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Autore: crazyfred    10/03/2011    14 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
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When you crash in the clouds - capitolo 04


















Capitolo 4
May angels lead you in





soundtrack

Come tutte le mattine in cui non c’è un cazzo da fare e vorresti stare a letto a poltrire, la sveglia del cellulare venne a buttarmi giù dal letto con il suo insopportabile tremolio nella tasca dei pantaloni, che avevo ancora addosso, e la sua ancor più irritante suoneria deficiente. Il mio caro, carissimo coinquilino, aveva optato, per me, per registrare un suo messaggio sveglia, fatto di urla ed imprecazioni, che ogni volta finiva per ritorcersi contro di lui, quando mi alzavo e lo picchiavo di santa ragione. Ma era caduto dal seggiolone da piccolo, non era colpa sua se era venuto su cerebroleso.

Così, scosso dalla vibrazione e stordito dalla sua voce, mi mossi di scatto sul letto e, con un movimento scomposto, degno di un invasato, mi ritrovai seduto ad occhi spalancati. Era ancora buio nella stanza, nonostante il mio telefono sostenesse il contrario. Mi affrettai a recuperarlo e spegnerlo, senza capire molto di tutta la situazione.
Certamente la sera precedente dovevo aver bevuto o, nella peggiore delle ipotesi, avevo fumato o preso qualcosa, visto che mi sentivo come se un camion mi avesse asfaltato e poi, ripetutamente, tutti i grattacieli di Manhattan mi fossero crollati addosso. Mentre, con un mal di testa di quelli epici, i miei occhi mettevano bene a fuoco nel buio della stanza, iniziai a fare mente locale sul dove mi trovassi, ma soprattutto sul perché fossi finito lì, in un ex motel del Bronx, dimora di una ragazzina squillo che, per un non meglio comprensibile istinto da Samaritano mi ero deciso ad aiutare e, ancor più incomprensibilmente mi aveva accettato tra quelle quattro mura senza battere ciglio. Eravamo finiti a parlare, aiutati dal fumo e dall’alcol, quasi fino all’alba quando, più che intontiti, crollammo sul suo divano letto.
Erano le nove, ma in quella stanza senza finestre sembrava che non fossero passati neanche cinque minuti da quando ci eravamo addormentati, con lei che cingeva la mia vita con le sue braccia esili.
Poi, in un lampo di lucidità e logica, mi girai verso di lei che, nonostante la sveglia scassamaroni, non aveva fatto una piega e continuava a dormire beata.
Nel frattempo il mio cellulare segnava le 9 di sabato mattina. Meraviglioso, era sabato, in università non avevo lezioni e miracolosamente era anche il mio giorno libero al lavoro. Avrei potuto dormire finché anche lei non si fosse svegliata e poi le avrei chiesto di restare con me per il resto della giornata, per magari poi convincerla a non andare a lavoro quella sera. Bene … le botte di culo capitano anche a me ogni tanto …
Tornai a stendermi di nuovo al suo fianco, mentre lei si rigirava nel letto. Speravo che gli eccessi della sera precedente mi aiutassero a prendere di nuovo sonno, ed invece furono i ricordi ad avere la meglio, così che gli ingranaggi del mio cervello, già fusi dalla serata turbolenta, potessero andare in escandescenza. Il tuo cervello lavora troppo, mi ripeteva sempre Michael, così finirai col bruciartelo prima dei trenta; cazzo se aveva ragione!
Avrei dovuto fare come Aidan, ma poi pensai che, in effetti, lui se l’era già giocato, e comunque non stava tanto meglio di me.
Cosa avevo fatto? Come, ma soprattutto perché mi trovavo lì? Cos’è che mi spingeva ad aiutare una sconosciuta?
Dopo aver contato tutte le ragnatele della stanza, dai 4 angoli del soffitto all’intelaiatura del lampadario ed aver valutato la gravità della muffa che macchiava le pareti della stanza, arrivai alla conclusione che io e Mallory, o meglio Allison, non eravamo poi così sconosciuti. Doveva essere accaduto qualcosa, nella sua vita, prima che arrivasse a New York, che l’aveva fatta diventare quello che era, una piccola donna arrabbiata con il mondo, disillusa dalla vita e delusa da chi le stava intorno. Ed io, in fondo, guardandola, era come se mi guardassi allo specchio. Anche se ero stato poco con lei, avevo capito che c’era qualcosa dietro, e nei suoi comportamenti c’erano tutta la ferocia e l’orgoglio di chi sa che a stare soli si sta meglio, che è meglio bastarsi.
