The first of many lies
Chapter VII: I won't accept that!
13
Febbraio 1987
Tornando
a casa da scuola quella sera, Beatrice declinò la solita
offerta di Battler di
andare a casa con lui e si chiuse in cucina. Non era mai stata un
portento ai
fornelli, anzi. Nonostante tutto, però, si mise d'impegno e
si rimboccò le
maniche, il grembiule indosso e legato ben stretto alla vita per
evitare di
sporcarsi. Con il ricettario alla mano, studiò diverse
ricette per fare del
cioccolato e, per l'ennesima volta da quando si trovava lì,
desiderò avere
Ronove al suo fianco.
Esattamente
come la prima volta che aveva fatto del cioccolato per Battler, fu un
disastro;
la cucina non sembrava più una cucina, ma un campo di
battaglia che era appena
stato bombardato da una potente e devastante forza. Per quanto
provasse,
riusciva solo a ottenere qualsiasi cosa all'infuori
del normale
cioccolato a cui mirava.
Per
quell'anno, almeno in quel frammento, desiderava fare un regalo a
Battler per
San Valentino. Ma tutto ciò che riusciva a fare era produrre
quella specie di poltiglia
informe. Che non aveva sicuramente un bell'aspetto. E nemmeno
un buon
sapore. Era solo buona da buttare.
Nonostante
tutto, però, non si diede per vinta e spinta dalla forza di
volontà provò e
riprovò più volte finché, verso tarda
sera, non appoggiò per qualche secondo il
capo sul tavolo e si addormentò sul cioccolato che le era
caduto dal pentolino.
Russava
sonoramente, il cucchiaio ancora stretto tra la dita, quando
improvvisamente
suonò il campanello di casa sua. Quel suono la
risvegliò all'istante, facendola
balzare in piedi e quasi capitombolare in terra.
S'affrettò
verso la porta trascinando i piedi sul pavimento, i capelli un
disastro, il
volto per metà ricoperto da cioccolato rappreso e il
grembiule indosso che non
era più bianco. E quando aprì l'uscio e Battler
la vide, per poco non si
spaventò, viste le condizioni pietose in cui si era ridotta.
“Be-Beato...?
Che ti è successo?”, la fissava sbalordito,
cercando di trattenere le risa.
“Eh?”,
fu la sola domanda di lei, dimentica del suo aspetto in quell'istante.
“Sei
un po' sporca. Si può sapere che
è successo?”
Battler
si fece strada in casa sua, entrando senza chiedere permesso e
scansando di
lato la ragazza. Beato lo guardava ancora un po' perplessa e, quando lo
vide
dirigersi verso la cucina, si ricordò improvvisamente del
cioccolato che aveva provato
a fare – quel povero cioccolato che, piuttosto che
finire di nuovo fra le
sue mani, aveva deciso di esplodere insudiciando le parenti.
“N-non
andare di là!”, lo afferrò per una
manica, strattonandolo, “Battler!”
“Beato.”
Si era voltato a guardarla, serio in volto come non era mai stato.
“Ba-Battler...?
Non a-andare...”
“Hai
tutta la faccia sporca”, le disse, interrompendola e
passandole un dito sulla
guancia completamente ricoperta di cioccolato.
“Vedi?”
La
mostrò il dito sorridendo e senza pensarci due volte lo mise
in bocca.
Beato
lo fissò speranzosa, puro dubbio e attesa in volto mentre
aspettava con ansia
una reazione qualsiasi da parte del ragazzo – un complimento,
un altro
sorriso... o un pallore marcato accompagnato da uno svenimento, magari.
E
quell'ultima idea le parve la più probabile quando il
ragazzo rimase muto
davanti a lei, gli occhi chiusi ed il dito ancora tra le labbra. Le
sembra
quasi che avesse smesso di respirare.
“Ba-Battler...?”,
domandò preoccupata, afferrandogli una manica e tirandola
appena, sperando in
una sua reazione. “Ba-”
E
contro ogni sua aspettativa, lui le carezzò la testa,
ghignando appena.
I
capelli già in disordine s'arruffarono ulteriormente e, fra
sé e sé, Beato
maledì quella mano.
“Mh...
Potevi fare di meglio, Beato. Però... suppongo che questo
sia il massimo che
possa fare una tsundere come te~ eeeh~? Ihihi~!”
A
quella frase, nella mente della ragazza iniziarono a formarsi varie
idee su
diversi modi in cui avrebbe potuto farlo soffrire – magari,
includendo anche
del cioccolato bollente. Avrebbe potuto fingere d'inciampare e...
“Idiota.
Fattelo te allora.”
“Nah”,
scosse la testa, puntandole un dito contro il petto, “a San
Valentino sono le
ragazze che preparano del cioccolato per NOI! Ricambierò fra
un mese.”
“Nessuno
mi obbliga a farlo per TE.”
