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Autore: Maggie_Lullaby    10/03/2011    3 recensioni
Samantha Sparks è una ventisettenne affascinante da un passato malinconico e un presente che non guarda il futuro che da due anni lavora come Agente Sotto Copertura per l'FBI. Quando viene chiamata a collaborare con l'Unità d'Analisi Comportamentale non ha idea che quel caso cambierà drasticamente il suo futuro.
Genere: Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Un po' tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 5.

[…] finché la rappresentazione di essa sia possibile dentro la maschera soffocante che da noi stessi ci siamo imposta o che da altri o da una crudele necessità ci sia stata imposta, cioè fintanto che sotto questa maschera un sentimento nostro, troppo vivo, non sia ferito così addentro, che la ribellione alla fine prorompa e quella maschera si stracci e si calpesti?

{Luigi Pirandello}


Una donna dal fisico felino, i lunghi capelli mori tenuti stretti da una pinza elegante che le conferiva un'aria sofisticata, le labbra truccate attentamente con un rossetto rosso, una camicetta bianca e un tubino beige attraversò l'atrio del “Law National Studio”, facendo voltare verso di lei numerose occhiate curiose, di cui la maggior parte mostravano un chiaro desiderio da parte del pubblico maschile.

Samantha muoveva il proprio corpo lentamente, adattando la camminata ai gesti sensuali che stava facendo, come aggiustarsi il ciuffo dei capelli volutamente sbarazzino.

Camminò elegantemente sino agli ascensori e premette il tasto che l'avrebbe portata al settimo piano, la ventiquattr'ore nella mano destra.

Mentre saliva, sola nell'ascensore, si mise a canticchiare Emotional Rescue, dei Rolling Stone, tenendo il ritmo con la mano sinistra.

Quando le porte si aprirono si ricompose e, riprendendo la camminata di prima, si diresse verso l'ufficio che indicava il nome di Sean O'Connor.

Prima di bussare, prese in mano la targhetta che teneva sempre al collo e vi stampo sopra un bacio, un vecchio rito che condivideva da quando aveva iniziato a lavorare all'FBI e, dopo aver passato il dito indice sull'incisione, bussò alla porta in legno su cui la targa “Sean O'Connor – Avvocato Penalista” risplendeva splendida.

«Avanti.», disse seccamente una voce d'uomo dall'altra parte della porta e Samantha entrò, montando un bel sorriso gentile e servizievole, ma allo stesso tempo seducente, per poi richiudersi la porta alle spalle.

«Buongiorno, signor O'Connor.», disse lei, avvicinandosi alla scrivania dove era seduto l'avvocato e porgendogli una mano per stringergliela. «Sono Elena Foster, la sua nuova segretaria personale, se ben ricorda abbiamo parlato ieri pomeriggio.»

Sean O'Connor ricambiò la stretta, la presa non molto salda. Era un uomo vicino ai cinquantacinque anni, gli occhi piccoli e scuri, i capelli corti attentamente curati di un moro particolare, probabilmente tinto, la corporatura massiccia. Sarebbe stato capacissimo di stordire una persona. Samantha se lo segnò mentalmente.

La ragazza gli porse il contratto da lei firmato che le era stato mandato il pomeriggio precedente e lo appoggiò sulla scrivania.

Sean vi lanciò una piccola occhiata, prima di parlare.

«Certamente».

«Mi dia un posto dove poter svolgere il mio lavoro e sono pronta per iniziare, signore.», sorrise Samantha, mentre tentava di mantenere sotto controllo l'antipatia che sentiva a pelle per quell'uomo.

«La scrivania qui fuori dalla porta.», disse Sean, guardandola, passando con gli occhi sul suo corpo flessuoso e fermandosi più volte sulle sue curve.

La ragazza lo guardò. «Grazie mille, signore. Se mi dice cosa posso fare, inizierei immediatamente a lavorare.».

«Torni qui tra cinque minuti», sbottò l'avvocato, facendole cenno di uscire.