E non c’era altro che volessi da lei, e per lei. Era quello il mio scopo, aiutarla ad essere davvero libera ed indipendente. In cambio non volevo niente; se fossi riuscito nel mio intento, il ritorno lo avrei trovato nel mio cuore: la soddisfazione di essere riuscito dove con mio fratello avevo fallito, quando non avevo riconosciuto i segnali di allarme e le sue continue richieste d’aiuto.
Mentre mi perdevo tra progetti e fantasticherie, su come mi sarei comportato al suo risveglio oppure su cosa le avrei detto per convincerla a non tornare al lavoro, il cellulare, a cui prontamente avevo imposto il silenzio, iniziò a vibrare sul pavimento e, sporgendomi dal divano letto, con una molla ficcata nel fianco, notai che segnalava la chiamata di Aidan. Il campo era veramente poco nella parte interna del piccolo locale, così mi spostai verso l’ingresso, alzando la tapparella e addossandomi al davanzale che dava sul pianerottolo a cielo aperto. La luce di quella che appariva come una bellissima giornata di sole autunnale mi colpi con tutto il suo bagliore, accecandomi, e fui costretto a dargli le spalle. Confidando nell’abitudine di Aidan a non mollare finché non avesse ottenuto risposta, feci tutto con estrema calma, pensando a cosa gli avrei detto per giustificare la mia fuga della sera precedente.
“Pronto?” risposi, cercando di mantenere un tono disinvolto, come se quello che avevo fatto fosse stata la cosa più naturale del mondo.
“Dove cazzo sei?” tuonò minaccioso il mio interlocutore all’apparecchio. Rimasi in silenzio, evitando di rispondere a quella domanda piuttosto scomoda, anche perché sinceramente non è che avessi molto chiare le coordinate. “Senti” cercò di darsi un tono più calmo e conciliante “non mi interessa con chi te la sei spassata stanotte, escluso nel caso in cui tu fossi andato con Samantha perché in quel caso verrei fino in capo al mondo per evirarti …”
Lo interruppi con una risata “a parte il fatto che si chiamava Veronica … e comunque non sono con lei tranquillo!”
“Molto bene” sembrò decisamente tranquillizzarsi “insomma … non mi interessa sapere con chi sei, né cosa hai fatto. Dimmi solo perché cazzo non sei a casa a quest’ora?”
A volte si comportava come una moglie gelosa, o una mamma iperprotettiva nei miei confronti, ma capivo che il suo comportamento era solo dettato dalla responsabilità che sentiva nel tenermi al sicuro da ogni guaio e dal bene infinito che provava per me. Escludevo tendenze omosessuali solo perché una volta, ubriaco fradicio, c’avevo provato con lui (secondo il suo racconto perché io non ne ho memoria) ed il mattino seguente mi sono ritrovato con il naso mezzo rotto e tampone per il sangue su per una narice.
“Stai tranquillo” gli dissi, divertito ancora dal ricordo che mi aveva involontariamente evocato “non sono né in galera, né in ospedale … sono solo a casa di una ragazza” “A casa di una ragazza? Ma se le uniche ragazze che abbiamo incontrato ieri sera erano … Tyler sei andato a letto con la tipa del locale?”. D’improvviso sembrava aver perso tutta la preoccupazione e ritrovato il suo così tipico entusiasmo infantile “Amico mio? Ma che c’hai dentro quelle mutande … non ti stanchi mai?” scoppiammo a ridere entrambi perché, in fondo, di acqua sotto i ponti ne era passata tanta, forse anche troppa, ma noi eravamo rimasti gli stessi ragazzetti cretini che sottobanco, al liceo, si passavano i giornaletti a luci rosse, o facevano la gara delle dimensioni sotto le docce negli spogliatoi della palestra.
