperare che Jecht tornasse, perché lui doveva dirglielo che lo odiava. Ed era tremendo perché per lei era inconcepibile odiare l'uomo a cui aveva dedicato la sua vita intera e a cui doveva la vita di quel bambino. Non aveva il tempo di pensare, non aveva il tempo di rendersi conto della portata incredibile dell'emozione di suo figlio; le bastava trasformarla in qualcosa che sorreggesse anche lei in quella speranza continua del ritorno di Jecht. Era così totalmente occupata dalla sua lucida follia che quando gli estranei posero fine alle ricerche con le condoglianze di circostanza e l'espressione addolorata sul viso, lei continuò ad andare al molo, convinta che se davvero Jecht era annegato prima o poi il mare, che lui adorava, l'avrebbe restituito al suo amore.

Tutto divenne sempre più labile, sempre più sfocato. Il cibo le sembrò nauseante, il sonno impossibile. La sua vita si divideva tra la crudeltà del mare e la freddezza della sua casa, dove suo figlio piangeva a voce alta perché lei era sempre lontana. La manteneva in vita solo la convinzione che doveva prendersi cura del corpo di Jecht, quando il mare si sarebbe impietosito, e che poi avrebbe potuto lasciarsi andare al dolore che le chiudeva il petto, lo stomaco, il cuore in una morsa gelida e atroce. Non pianse una lacrima, in quei giorni, perfettamente lucida e insieme perfettamente folle: la routine meccanica della sua vita divenne parte di lei, e scomparve tutto quello che non significava Jecht. Iniziò a covare un rancore sordo per suo figlio, perché le sembrava che il suo odio le tenesse lontano l'amore della sua vita. E insieme si sentiva lacerata dalla colpa per quei pensieri: ricordava l'orgoglio con cui Jecht, steso accanto a lei, nel letto, le raccontava nel buio dei progressi di Tidus. Ricordava la sua voce che si faceva morbida, le sue braccia che si allungavano a stringerla un po' perché era stata lei a regalargli quel figlio, ricordava che tutte le sere lui aveva un pensiero per il loro bambino e si rammaricava di quella paura e di quella fragilità che li metteva in competizione.

Ricordava che secondo Jecht, lei avrebbe dovuto stargli vicino di più. Ricordava che lui le diceva sempre di andare a vedere cosa avesse, che tanto loro avrebbero parlato dopo. Ricordava che la sua personalità, il suo carisma, la sua solarità si attenuavano, quando entrava in casa, e cercava di non adombrare troppo il loro bambino. Tidus piangeva spesso. Cercava di attirare la sua attenzione mettendosi in competizione con Jecht e non accettava i fallimenti. E suo padre cercava di spronarlo in qualche modo, per fargli superare quella convinzione di essere sempre troppo poco, di non essere mai all'altezza. Jecht era goffo, quando si trattava di amore. Non sapeva dirlo. Non sapeva parlarne. Lo metteva in imbarazzo l'essersi innamorato di lei, lo metteva in imbarazzo volere bene al loro bambino.

Jecht era goffo quando si trattava di amore, e Tidus aveva sempre pensato che suo padre torreggiasse su di lui con troppa forza, con troppa potenza, e che sprigionasse troppe cose da sopportare. Troppe abilità, troppe capacità, troppa adorazione da parte degli altri. Tutte quelle cose che all'inizio avevano schiacciato anche lei, e l'avevano fatta sentire indegna d'essere scelta da lui. Ma lei sapeva che tra quelle cose c'era amore; Tidus no.

Eppure ogni volta che suo figlio ribadiva il suo odio per suo padre, lei si sentiva tremare. Aveva paura della violenza del suo furore e la colpa che le pungeva il petto, poi, era distruttiva. Si sentiva mangiare l'anima da quei sentimenti contrastanti e non credeva di poter resistere ancora a lungo. Cercò una soluzione, che le permettesse di amare suo marito senza odiare suo figlio; che le permettesse di restituire a Tidus un po' di stima per quel padre perduto. Credette che allontanarlo da sé fosse la soluzione migliore. Sapeva di voler vivere il suo dolore -di doverlo vivere come Jecht meritava; sapeva che non poteva farlo di fronte a Tidus perché suo figlio lo avrebbe odiato ancora di più. Erano buffi, gli uomini della sua vita: erano così simili da essere completamente contrapposti e toccava a lei trovare un equilibrio. Non ci riusciva però, non con Jecht perduto in mare, introvabile; non con quel dolore indicibile nel petto che le tagliava la gola per la voglia di piangere e l'incapacità di farlo.

