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Autore: Silver Pard    06/03/2011    2 recensioni
Un’ombra vuota. Un idolo vacuo.
Tu la chiami tortura, ma in cuor tuo sai che è giustizia.
Genere: Generale, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Cloud Strife, Sephiroth, Un po' tutti, Zack Fair
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII, Advent Children
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(Lete) (Inter-mezzo)





(« Resta lì, dov’è il tuo posto. »)

Strife, lo vedi?



(—E se, mi chiese pacatamente Sephiroth una notte, —Me ne volessi andare? Se… se volessi buttarmi tutto questo alle spalle, lasciare andare tutto e tornare ad essere uno?

Sapeva già la risposta.

—Non si può, gli risposi.

Stava fissando il volto addormentato di Cloud come se non l’avesse mai visto prima, gli occhi vuoti tranne che per qualcosa che ricordava un po’ la paura. —Perché no?

—Perché… anche se lo facessi, Cloud ti richiamerebbe qui. Anche se tu non volessi tornare a vivere, lo vorrebbe Cloud.

Non guardavo lui, loro, perché mi rifiuto risolutamente di dover scegliere tra uno dei due. Un giorno dovrò farlo, ma quel giorno non era allora, né è ancora arrivato.

Credo di sapere a chi di loro parlerò quando sarà il momento, perché ho una mezza idea dello schieramento che sceglierà Aeris, e credo che sarà quella la scelta giusta. Dopotutto, Cloud è ancora vivo, può ancora farsi del male.

E tutto d’un tratto, senza guardarli, mi sembrò tutto così ovvio che stentavo a credere di non esserci arrivato prima. Mi voltai. —Sai cosa siamo, Seph? Siamo solo ricordi, e i ricordi non hanno voce in capitolo, in queste cose.

Eidolon. Un’ombra vuota. Un idolo vacuo. Quello che rimane di una persona quando muore – non l’anima, non la persona in sé; letteralmente, una semplice ombra della persona che si era quando ancora in vita.

Lui si accigliò, strattonò irritato una ciocca vagante dei capelli di Cloud, schiaffeggiò la smorfia sul suo volto giovane (poco più che un bambino, aveva detto il ricordo di un Sephiroth lucido, sconcertato e gonfio di vergogna) – la fronte corrugata e le labbra tirate di un bambino che sta per piangere. —Perché no? ripeté, con maggiore impazienza. —Perché non riesce a lasciarmi andare?

Io allargai le braccia, impotente. —… Non lo so.

Aeris sorrise, e il suo sorriso era amaro e apparteneva a qualcuno, qualcos’altro. —Io (noi) sì, disse(ro). —Tu gli dai… significato. Tu… lo definisci. Dio, sì?

—Io non voglio! le urlò; eppure la sua mano si era stretta sulla spalla di Cloud, aveva affondato le dita come se il tocco potesse ancorarlo a lui, restituirgli contegno. —Non voglio- ma poi non riuscì più a parlare, soffocò sulla rabbia e sulle parole perché non era capace di spiegarlo, al pari degli altri.

Lei (loro) rise(ro) di lui. Lui svelò i denti come un lupo accerchiato e qualcosa in lui scattò, si sbriciolò.

Qualcosa dentro Cloud scattò, come una serratura. L’eco di una scheggia di lui che veniva incastrata al posto giusto si riverberò e vibrò.

Sephiroth si immobilizzò, allungò la mano e disegnò i bordi frastagliati della sua identità, affascinato, tracciando senza posa ogni illusione, ogni ricordo, ogni parola che abbia mai proferito, sgretolandosi le dita sulla confusione di Cloud.

—E se, sussurrò, a voce ancora più bassa, —E se lui volesse restare? Lo manderete indietro, come avete fatto con me?

—Sì, gli risposero. —Ha un compito da svolgere.

—Lui ha un compito da svolgere perché ce l’ho io. Se io mi fermassi, e lui non volesse più combattere, perché non potrebbe restare? Perché non potrebbe funzionare? Conosceva già la risposta, ma scelse di non ascoltarla. Tipico di Sephiroth.

—Ha un compito da svolgere, ripeterono.

—… Ma un giorno non lo avrà, insistette Sephiroth, nell’affermazione più vicina a una domanda che avesse mai formulato. Ci arriveremo. —Un giorno sarà di nuovo qui e qui ci sarà un posto per lui.