Samantha annuì e chinò il capo, come per ringraziarlo. Fuori dal suo studio, sulla sinistra, c'era una grossa scrivania vuota con una sedia in legno. Probabilmente, quella era appartenuta alla stessa Jamie Hudson. La ragazza si sedette e appoggiò la propria ventiquattr'ore sulla superficie in legno della scrivania, dopodiché la aprì e tirò fuori una cornice argentata che ritraeva un bambino sorridente.

Il giorno prima lei, Hotch, Reid e Garcia avevano lavorato strenuamente sino a tarda notte cercando di fare più ricerche possibili su Sean O'Connor. Era venuto fuori che era divorziato da due anni e separato da un secondo matrimonio conclusosi dopo soli cinque mesi. Non aveva figli. Dalle ricerche era venuto a galla che si trattava di un maschio alfa, con gravi scatti d'ira; aveva lavorato sempre come avvocato, cambiando però spesso studio legale. Guadagnava tanto e risparmiava poco. Sembrava ossessionato dal proprio aspetto fisico, che curava recandosi in palestra quattro giorni a settimana, seguito da un personal trainer, e aveva una passione per le macchine sportive, i locali e gli orologi costosi.

Il piano era quello che Samantha si sarebbe infiltrata nel suo ufficio come segretaria personale - grazie all'aiuto di Susan Holmes che, non appena aveva saputo che sospettavano di O'Connor, aveva dato la propria disponibilità per partecipare alle indagini - spacciandosi per una trentenne single con un figlio, Russel, a carico. Padre assente. La foto era stata scattata il giorno prima, e il bimbo ritratto non era altro che il figlio di uno dei poliziotti, ritoccato un po' da photoshop.

L'unico ostacolo era quello di far dimostrare a Samantha di avere trent'anni, poiché di per sé ne dimostrava appena venticinque, ma era un problema sorvolatile. Ora l'unica cosa su cui Samantha doveva concentrarsi era una: far confessare O'Connor in qualsiasi maniera possibile.

Mise a posto qualche documento sulla scrivania, qualche penna in un portapenne e, dopo aver bussato, si ripresentò da Sean, esattamente cinque minuti dopo.

O'Connor la guardò e fece un minuscolo sorriso di apprezzamento.

«Chiamami l'avvocato Tyson allo Utah Insitute e me lo passi sulla linea 2, inoltre voglio che mi trovi tutto ciò che puoi sul caso Andersen negli archivi. E mi porti un caffè macchiato». Quell'ultima richiesta, Samantha lo sapeva, era una prova: una segretaria non doveva portare il caffè al capo come ordine, e non molte avrebbero eseguito senza rispondergli male. Lei, semplicemente, fece un sorriso.

«Con o senza zucchero?», domandò.

Il sorriso di Sean si fece man mano più grande.

«Due cucchiaini.».

«Come fatto.», disse lei, gentilmente, uscendo dall'ufficio, gli occhi del suo capo puntati sul suo fondo schiena.

**

Samantha lavorava come segretaria di Sean da due giorni e, in quel lasso di tempo, non vi furono ritrovamenti di nuovi cadaveri. Questo fece supporre alla squadra che l'S.I., se si trattava di O'Connor, aveva già messo gli occhi sulla sua prossima vittima: e quella era Samantha.

Ogni sera, dopo il lavoro, la ragazza si fermava qualche minuto in più oltre l'orario insieme a O'Connor, facendogli vedere quanto tenesse al suo lavoro, dandogli anche la possibilità, nel caso, di cercare di aggredirla dati gli studi vuoti, avendo in questa maniera la prova per incriminarlo, oppure per farsi invitare fuori per un drink, tale da poterlo ubriacare a magari farsi rilasciare una confessione dopo molte avance.

Dopo l'ufficio la ragazza andava nell'hotel in cui alloggiava insieme al resto della squadra e facevano il punto della situazione. Ora come ora erano tutti propensi a sospettare di O'Connor, anche se non abbandonavano altre possibilità, anche se le loro ricerche per ora non avevano portato ad ulteriori sospettati.