Era così debole, lei, che l'amore la squarciava. Languiva sul limite tra l'odio e l'affetto, facendosi sballottare ora da una parte ora dall'altra, e così non poteva essere moglie -perché la portava ad odiare suo figlio- e non poteva essere madre, perché le faceva perdere ancora di più suo marito. Quello che aveva bisogno di lei era Tidus, ma lei voleva proiettarsi verso Jecht, perché fosse ritrovato, perché il suo essere continuamente al molo ad aspettare che il suo corpo riaffiorasse prima o poi doveva riportarlo da lei. Non poteva assolutamente essere altrimenti.

Allontanare Tidus era la cosa migliore.

Lei avrebbe potuto ricostruirsi nel suo dolore e quando Jecht fosse stato finalmente sepolto, sarebbe tornata ad essere una madre. Vedova.

Iniziò a lasciarlo dalla sua anziana vicina di casa, ogni mattina. Poco tempo dopo smise anche di andarlo a riprendere la sera e lo lasciò definitivamente là. Perse il senso del tempo, dimenticò che doveva nutrirsi, non seppe più cosa significasse dormire. I suoi occhi erano insieme sbarrati e gonfi per le lacrime che la notte che la tradivano, ma la mattina il suo viso era pulito, al molo. Poco alla volta la fatica le mangiò le forze, come il dolore le aveva mangiato l'anima rendendola fredda e indifferente. Tutta la sua vita era quel mare calmissimo, placido e così crudele. Perché, quella mattina, si era inghiottito l'amore della sua vita?

Una sera le mancarono completamente le forze. Cercò di ricordare da quanto tempo Jecht fosse scomparso e si stupì del suo non sapere che giorno fosse, che ore fossero. La sua vita era stata scandita solo dalla luna che le annunciava che le doveva tornare a casa la sera, e dal sole che la invitava ad uscire la mattina. E la marea. La marea dolce, ciclica, ritmica, che batteva come un cuore. Si era trovata accasciata sul molo, con una mano che penzolava a sfiorare l'acqua. Gelida. Forse Jecht non era annegato; forse l'acqua era stata troppo fredda anche quella sera.

Chissà come era morto, Jecht. Chissà cosa aveva pensato, quando si era reso conto del suo ultimo respiro. Del suo ultimo battito. Chissà se aveva pensato a lei, o a Tidus, o al blitzball, o alla sue vittorie o ai suoi fallimenti. Chissà se era morto con un sorriso. Poco alla volta ricordò ogni cosa: conoscerlo, amarlo, sposarlo, partorire, osservarlo alla luce tenue della camera del loro bambino, perderlo. Chiedersi come era morto le sembrò un qualcosa di definitivo, di finale, che doveva per forza di cose segnare la sua vita. Lei non poteva stare senza Jecht; ma era riuscita a rimanere senza Tidus, in quei giorni in cui non aveva avuto l'obbligo di fingersi forte. Si rese conto che forse il corpo di Jecht era finito altrove, in un mondo sconosciuto al di là del mare, e che lei non avrebbe mai potuto saperlo.

Che non avrebbe mai potuto salutarlo, accarezzarlo l'ultima volta, piangere sul suo petto.

Affondò la mano nell'acqua, tremando, e pianse.

Silenzioso come la sua vita, il suo pianto rimase inosservato. Mentre le scendevano le lacrime sulle guance, ripensò a quello che le aveva detto la sua vicina di casa, quando aveva bussato alla sua porta per affidarle Tidus: non fare come gli uccelli. Gli uccelli che si lasciavano morire, quando perdevano il compagno di una vita. Lei aveva perso il suo, di compagno, e forse aveva iniziato a lasciarsi morire da allora, appassendo lentamente, fingendo di avere una speranza che anche in cuor suo era stata uccisa. E le parole di Tidus, il suo volerla spronare dicendo che odiava Jecht, il suo cercare attenzione, erano come forzare un fiore che aveva già dato tutto e poteva soltanto spegnersi.

Poteva soltanto spegnersi.

Rimase ferma sul molo, ascoltando la temperatura del suo corpo che si abbassava sempre di più, l'acqua intorno alla mano che sembrava pungerla, accettando l'idea che lui se ne era andato per sempre. Che lei, presto, se ne sarebbe andata per sempre, lentamente, senza fare rumore, in punta di piedi. Come sempre. Come era nella sua natura.

E silenziosa come la sua vita, come il suo pianto, come il suo dolore, si lasciò morire.

*****
Nota dell'autrice: bè, un'ideuzza strana che mi andava di portare qui. La storia della madre di Tidus che si lascia morire dopo la sparizione di Jecht mi ha sempre affascinato. Il motivo per cui, nonostante avesse Tidus, non abbia trovato la forza di andare avanti ancora di più. Ho provato a darle un'interpretazione. Mi sa che manca qualcosa, però; lo sento ma non riesco a metterlo a fuoco. Chi lo sa. Magari la rivedrò, prima o poi.
Come sempre, risposte a commenti, critiche, domande eccetera sul mio blog Wide Awake, così non rubiamo altro spazio qui^^
E se non compaio prima, Buona Pasqua a tutti!

   
 
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