Se qualcuno mi avesse chiesto perché…
Se
qualcuno mi avesse chiesto “perché?” onestamente avrei risposto che proprio non
ne avevo idea. Insomma, quello era pur sempre Draco Malfoy … «il più grosso
egocentrico, vanesio, prepotente, narcisista, viziato individuo che sia mai
esistito in tutto il mondo magico e babbano! » A dire il vero la
lista avrebbe potuto persino essere più lunga.
«Attento
a come parli, Potter! Io non sono affatto “grosso” »
Molto
più lunga!
«Come
sempre hai colto il punto importante della discussione, Draco», ribattei scocciato.
Si
diede quell’aria di supponente importanza che sfoggiava in questo genere di
occasioni. Con il tempo avevo imparato che l’atteggiamento da lesa maestà, o
meglio leso Malfoy, era il suo modo di reagire alla
preoccupazione.
«È
chiarissimo, Potter».
Era
piuttosto seccante che non avesse mai smesso di chiamarmi per cognome. Ci
frequentavamo da un po’ ormai. Da prima della fine della guerra! Eppure ancora
era incapricciato di quella stupida ostinazione. Certo, se prima “Potter” era
abbinato unicamente a un marcato tono di purissimo disprezzo-alla-Malfoy,
adesso aveva guadagnato una vastissima gamma di nuove sfumature. Una più
lusinghiera dell’altra! C’era il Potter che sottintendeva un non molto
raffinato “levati dalle palle”, il Potter “che accidenti hai addosso, o-mio-dio è davvero un maglione Weasley
quello?”, l’immancabile Poooootter che nel dizionario malfoyesco
era spesso e volentieri un “fai questo, fai quello, portami questo, portami
quello”. A dire il vero c’era anche il Potter un po’ roco dei nostri baci, ma
ci stavamo concentrando su come Draco avesse fatto
del mio cognome il compendio perfetto di tutte le recriminazioni, fastidi,
mancanze, orrori della mia persona.
Un
capolavoro di sintesi.
«Certo», arrotai la erre. Il
mio sarcasmo tendeva a questo genere di espressività, nulla a che vedere con le
raffinate sottigliezze che un’infanzia in compagnia di Narcissa-regina
dei ghiacci- Black-orgogliosamente- in- Malfoy era riuscita a trasmettere al tenero pargolo.
Non
potevo competere. Il mondo poteva dire quello che voleva, ma io non ci tenevo
affatto a lanciarmi in battaglie perse in partenza. Guerra contro Voldemort e relazioni sentimentali incasinate con un serpeverde decisamente troppo innamorato di sé a parte.
Forse.
«Tze», sbuffò stizzito. «E’
perfettamente chiaro. Tu non capisci».
Stava
per farlo. Oh sì, il miglior prodotto dell’unione tra La-nobile-e-antichissima-casata-dei-Black
e l’altrettanto pretenziosa famiglia Malfoy non era
l’incarnato perfettamente vampiresco, l’incredibile spocchia, presunzione e
quant’altro, né i tratti fini, né quel colore di capelli che Draco definiva pomposamente IL BIONDO (a cui io mi riferivo
comunemente come giallo slavato tendente al bianco), assolutamente no! Era
quell’innata, incredibile, indisponente capacità di rigirare ogni cosa in
proprio favore.
Draco
ne era maestro.
E
io di solito finivo per sentirmi un verme.
Non
mi deluse.
«Se
tu fossi in grado di intendere, Potter», il mio cognome mi sembrò un insulto, «capiresti da solo che non starei mai e poi mai con te se
non pensassi che tu, malgrado la tua ottusità e palese ritardo mentale, fossi
il meglio che potessi avere! Per cui», continuò tutto d’un fiato mentre il mio groppo alla
gola raggiungeva dimensioni e peso di un macigno, «smettila
di insultarmi con le tue assurdità! Vuoi andare a trovare donnola e zannuta?