Era la sera del terzo giorno di lavoro di Samantha, e la ragazza stava sistemando gli ultimi archivi prima di andarsene. Prima di uscire bussò alla porta chiusa di O'Connor e quando ricevette risposta la aprì.

«Signor O'Connor, io andrei. Buona notte.», disse, con un gran sorriso.

Sean era chino sui suoi documenti, ma come la sentì entrare voltò lo sguardo verso di lei.

«Aspetta, Elena.», la richiamò, vedendo che stava per uscire. Chiuse i documenti in un cassetto a chiave e si avvicinò a lei.

Samantha non gli aveva mai detto che poteva darle del tu, era un lusso che si era preso da solo, ma lei non si lamentava.

«Mi dica.», disse.

Sean richiuse la porta e istintivamente l'agente infilò una mano nella tasca destra dove teneva un coltellino.

«Vuoi uscire a cena con me, questa sera?», domandò.

Samantha lo guardò qualche secondo, mentre dentro di sé pensava che era il piano perfetto, il momento che stava aspettando.

«Con molto piacere, signore», commentò lei, ingrandendo sempre più il sorriso.

«Chiamami Sean», disse lui.

«Come vuoi, Sean. Devo passare a casa a cambiarmi e a lasciare mio figlio da mia sorella, dove ci incontriamo e a che ora?», chiese lei.

«Al Lime Night, sulla Ventisettesima Strada. Diciamo... alle otto?».

Samantha annuì e uscì dall'ufficio, afferrò la propria borsa e si diresse lentamente verso l'ascensore, chiamandolo.

Nel parcheggio riservato ai dipendenti era rimasta solamente la sua auto, una vecchia Ford datele a disposizione dalla polizia, e la bella Ferrari rossa nuova fiammante di O'Connor. Non appena salì il suo sorriso si sciolse e digitò il numero di JJ al telefono.

«Tirami fuori un abito da sera dall'armadio, per favore. Questa sera si va a ballare.»

*

«Sei sicura?», le aveva chiesto Rossi mentre Samantha si preparava ad uscire dall'albergo sola, con una rivoltella infilata nella piccola borsa che si sarebbe portata con sé. Rossi si era offerto di rimanere insieme a Morgan o Prentiss con lei a spiare O'Connor ed intervenire in caso di necessità.

Samantha aveva annuito, sicura della sua decisione.

«Sono abituata a lavorare in questo modo. Vi chiamerò se ci sarà bisogno d'aiuto. Voi state pronti.» ed era uscita, lasciando David con l'asciutto in bocca e una brutta sensazione allo stomaco.

Al contrario, lei era tranquillissima. Aveva lavorato con individui ben peggiori di Sean, e sapeva perfettamente che l'unica cosa che voleva O'Connor era una: il sesso.

Era sempre riuscita a tirarsi indietro da simili avance dei suoi sospettati, facendo la preziosa, cosa che li mandava insieme sia fuori di testa sia arrabbiare. In questa maniera, si era beccata un paio di schiaffi ma fortunatamente nulla più.

Salì sulla Ford e guidò sino al Lime Night con molta calma, mentre nell'abitacolo risuonava un CD di Kate Bush. Sapeva che, probabilmente, a meno che Sean non avesse provato subito ad aggredirla, non ci sarebbe stato modo di estorcergli alcun tipo di informazione, non quella notte. Era troppo preso. Avrebbe dovuto aspettare ancora qualche giorno prima di riuscirci.

Il suo lavoro era così, calmo e metodico, e Samantha era perfettamente consapevole che bisognava avere una solida preparazione psicologica per affrontarlo; quanti avrebbero avuto la solidità di nervi di non puntare a fine serata una pistola alla tempia del sospettato dopo aver passato un'intera serata a parlare solamente di sciocchezze e flirtare? Quanti sarebbero riusciti a quasi avere un rapporto sessuale con un probabile pluriomicida, sapendo perfettamente ogni cosa che faceva alle sue vittime?