Le nostre risate fecero risvegliare Mallory … no, lei era Allison ed era giusto che io la chiamassi così … che si contorceva come una gattina dispettosa tra le lenzuola di quel lettino, troppo scomodo per avere un riposo decente. Aveva bisogno di un letto vero …
“Ora devo lasciarti … non so quando torno …” “Ma Tyler!!! ...” pigiai il tasto rosso prima che potessi sorbirmi qualsiasi rimprovero dal mio amico e prima che mi costringesse a dargli spiegazioni che non potevo, non volevo e non sapevo dargli. Onestamente, mi avrebbe preso per pazzo e l’avrei capito. Ma questa era una cosa mia, lui non doveva entrarci, non ancora.
Mi avvicinai al divano e la vidi ancora sonnecchiante, in quello stato di torpore che, grazie alla luce che finalmente entrava in quel monolocale, la rendeva innocente e sensuale allo stesso tempo, una bellezza intrappolata a metà tra il paradiso ed inferno che mi mandava in tilt. C’era poco da fare: era un bellissima ragazza e io non rimanevo indifferente ma, per una volta, il mio organo riproduttore doveva starsene a riposo dov’era, e lasciarmi fare quello che dovevo, quello che era giusto. Mi sedetti al suo fianco, cercando di essere il più cauto possibile e limitare il cigolio al minimo, e stetti a bearmi di lei; era troppo bella per staccarle gli occhi di dosso, troppo bella per dover essere sprecata a quel modo, sgualcita come un straccio per la polvere, trattata a mo’ di oggetto. Ma non erano solo le ferite dell’animo a preoccuparmi. Girandosi, aveva portato un braccio al di sopra della sua testa, mettendo in vista diversi graffi e lividi. Anche la sera precedente, mi ero accorto di una piccola ombreggiatura, mentre fissavo il suo fondoschiena, quando eravamo ancora nel locale. All’inizio, data anche la penombra, avevo ipotizzato una voglia, o qualcosa del genere. Alla luce di quelle spiacevoli rivelazione, non impiegai molto a fare due più due … non mi interessava proprio capire il motivo dei quei graffi e lividi, perché più ne scoprivo e sapevo su di lei, più il senso di nausea e la rabbia crescevano esponenzialmente in me. Ora più  che mai avevo voglia di porre fine a quello schifo.
Si stropicciò gli occhi mentre il sole filtrava dalla finestrella misera della stanza e mugugnava qualcosa che non capii, forse stava ancora sognando. Ed invece aprì i suoi meravigliosi occhi e non potei fare a meno di sciogliermi. La matita e il resto del trucco sbavato non bastavano a sminuire quegli smeraldi incastonati nel suo viso d’angelo tentatore. Era il ritratto dell’innocenza rubata, di una malizia forzata da cause di forza maggiore.
“Ehi” le sussurrai, sorridendole, non riuscendo a smettere di fissarle quei meravigliosi occhi verdi.
“Ty … Tyler?” mi chiamò, stupita, ancora stordita dal sonno “sei ancora qui?”. Tra tutte le cose che poteva chiedermi, aveva scelto proprio la più complicata; temevo che potesse respingermi, e mi auguravo che non lo facesse ma, in cuor mio, sapevo che aveva tutti i diritti di farlo. Chi ero io in fondo per entrare così prepotentemente nella sua vita, senza nemmeno chiedere permesso?
La fissai ancora per un po’, ma dai suoi occhi assonnati era difficile scorgere qualche pensiero o idea a tal proposito. Ma la dovevo smettere di vedere il bicchiere perennemente mezzo vuoto; pensa positivo Tyler, cazzo! Magari è solo sorpresa!
Così presi coraggio, era la terza o quarta volta in meno di ventiquattro ore, praticamente un record per me. “Ti da fastidio?” le domandai, tentando di celarle la mia inquietudine non solo per quella strana situazione, ma anche sul quadro più ampio, su ciò che le pieghe della sua vita nascondevano e su ciò che avrebbe potuto cambiare e migliorare, se solo avesse voluto.
“No” rispose, schietta. Probabilmente Allison non conosceva il significato dell’espressione avere peli sulla lingua, probabilmente il tipo di vita che conduceva le aveva insegnato che non c’erano mezzi termini: il sì era un sì ed il no era un no, il nì via di mezzo non era contemplato. “Solo …” proseguì “… gli altri di solito se ne vanno prima del mio risveglio. Anzi, di solito vanno via prima che io mi addormento”. C’era un pizzico di fastidio nella sua voce, come se, per la prima volta probabilmente, avesse vergogna di mostrarsi per quello che era. O meglio, come se temesse che la parte che tutti gli altri conoscevano di lei potesse avere la meglio davanti a me. C’era come un muro di difesa, ma anche d’attacco, di fronte a me; costruito per difendersi forse da quella parte scomoda di sé, e per aggrapparsi a me, per qualche motivo. Non potevo che inorgoglirmi a quella sensazione.