—Forse.

Quindi no, ma Sephiroth si rifiutò seccamente di ascoltare. Rimarrà deluso e astioso quando finalmente lo accetterà (tra un anno, una decade, un secolo), si dirà che gli hanno mentito ma senza che fosse necessario, visto che già lui mente volentieri a se stesso.)



Le stelle stanno cadendo, posso prenderle tra le mani…

(« Cosa vuoi? »)



Una verità: la vita consiste nel cercare di dimenticare che sotto la pelle c’è uno scheletro.

Si pensa, perché lo si sente nominare così spesso, che sia possibile dimenticarlo, ma non è vero. A volte è un sollievo – quando si perde tutto il resto rimane sempre, sempre, un flebile barlume di speranza, e nei laboratori quella speranza era congiunta alla certezza che mi fosse ancora possibile morire.

La cosa peggiore delle torture di Hojo era il conflitto che riusciva a instillare nei miei stessi pensieri – il desiderio e la paura di morire. Uno straordinario capolavoro di tortura psicologica che sono sicuro fosse accidentale.

Una verità: ogni grandezza è adombrata dalla crudeltà. Essere grandi significa bruciare come una supernova, e non riuscire più a distinguere i volti umani per via del fulgore.

(Sephiroth era anche il mio Dio; gli stavo vicino e riflettevo la sua luce, una luna e il suo sole, metà del mio corpo era sempre fredda, l’altra metà scottava sempre.)

Questa è la verità a cui nessuno vuol pensare – Sephiroth è vita. Contorta, confusa, e deformata al punto da non essere più riconoscibile. Vita portata all’estremo. Vita che può esistere quando il mondo è polvere. Vita che stringe i denti fino all’estinguersi delle stelle.

Da solo, il suo corpo fisico distrutto non conta nulla. Il suo spirito è tutta un’altra storia. La forza di volontà è la chiave, la soluzione e il mezzo, e Sephiroth, oh, Sephiroth ha una forza di volontà capace di portare in ginocchio Dio.

Ecco perché alcuni soccombono all’avvelenamento Mako e altri no. Ecco perché alcuni vengono annientati e altri mutano e certi si adattano. Forza di volontà pura e non diluita.

Non c’è mai stato niente e nessuno che sia riuscito a far fare a Sephiroth qualcosa che non volesse. È stato al gioco della ShinRa perché poteva, perché non aveva niente di meglio da fare, perché sapeva che non potevano costringerlo a fare alcunché.

Ricordo che verso la fine della guerra (è buffo come la parte Midgar-contro-Wutai abbia finito per essere gradualmente eliminata. Tutti sapevano cosa intendevi quando dicevi “la guerra” – tutti ci avevano perso qualcuno) minacciò di rimanere lì, nel paese che aveva distrutto. Aspettò che strattonassero il guinzaglio che gli avevano messo al collo, e quando lo fecero avvertì la debolezza del gesto.

Rideva come un pazzo (anche se non era nulla in confronto a quello che sentii nel seminterrato). Aveva combattuto contro di loro non perché voleva combattere; di quello non gli importava. Voleva soltanto vedere se loro potevano domarlo.

Non potevano.

Rimase con la Compagnia perché non vedeva alternative. Era scritto nel suo sangue, nei suoi pensieri e nelle sue ossa che avesse bisogno della ShinRa, della Mako che gli procuravano, che non avesse bisogno delle seccature che sarebbero sorte con la fuga. Rimase perché poteva comunque trarne qualcosa di buono, e col tempo dimenticò il suo disprezzo per il fatto che non potessero piegarlo.

Sephiroth aveva potere. Andava oltre l’incredibile, oltre la comprensione, era semplicemente oltre. L’unica cosa di cui Sephiroth avesse mai avuto bisogno era la Masamune in mano e la determinazione in mente.

Se si impegnava a fare una cosa, la faceva, senza mezze misure. Con tutta quell’ambizione, tutta quell’intelligenza, e la capacità, e l’energia, e la pulsione, non c’era nulla che non potesse fare.

Si lasciò cadere.

(SephirothMaestroDio)

È stata una scelta. Il Sephiroth che poteva far inginocchiare Dio ai suoi piedi, il Sephiroth che poteva deformare le stelle a suo piacimento, il Sephiroth che poteva evocare meteore, il Sephiroth che richiamava supernove – quel Sephiroth ha scelto di cadere.