“Ma
io so che lo stai facendo per me~”
“N-non
è vero...!”
Battler
si lasciò andare sul divanetto esausto, sprofondando fra
quei cuscini
profumati.
Chiuse
gli occhi, appoggiando il capo contro la stoffa morbida e levandosi di
dosso il
grembiule – in modo piuttosto impacciato e, si disse, forse
avrebbe dovuto
toglierlo prima di sdraiarsi.
“Già
stancooo~?”
La
voce di Beato lo risvegliò dal suo temporaneo torpore,
facendolo quasi cadere a
terra.
Nonostante
la ragazza sembrasse cantare piuttosto che parlare,
certe volte,
i suoi toni non cessavano mai di farlo trasalire.
“Sì.
Cucinare con te non è un'esperienza per nulla
rilassante.”
“Oooh~
crudeeeeleee~! Gyahahahaha!”
Si
sedette sul bordo del divanetto, accanto a lui, e lo guardò
sorridendo
lascivamente. Erano entrambi un po' sporchi di cioccolato in viso
– Beato ne
aveva un po' addirittura sui capelli – e i grembiuli erano
talmente ricoperti
da quel dolce che non ne riconoscevano quasi più il colore
originale.
“Cooomunque”,
iniziò la ragazza, dondolando i piedi avanti e indietro,
“come mai sei venuto
qui? E' tardi.”
“Non
sei venuta a casa mia oggi e... volevo controllare che stessi
bene”, lo disse
chiudendo gli occhi e voltandosi per darle la schiena. Si
raggomitolò sul quel
piccolo divanetto, stretto fra il cuscini e Beato, che lo osservava
divertita.
“Allora
ti preoccupi per me, eeeh~?”
“N-no.
Ovvio che no. Perché dovrei?”
“Baaatleeer~”
Uno
sbuffò, e si voltò a guardarla stizzito.
“Va
bene. Mi preoccupo, e con questo?”, aria di sfida negli occhi
e pure imbarazzo
dipinto in volto mentre si grattava una guancia con l'indice, tenendo
gli occhi
ancora chiusi.
“Aaah~
e poi sarei io la tsun~dere~!”, scandì bene
l'ultima parola, ghignando e
allungando una mano verso Battler. “E Kyrie-san dubito ti
abbia lasciato uscire
di casa a quest'ora... sei scappato senza di nulla a
nessuno?” Gli passò
l'indice sotto il mento, costringendolo ad aprire gli occhi quando
ritrovò il
volto di lei così vicino al suo.
Sembrava
pronta a morderlo, con quel sorriso a trentadue denti stampato in
volto... un
sorriso completamente inquietante e che avrebbe preferito non rivedere
– anche
se, in tutta sincerità, preferiva quello allo sguardo triste
che ogni tanto le
deformava gli altrimenti dolci contorni del viso.
“Accettalo,
Ushiromiya Battler. Tu sei più tsundere di me.”
“Ah,
è inutile! E' tutto inutile! Non lo accetterò
mai!”
Quella
notte, Battler rimase a dormire su quel divano.
Quando
s'accorse che s'era addormentato, Beato gli posò addosso una
coperta,
sorridendo appena e lasciando il cioccolato che gli aveva preparato
– anche se
avevano partecipato entrambi alla sua fase di produzione –
ben avvolto in un
pacchetto sopra il basso tavolino del salotto. Gli spostò
qualche ciuffo dalla
fronte e vi posò un leggero bacio.
“Buon
San Valentino, Battler.”
E
si sedette accanto a lui, sprofondando in un sonno buio e tranquillo.
14
Febbraio 1987
Se
Beato considerò fare del cioccolato a mano difficile,
dovette ammettere alla
fine di quella giornata che tenere lontane da Battler le altre ragazze
lo fu
ancora di più.
Lo
seguì ovunque, aspettandolo anche fuori dai bagni, e
monitorò ogni suo
spostamento.
Non
lo lasciò solo un attimo e lanciò una
quantità mortale di occhiatacce durante
quelle poche ore di scuola.
Il
ragazzo s'era limitato a ridere del suo comportamento, dicendole che
era
infantile e, durante la pausa pranzo, che lui non era suo
e che, quindi,
voleva e aveva il diritto di ricevere il cioccolato anche da altre
ragazze. A
quella affermazione, Beato si limitò a fissare il proprio
bento per diversi
minuti, ingoiando il cibo di malavoglia e sperando che i compagni di
classe
smettessero di guardarli e ridere di loro (perché Battler
doveva sempre urlare
certe cose, invece di dirle con un tono di voce normale?).
Mancavano
dieci minuti alla fine delle lezioni quando Beato iniziò a
credere di poter
tirare finalmente un respiro di sollievo. Respiro che, tuttavia, non
tirò
quando all'uscita di scuola scorse tre ragazze con tanto di pacchetti
in mano
che facevano segno a Battler d'avvicinarsi. S'aggrappò al
suo braccio e il ragazzo
la trascinò per tutto il cortile, finché non
raggiunse le tre studentesse che
li fissavano stranite.