Istintivamente la mia mano corse alla sua guancia, calda e vellutata, bianca come le bambole di porcellana esposte in bella mostra nella camera di Caroline. Eppure lei non metteva soggezione, il suo sguardo non era vitreo come quello dei fantocci. Era viva e i suoi occhi correvano su di me in mille posti diversi, come se non sapessero cosa osservare per prima, come se volessero ricordare di me il più possibile, a conferma forse che per lei ero solo un sogno e che doveva portare con sé il mio ricordo al suo risveglio.
“Ma io non sono come gli altri” le rassicurai, mentre abbozzò un sorriso, a cui evidentemente non era particolarmente avvezza. Un risata si concede a chiunque: ad un comico di bassa lega, alle vignette di un cartone animato; ma il sorriso, il sorriso è solo per chi ti vuole bene … chissà quand’era stata l’ultima volta che per lei erano stati provati sentimenti veri, e non rigurgiti di sessualità repressa e subdola. Era raro per me capire una persona così velocemente, di solito non lasciavo che la prima impressione mi guidasse nella scelta delle mie compagnie, eppure in me c’era la strana percezione di conoscersi da sempre, che non ci fosse nulla da dirsi perché c’avevano pensato già le nostre vite, così tacitamente speculari, a raccontarcelo.
Mi alzai a malincuore da quel letto, dove avrei volentieri passato il resto della mia esistenza, immerso in quello stato di beatitudine totale, a cui non ero più abituato, ma a cui ci si può assuefare facilmente. Non c’era niente che giustificasse un rapporto tra noi, né alcun sentimento reciproco, eppure era un piccolo rifugio dove stavamo bene entrambi e per un po’ c’eravamo dimenticati di cosa ci aspettasse fuori.
Andai nel piccolo angolo cottura e misi a scaldare l’acqua per il caffè. Non ero abituato a farlo così, visto che era già stato un miracolo imparare ad usare la macchinetta automatica; speravo davvero di non sbagliare le dosi. Rovistai nei bustoni della spesa che non avevamo svuotato la sera precedente e trovai la confezione di frollini al cacao che ricordava vagamente quelli che usavo io a colazione.
“Sono quasi tutti rotti” mi lamentai mentre tornavo a sedermi sul letto, aprendo il pacco di biscotti. “Oh fa niente” mi tranquillizzò mentre ne portava uno in bocca “tanto comunque in bocca si rompono”. Scherzammo insieme ancora mentre aspettavamo che l’acqua fosse calda per scioglierci il caffè. Non fu una conversazione costruttiva, non servì a conoscerci l’un l’altro più di quanto non avessimo fatto nella notte: mi raccontò della sera precedente, di come si era sentita sollevata quando le avevo detto che volevo stare con lei e che la rabbia per il mio comportamento era dovuta soprattutto al rifiuto in sé, piuttosto che al tempo o al denaro perso.
“Posso farti una domanda?” le chiesi, mentre bevevamo il caffè; non era uscito male, per fortuna. “Dimmi”. “Perché mi hai lasciato venire qui? Sapevi benissimo che non volevo nulla di ciò che volevi offrirmi eppure non hai opposto resistenza quando ti ho detto che volevo passare del tempo con te …” avevo il terrore della sua risposta, ma dovevo sapere.
“Forse dovrei smettere di bere sul lavoro” confessò, con una risata quasi isterica “a fine serata mi dà leggermente alla testa e non capisco più molto di quello che faccio o dico”
“No, dovresti smettere a prescindere perché è una merda quello che danno da bere là dentro, ho il sospetto che ci sciolgano qualche colla o resina tossica” “Noooo” smentì immediatamente, scherzando “al massimo circola qualche bottiglia scaduta!!!” Anche la sua risata era bellissima, cristallina; dava davvero l’idea di trascorrere per la prima volta dopo tanto tempo un momento sereno. E stava facendo apprezzare anche a me quell’istante, così piccolo e semplice eppure prezioso. “Comunque” continuò “davvero non saprei Tyler … sicuramente ero un po’ brilla … e forse, forse per una volta mi andava di passare la notte con una persona per bene”
Quello che mi disse mi sorprese; ovviamente ero felice di sapere che si fidasse di me, ma non riuscivo a capire come potesse reputarmi una persona per bene in così poco tempo. “Ma come fai a dirlo? Avrei potuto recitare la parte del galantuomo e poi approfittare di te …”
“Ma dai!!! Guardati, non faresti male ad una mosca!”. E no! Questo è giocare sporco e ferire il mio orgoglio di maschio.