Ha scelto questa strada. Il collare di Jenova se l’è stretto addosso di sua spontanea, maledetta volontà.

(TraditoreFalsoIdoloRammollito)

Forse lo ha fatto solo per vedere se lei sarebbe riuscita dove la ShinRa non aveva potuto. Se sarebbe riuscita a obbligarlo o se sarebbe stato lui ad avere la meglio su di lei. Forse era annoiato.

Forse, forse-

Semplicemente non sapeva quanto fosse forte. Noi lo sapevamo. Noi eravamo fuori, lo contemplavamo, ci meravigliavamo e cadevamo in ginocchio.

Sephiroth, invece… Sapeva di poter distruggere nazioni, sapeva che la ShinRa non poteva imprigionarlo, ma sapeva anche ciò che noi non sapevamo, dei laboratori, dei ricordi delle grida che ha lasciato tra quelle pareti.

Quando sei stato debole una volta, (Io sono il signore del mio mondo illusorio) puoi diventare forte quanto vuoi, ma quel ricordo rimane con te.

(« Ti distruggerò; ridurrò tutti voi in polvere, per Madre… »)

Come ho detto, c’è molto di cui aver paura.

Cose perse: la ragione di Sephiroth, la dolcezza di Aeris, la mia misericordia.

Cose trovate: il sapere di Sephiroth, la prudenza di Aeris, il mio perdono.



Le stelle…!

(« E questo pianeta? »)



Un segreto: certe notti Cloud si rannicchia delicatamente nel sonno, e Sephiroth gli infila le dita tra i capelli e gli bisbiglia segreti nell’orecchio come se ci stesse versando veleno.

Un altro: Cloud ride piano (qualche volta; molto di rado) nel sonno, e Sephiroth si stende accanto a lui come se dividessero una bara, e lo maledice in ogni lingua che conosce e oltre, una mano serrata sul suo avambraccio che romperebbe se solo potesse ancora toccarlo.

(Per chiunque altro, una maledizione potrebbe essere così: possano tutti i peccati del mondo ricadere su di te. Possa ogni Dio esistente voltarti le spalle. Possa tu essere esiliato al di là dei confini più remoti dell’universo, al di là della misericordia e della compassione. Possa tu morire della morte più agonizzante possibile. Possa tu gridare per tutta l’eternità.

Ma Sephiroth conosce Cloud, e sa cosa lo ferirebbe di più.

—Possa tu vivere per sempre, gli sussurra all’orecchio.)

Cloud è peggio di un non credente. È un credente in crisi mistica.



Resta con me. Navighiamo quest’universo, troviamo le sfide che ci attendono (facciamoci finalmente distruggere riduciamocinpolvere). Oh, mio burattino, quali meraviglie si rintanano tra le stelle!

(« Mi fai pena. »)



Quando ero piccolo, mia madre mi parlava di totem, di creature che ti svelano ciò si cela nel tuo cuore.

(Ero un marmocchio arrogante; ridevo delle credenze di mia madre e del mio paese e le schernivo. Andai nella grande città e ci scivolai dentro come se ci fossi nato, con il mio sorriso cinico e la mia facile indifferenza per chi mi era inferiore.

Mentivo quando parlavo a Cloud di Gongaga come se mi mancasse, mentivo quando ripetevo malinconicamente la storia dei totem di mia madre, mentivo con un sorriso affettuoso quando fingevo di capire i suoi pianti per le montagne.)

Però! Quando ero piccolo, m’innamorai dei lupi, e questo amore non è mai tramontato.

(Come avrebbe potuto? Dal soldato che sono, dall’assassino che sono, come avrei potuto non adorarli?)

Sì, okay, in parte era per egotismo – non avevo tutta questa voglia di essere rappresentato da un coniglio, eh? (Per quanto, quelle mostruosità al nord… Non ditemi che non avreste paura anche voi dei conigli dopo che uno di quei cosi vi ha affondato i denti in un punto pericolosamente vicino a un delicato attrezzo dell’equipaggiamento maschile.) Ma i lupi avevano qualcosa che mi toccava.