“M-mi
avete chiamato...?”, domandò Battler cercando di
staccarsi Beato dal braccio
che, nel frattempo, lo fissava con sguardo omicida.
“S-sì...
Ushiromiya-san”, una delle tre rispose arrossendo e
abbassando lo sguardo,
imbarazzata.
“Abbi-abbiamo
fatto questi per te...”, e allungarono i pacchetti verso di
lui, invitandolo ad
afferrarli.
Lasciando
andare improvvisamente il braccio del povero Battler, Beato
scattò in avanti e
si frappose fra quest'ultimo e le ragazze, fissando le tre malcapitate
con aria
di sfida, il ghignò che la contraddistingueva ben stampato
in volto.
“Eeehi,
ragazzine~! Battler è di mia proprietà, quindi
niente cioccolato per lui!”
Le
guardava dall'alto in basso, mettendo loro inquietudine.
“U-Ushiromiya-san...
no-non sapevamo avessi una ragazza...”
“Ehi,
ehi, Beato!”, fu il suo turno d'afferrarle il braccio e,
velocemente, la
obbligò a voltarsi, “Ti ho già detto
che non sono tuo!”
“Sì
che lo sei! S-sei il mio mobile...!”
“Mo-mobile!?
Stai decisamente dicendo più stronzate del solito.”
“B-Battler...!!”
Beato
lo guardava stizzita, indecisa se saltargli addosso e costringerlo ad
ammettere
che lui era suo o scappare, fingendosi offesa e sperando che il ragazzo
l'avrebbe seguita.
…
“Non
fate caso a lei”, la spinse da parte, sorridendo alle tre
ragazzine che, a loro
volta, gli mostrarono tre splendidi sorrisi. Gli tesero nuovamente i
pacchetti
colorati pieni di fiocchetti, sperando che li avrebbe accolti e
graditi. Ma,
senza alcun preavviso, Battler si sentì tirare per la
cravatta e le labbra di
Beato incontrarono le sue. Con gli occhi spalancati per la sorpresa, il
ragazzo
cercò d'allontanarla da sé, afferrandola per le
spalle e spingendola via – con
poca convinzione, però.
Le
tre ragazze li fissarono un po' deluse e, riponendo i pacchetti nello
zaino,
s'allontanarono chiedendo scusa per il disturbo, i capi rivolti verso
il basso.
Battler avrebbe voluto fermarle e chieder loro scusa per il
comportamento di
Beato... tuttavia, in quel momento, decise che poteva anche lasciarle
andare.
Si sarebbe scusato con loro un altro giorno... forse. O forse le
avrebbe
ringraziate.
“Mh”,
sentì Beato sussurrare qualcosa sulle sue labbra e s'accorse
solo in quel
momento che aveva risposto a quel bacio che non aveva cercato e che era
arrivato del tutto inaspettato.
“Adesso
sei mio”, gli disse, allontanandosi di poco da lui e
prendendo fiato. Era
completamente rossa in volto, segno che quel gesto le era costato molto
–
l'essere così tsundere aveva i suoi lati negativi.
Iniziò a
stropicciarsi la gonna, la frangia davanti agli occhi che le nascondeva
il
volto in parte alla vista.
“I-idiota...”,
fu l'unica risposta di Battler, decisamente in imbarazzo mentre si
grattava la
testa e distoglieva lo sguardo da lei. Gli tremava quasi la voce
– anche se non
riuscì a capire se fosse a causa dell'imbarazzo o... d'altro.
“Su...
torniamo a casa.”
Le
raccolse la borsa da terra e si incamminò per strada, senza
aspettarla. Beato s'accostò
a lui quasi automaticamente, fissando ininterrottamente il terreno
– gli occhi
smarriti fra gli svariati sassolini e le crepe nell'asfalto. E poi,
lentamente... allungò una mano verso quella di Battler,
inizialmente
sfiorandola e poi afferrandola con decisione.
Rimase
sorpresa nel sentirlo stringerle le dita e alzò gli occhi
verso di lui in quel
momento, speranzosa e con gli occhi lucidi.
Non
la guardava ancora: aveva il capo rivolto verso il cielo, le gote
ancora
arrossate.
“Vi-vieni
a casa mia anche oggi, vero...?”, le domandò,
lasciandole andare per un attimo
la mano, afferrandola di nuovo praticamente subito ed intrecciando le
dita con
le sue.
Un
gesto così semplice... eppure sentì qualcosa
prendere velocemente forma dentro
di lei. Qualcosa che un tempo aveva conosciuto ed odiato, qualcosa per
cui
aveva sofferto.
Beato
sorrise, una dolce calore diffuso nel petto mentre rispondeva
debolmente.
“Certo...”