“Senti” replicai “non avrò il fisico da wrestler ma non mi sembra di essere un pappamolle!” “Non sto parlando del fisico Tyler!” spiegò lei “io li conosco i clienti del locale, hanno tutti la stessa faccia e anche se cercano di mascherarlo io lo so che sono maiali fino al midollo. Ma tu no”.
Cuore mio, ti prego, cerca di non farti scoprire a battere così forte, ma soprattutto cerca di non abbandonarmi proprio ora. Non ci riusciva Allison a non essere provocante, era più forte di lei; le bastava ridurre la sua vicinanza a meno di 10 cm che chiunque le fosse stato davanti, nella fattispecie io, le sarebbe caduto ai piedi. Era incredibile.
“Basta Allison” la ripresi “stiamo facendo un discorso serio. Sai che non mi devi nulla e che non pretendo niente da te”. Mi alzai dal letto e nel piccolo lavandino posai le tazze.
“E allora tu?” fece lei “perché sei venuto da me? Se non è il sesso che vuoi, che sei venuto a fare?”
Come gliel’avrei detto? Quali parole usare per non ferirla? Perché diciamo la verità: quante possibilità c’erano che non s’incazzasse con me? Avrei finito col definirla una prostituta o peggio ancora, le avrei fatto la predica sui valori morali e altre stronzate che fanno più prete di campagna che studente squattrinato e festaiolo. Mi appoggiai al piano del lavello e presi un respiro profondo. La testa mi pulsava: i postumi del venerdì sera non erano ancora andati via e la tensione del momento mi stava infliggendo il colpo di grazia.
“No non è per il sesso” confermai “e ad essere sincero non posso permettermi di spendere quanto mi chiedevi …” “Ah no?” chiese meravigliata “ma tuo padre …” “Con mio padre ho chiuso i ponti un anno fa …”. Io non mi spinsi oltre, lei non pretese altro da me, proprio come era accaduto con lei nella notte, quando avevamo scavato un po’ nel suo passato.
“Beh … se credevi di potermi sfilare dei soldi allora sei venuto proprio nel posto sbagliato” assicurò amareggiata “e i soldi di ieri sera mi servono per … o cazzo! Che ore sono?”.
Quando scoprì che erano ormai le 10.30 entrò letteralmente nel panico, scorrazzando avanti ed indietro per quella stanzetta come se avesse a disposizione un anello di pista d’atletica. Iniziò ad affilare la spesa nella piccola credenza, incurante del fatto che fossi ancora lì con lei e che stavamo avendo una conversazione. Da un lato mi rincuorò sapere che non avrei più dovuto dirle nulla, ma quel suo atteggiamento era troppo strano, sospetto; la sua agitazione arrivò al punto in cui, per lavare le tazze e la caffettiera, mi strattonò con violenza (alla quale non mi opposi): “Levati di mezzo” mi disse, senza tante smancerie.
“Che ti prende?” le chiesi.
“Te ne devi andare” mi ordinò, senza giri di parole, ancora con le mani immerse nell’acqua. “Che cosa?” domandai, ancora più incredulo. “Hai capito benissimo. Te ne devi andare.” “Ma perché?” proseguii, insistendo “stavamo così bene e di punto in bianco mi cacci?”; mi sembravo un adolescente alla prima cotta, la dovevo smettere di rincretinirmi per una ragazza che evidentemente, capito l’andazzo, non aveva alcuna voglia di starmi a sentire.
“Questa è casa mia. Saranno anche un po’ cazzi miei?” non aveva tutti i torti, eppure quella colazione fatta insieme, quelle domande che ci eravamo rivolti fino a pochi minuti prima mi avevano dato la percezione che forse sarei riuscito a perforare quella parete stagna che aveva messo tra me e lei. Ma si era chiusa, di nuovo.