Attorno a Gongaga ce n’erano. Beh, proprio attorno a Gongaga no, mi sa che le foreste non siano il luogo più adatto, e poi sarebbero stati troppo vicini alle abitazioni umane, ma li si poteva sentire cantare sulle pianure.

La prima volta che udii la chiamata di un lupo provai quello che avevo provato quando avevo visto la mia vicina, che avevo giurato (alla veneranda età di otto anni) che un giorno avrei sposato. La differenza era che lei era un’ideale, mentre i lupi e la loro canzone erano una realtà più grande di me, più grande di tutto.

La nenia dei lupi è stata il filo conduttore della mia vita, dall’infanzia alla maturità, dall’innocenza al soldato. Mi toccavano. Nobiltà. Purezza di scopo. Perfetto adattamento alla loro vita. Socievolezza. Solitudine. Ferocia. Affettuosità. Tutte queste qualità avvolte nel bellissimo pelo ispido e nei fermi occhi dorati.

Durante l’addestramento militare li ho studiati. Osservavo i loro movimenti, come agivano, le loro abitudini di caccia, come si addormentavano, tutto.

Sentivo che i lupi fossero il modello perfetto a cui avrei dovuto rifarmi, essendo io un alto esempio di splendore evolutivo più di un qualsiasi altro sgraziato, rumoroso essere umano, per quanto freddi e rompicazzo fossero i miei istruttori.

Ho imparato a muovermi allo stesso modo (no, no, non a quattro zampe), ho imparato a dormire un sonno leggero e a svegliarmi regolarmente, come un lupo (ora, quello sì che fu un vero test per la mia forza di volontà, costringermi alla mattina a lasciare il mio bel letto caldo, comodo e sicuro…), ho imparato a stare attento all’ambiente, a notare i piccoli dettagli che altrimenti mi sarebbero sfuggiti. Tracce, comportamento animale, quel genere di cose.

Avevo amici che dicevano spesso che in battaglia sembravo un lupo, che mi fissavano preoccupati quando ghignavo dopo aver ucciso qualcuno, scoprendo i denti come avrebbe fatto il mio totem.

(Non dissi mai a mia madre che credevo nella sua stupida superstizione contadina, non spiegai mai a nessuno la ragione per cui avevo deciso “di punto in bianco” di cominciare a studiare i lupi. Non lo ammisi nemmeno a me stesso.)

Quando avevo diciotto anni, e mi stavo dirigendo verso una piccola città sperduta tra le montagne per una missione, con il mio piccolo protetto ancora scombussolato dal mal di movimento da una parte e il mio amico che guardava il fuoco dell’accampamento con occhi vuoti e inquieti dall’altra, mi portai le mani ai lati della bocca e cacciai fuori un ululato.

Il suono si trascinò per il nulla delle pianure, e sorrisi ridicolmente in barba alla disapprovazione del mio superiore finché Cloud non sollevò la testa e ululò per me.

I lupi gli risposero. (E non fu una sorpresa, veramente, ma sentii comunque una specie di fitta, un pizzico di… non so… risentimento, un vago fastidio per il fatto che la forma del mio cuore rispondesse a lui e non a me.

Quando Cloud era piccolo, le montagne erano casa sua, i lupi del Nibel i suoi compagni; io questo lo sapevo, ma il loro rifiuto mi ferì lo stesso.)

« Qualcuno ti ha superato » mormorò in tono asciutto Sephiroth, divertito e comprensivo; Cloud arrossì un po’ per l’attenzione del suo idolo, a cui lanciai un’occhiataccia per far capire a Cloud che non ero serio e a Sephiroth che lo ero.

« Ancora, Strife » incoraggiò gentilmente Sephiroth (gentilmente! Il numero di volte che questo avverbio possa applicarsi a Sephiroth si conta su metà delle dita della mano di un guerriero di Wutai).

Dopo un lungo istante in cui cercò di capire se Sephiroth stesse scherzando o meno (anche io non ne ero tanto sicuro), Cloud si diede una leggera spinta sui talloni e ululò di nuovo, e poi io mi unii a lui, e allora il branco che prima aveva risposto cominciò a intrecciare la sua voce alle nostre…

… e poi, con mio grande shock, Sephiroth ci imitò e fece cagare addosso tutti quanti, lupi compresi (probabilmente).