Vacci! Non sono geloso, non sarei mai geloso di quelli, non mi sembra che tu
abbia scelto loro. Fino a prova contraria ci sono io qui! »
Mi
sentivo stupido. D’improvviso aver detto che era ossessivamente geloso e che se
non gli piacevano i miei amici poteva trovarsi qualcuno che reputasse alla sua
altezza mi sembrò infantile. Che poi tra noi due di norma era Draco l’infantile. Io non facevo i capricci. Io non passavo
ore a guardarmi allo specchio. Io non volevo essere venerato. Io non davo di
matto se non avevo la mia dose quotidiana di caffè e nicotina. E soprattutto
ero in grado di controllarmi e non comprare ogni minima sciocchezza
desiderassi. Di solito compravo quelle che Draco desiderava…
Attesi
il colpo di grazia.
«Per
cui vattene dove accidenti ti pare! » Puntò la bacchetta verso un angolo del salotto. Esplose
una bottiglia. «Quello era un
Bordeaux del 1964», lo guardò con sincero rammarico, «e lo avremmo bevuto stasera a cena. Ora puoi andare».
Ovviamente
ogni mia voglia di metter naso fuori caso aveva subito un drastico calo negli
ultimi cinque minuti. Mi accasciai derelitto sul divano. «Mi dispiace…» Ed era vero,
sentitamente, totalmente, incondizionatamente vero. Era una delle grandi doti
di Draco: farmi sentire terribilmente in colpa. Mi
facevo abbastanza schifo.
Ancora
una volta se qualcuno mi avesse chiesto perché non avrei saputo cosa rispondere.
Forse semplicemente perché avevo litigato con lui, o magari perché avevo torto.
O ancor più vero perché era uno di quei casi in cui Draco
sottintendeva tutto quel mondo in cui speravo e di cui mi concedeva qualche
sporadica dimostrazione. Quel mondo che, a ben vedere, era già lì senza bisogno
di “ti amo”, senza che lui pronunciasse mai il mio nome. Solo io mi ostinavo ad
essere cieco.
«Lo
dici in continuazione».
Guardai
il pavimento. Sì, lo dicevo sempre e avevo perso il conto di quante volte avevo
desiderato non doverlo più dire. Ma i buoni propositi fallivano sempre con me.
Una sola cosa buona ero riuscito a fare nella mia vita ed era stato un
omicidio. Qualcuno dovrebbe trovarlo indicativo.
«Lo
so»,
soffiai le parole.
Non
avevo bisogno di guardarlo per intuirne la postura. Sicuramente i suoi occhi
erano su di me, fissi, ma in qualche strano modo lontani, come a trapassarmi e
trattenere qualcosa a cui io non avevo accesso. Non perché me ne tenesse fuori,
ma perché io non ero in grado di
penetrarvi. La linea delle labbra, ne ero certo, si era fatta più sottile,
severa. Era il peso delle parole che volevano uscire. Se qualcuno mi chiedesse
perché le frenasse ogni volta, ancora risponderei che non lo so.
Poi
avrebbe abbassato le spalle, sempre mentre io mi dedicavo alla scrupolosa
analisi di qualunque cosa non fosse il suo sguardo. Non avrei retto di vederlo
ferito. Le avrebbe scrollate leggermente in uno sbuffo e con un ghigno. Quel
ghigno parlava, diceva “sciocco io ad aspettarmi ancora qualcosa”.
Ma
le parole era altre.
«Come
ti pare».
Fece
per uscire.
«Draco… io…»
Si
voltò. «Sì?>> Un monosillabo di composta altezzosità. Un
sorriso di pura cortesia che non raggiungeva gli occhi. Il mio nodo alla gola
si era trasfigurato in una pesante incudine che mi martellava la testa.
«Mi
dispiace davvero! »
Le
parole giuste non le ho mai conosciute. Erano quelle che avrebbero espresso
perfettamente come mi sentivo, che la sola idea di avergli fatto male mi
sembrava il crimine peggiore che potessi commettere, erano tutto il dolore di
non essere mai in grado di dimostrare quanto affermavo, la paura di non
riuscire a dargli tutto me stesso.
Se
avessi conosciuto le parole forse non avrebbe mormorato «Non importa», non mi avrebbe lasciato solo ed infelice in salotto.
Magari se avessi conosciuto le parole questa conversazione e molte altre non
sarebbero mai esistite. Forse avrei smesso di sentirmi un idiota.
Purtroppo
per citare Draco le mie capacità espressive sono
quelle di un troglodita. Quindi se qualcuno mi chiede perché, tutto quello che
so rispondere è che lui è Lui.