“Senti” mi avvicinai a lei, cauto, mentre scalzava la biancheria dal materasso: non avevo alcuna intenzione di tornare a casa con dei lividi che non avrebbe impiegato molto a provocarmi. “Ti chiedo scusa se ho invaso troppo la tua privacy, non era mia intenzione. Se ti ho ferito in qualche modo devi dirmelo, parleremo di quello che vuoi tu …”
Si fermò dalle sue faccende, mentre riponeva in uno dei cassetti del comò le lenzuola, si voltò verso di me e mi fissò, irritata e nervosa, per meno di cinque secondi. Tanti ne bastarono per farmi capire che non era proprio aria e avrei fatto meglio a starmi zitto. “Dammi una mano a chiudere il divano, dai” mi disse. Imitai le sue mosse, e sembrò calmarsi un attimo, in quell’atmosfera dal sapore vagamente fraterno. “Sta per arrivare il capo” confessò “e se ti trova qui c’ammazza a tutti e due” “Ma è casa tua!!!” sbraitai, incredulo. Ok, era il suo datore di lavoro, oltre che affittuario, ma questo non gli dava nessun diritto sulla vita privata delle ragazze.
“Magari … il fatto è che se ti trova qui dentro penserà che sei un cliente … e vorrà la sua parte …” ammise, ed era evidente che si vergognasse a morte. Sapevo benissimo quale fosse la sua professione, ma non immaginavo che la faccenda potesse assumere determinate dimensioni. Era come un iceberg: la parte esterna è solo un inerzia rispetto al sommerso.
Ci siamo, pensai; paradossalmente era proprio quello il momento più opportuno per dirle perché ero rimasto fuori dal locale ad aspettarla, perché avevo passato la notte con lei, perché avevo scelto lei per preparare, per la prima volta nella mia vita, la colazione ad una donna. “Non lo fare più quel lavoro, Allison” la supplicai “non c’andare più!”
Mi fissò, incredula che potessi veramente averle fatto una richiesta simile. “Stai scherzando vero?” “No” “E secondo te cosa potrei fare?” “Siamo a New York, lo troverai un lavoro più decente di questo, anche pulire i cessi della stazione … è sempre meglio che fare la puttana!”
Lo sapevo, me lo sentivo che sarei arrivato a quel punto. Avevo fatto e detto esattamente le parole che mi ero ripromesso di non usare. Ora me lo meritavo proprio di essere preso a botte e di essere cacciato da quella stanza.
Allison si buttò sul divano, accendendo una sigaretta. Sembrava quasi che le mie parole non l’avessero nemmeno scalfita. Si portò le mani a coprirsi il volto e a massaggiarsi le tempie, come se anche lei avesse la stessa emicrania infernale che stava comprimendo il mio cervello.
“Tu non sai niente Tyler … niente. Che ne puoi sapere? Male che ti va corri da mammina e papino e la situazione è risolta. Io non ho nessuno pronto a pararmi il culo”.
Voleva ferirmi, ma credo che in quel modo ferisse più se stessa, ricordando l’amara verità della sua condizione. Probabilmente aveva ragione: su di lei non avevo alcun diritto e non potevo pretendere dal giorno alla notte di toglierla dalla strada e pensare che mi permettesse di farlo stendendo un tappeto rosso al mio passaggio. Come aveva detto lei, io non sapevo niente, non avevo idea di cosa volesse dire vivere in quel mondo, in quel modo.
“Vai via Tyler Hawkins … è meglio così”.
















NOTE FINALI
Oggi non voglio tediarvi con delle note finali, immaginando già il vostro stato d'animo, visto che sarà identico al mio.

Quando ho scritto il capitolo mi è costato tanto sudore, ma credo che debba essere così la loro "relazione", il loro rapporto: un andirivieni continuo, un passo avanti e tre indietro. Ma è così che funziona nella vita vera.
Vi ringrazio per il seguito, anche se mi piacerebbe sentire molte più voci...per quanto possibile su un sito internet!!! XD
Vi ricordo che potete passare a salutarmi quando vi pare sulla mia pagina FB e su Twitter; i link sono nella mia pagina qui su EFP.

à bientot

Federica



   
 
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