È uno dei ricordi che mi ha sostenuto nei laboratori, mi ci aggrappai fino a sfrangiarlo e consumarlo e a dargli le sembianze più di un buco che di un ricordo, riavvolgendolo costantemente nella mente finché non ne rimase che il suono delle nostre voci: la chiamata vacillante, dolorosamente dolce di Cloud; l’annuncio potente e profondo di Sephiroth circa la sua presenza che divenne automaticamente il centro e la base di sostegno per i nostri; il mio strillo roco e stonato di felicità; il lamento incerto e vagamente dubbioso del soldato semplice Jenkins (povero disgraziato morto, fortunato disgraziato morto) e lo strano branco che replicava al nostro coro, inserendosi e sfilandosi continuamente.

(Innocenza.

C’era questo di bello in quel momento – l’ultimo momento d’innocenza prima che il castello di carte crollasse su se stesso. Pensavo scioccamente di averla persa molto tempo addietro – che me l’avesse portata via la guerra – senza rendermi conto di quanto ancora avessi da perdere.)

Avranno pensato che ci stessimo immischiando nel loro territorio o roba così.

(Sarebbe bello se-

Ma è troppo assurdo.)



Strife, Strife che è tanto forte e tanto debole e tanto a doppio taglio, Strife che è fatto di contrasti, Strife che è tenero e tagliente e polvere e perla e scudo e spada e caritatevole e spietato, Strife perché non riesci-

-a vederlo?

(« Non capisci niente. »)



(—Ti odio, bisbiglia Sephiroth una notte, ogni notte, quasi se ne vergognasse, quasi fosse chissà quale grande segreto.

E il bello è che a Cloud sentirlo farebbe molto male. Voi direte, ma dopo essere stato puntellato su una spada, affettato, usato, frantumato e distrutto, teoricamente, una vaga idea in proposito dovrebbe essersela fatta, ma in un certo senso, sentirlo sarebbe completamente diverso.

Sephiroth, che non ha mai parlato di odio credendoci, sentirglielo dire – a Cloud, che sa tutto questo perché lo sapevo io, si spezzerebbe il cuore già pieno di crepe.

—Tu sei… dice, e le innumerevoli cose che non dice urlano nel silenzio.)



Tu sei

(« Non c’è niente che non consideri prezioso. »)

tutto



(« Qual è la cosa più preziosa che hai? » chiede Sephiroth (ma non è Sephiroth, questo è solo un sogno. Oh… cioè. Come se non avessi parlato).

« Quand’ero piccolo, tu eri il mio eroe » gli risponde Cloud.

Sephiroth piega un po’ la testa per esaminarlo meglio. Io, seduto fuori dalla loro arena immaginaria (oggi è un campo di una noia inconcepibilmente piatta, apparentemente sterminato), e desiderando di avere dei pop-corn, penso, strano.

Che risposta bizzarra. Vorrebbe dire che quando Cloud era bambino Sephiroth era la cosa più preziosa che avesse?

« Oh? Quale onore » dice ad alta voce, compiaciuto, e Cloud sfodera un sorriso sinistro.

« Beh, le cose sono cambiate. »

Stop. Rewind.

Domani torneranno a combattere e a farsi sogghigni beffardi e a pretendere di nuovo delle risposte, perché è questa la loro ragione di vita, era/è/sarà questo il momento che dà definizione alle loro vite e dev’essere perfetto.

Stop. Play.

« Sephiroth, cosa vuoi? »)



Mio.

(« Resta »)

Non ti lascerò

(« nei miei ricordi. »)

mai andare.







NdT: ancora una volta ringrazio alister per avermi riportato le frasi precise usate nel duello tra Sephiroth e Cloud nella versione italiana di AC. Stavolta si tratta delle battute di Cloud.
La prima frase (“Resta lì, dove è il tuo posto”, in originale “Stay where you belong”) in realtà è leggermente diversa, perché nel film è fusa con l’ultima (“Stay in my memories, where you belong”). “[Resta] dove è il tuo posto” da solo non rendeva benissimo come frase di apertura, e ho quindi modificato leggermente.
… Ma immagino non importi a nessuno, com’è giusto che sia xD Piuttosto, “Io sono il signore del mio mondo illusorio” è ovviamente la famosissima “I’m[… Cloud.] The master of my own illusory world.” L’ho lasciata più che riconoscibile. :)
   
 
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