Samantha era stata formata per quel lavoro, da quando aveva sedici anni aveva deciso che doveva fermare persone come i serial killer, doveva fermare i cattivi, ma non solo lavorando a distanza da loro, avendo con loro un confronto solo in occasione dell'arresto, o dell'interrogatorio. No, lei voleva essere lì mentre confessavano di aver distrutto intere vite umane, voleva essere lei a far loro ammettere di essere dei mostri.

E ci era riuscita. E amava il suo lavoro, per quanto sporco e schifoso a volte potesse essere.

Sospirò, mentre parcheggiava davanti al locale e spegneva l'auto. Mancavano esattamente due minuti alle otto.

Con un sorriso raggiante scese dalla macchina, lasciando che l'abito nero che JJ le aveva scelto le accarezzasse le gambe snelle sino a metà coscia. Afferrò la propria borsetta e, camminando con le sue scarpe quasi vertiginose, entrò nel locale dopo essersi fatta aprire la porta da un bodyguard.

Il Lime Night era un piccolo bar dalle luci colorate tendenti al blu e al verde soffuse, molto elegante e, Samantha ci scommetteva, altrettanto costoso. Non era entrata da nemmeno quindici secondi che un cameriere giovane, vestito di tutto punto, le si avvicinò con un sorriso a trentadue denti.

«Posso esserle utile, signorina?», domandò servizievole.

Samantha annuì, sfilandosi il lungo giubbotto in tinta con il vestito e consegnandoglielo gentilmente.

«Sto cercando Sean O'Connor», disse poi.

«Oh, la signorina Foster! Prego, mi segua.». L'uomo si mise il cappotto sottobraccio e le fece strada sino a un separé piuttosto appartato in cui era seduto Sean O'Connor.

«Buona serata.», augurò loro il cameriere, prima di lasciarli soli.

«Ciao, Sean.», disse Samantha, avvicinandosi al suo capo e questi, non appena udì la sua voce, si alzò dal divanetto su cui era seduto e le sorrise.

«Elena.», mormorò, prendendole la mano destra e baciandola. «Sei bellissima».

«Grazie, anche tu», ricambiò Samantha, abbassando il capo fingendo di essere imbarazzata per il suo complimento. Dirgli che era bello era già un punto a suo favore, O'Connor era un maschio alfa e avere la certezza della sua bellezza fisica gli dava rassicurazioni.

«Sei perfettamente puntuale.», sorrise Sean, compiaciuto.

«Non amo fare la preziosa arrivando volutamente in ritardo», spiegò la ragazza sedendosi accanto all'uomo, toccandosi i lunghi capelli.

O'Connor deglutì, probabilmente quel gesto aveva innescato in lui chissà quale reazione.

Samantha si voltò verso di lui, una mano straordinariamente vicina alla sua gamba, puntando i suoi grandi occhi blu in quelli di Sean.

«Ordiniamo da bere?», domandò volutamente a bassa voce e l'uomo annuì velocemente. Samantha si rese conto in quel momento che, nonostante l'età che avanzava, Sean conservava ancora un certo fascino giovanile e, ne era sicura, sul suo viso non c'era traccia di lifting.

Afferrò con una mano il menù degli alcolici, sporgendosi volutamente verso di lui lasciando intravedere per pochi secondi la scollatura dell'abito.

O'Connor distolse lo sguardo e prese a sua volta un menù, svogliandolo attentamente, cercando di non farsi vedere mentre, a tratti, con la coda degli occhi la guardava.

«Io ordinerei una vodka lemon.», disse la ragazza. «Tu?».

«Un mojto.», borbottò, chiudendo il menù e tornando a fissarla. «Spero che tu non abbia avuto qualche problema a lasciare tuo figlio da qualche parte con così poco preavviso.».

Stava spezzando il ghiaccio. Era una buona cosa.

Samantha sorrise.

«Affatto. Mia sorella, Annika, è stata molto disponibile, fortunatamente».

«Com'è che si chiama tuo figlio, scusami?».

«Russel.».

«Splendido nome.», disse Sean, inarcando gli angoli della bocca in su. «Immagino sarà un bellissimo bambino.».

Samantha ridacchiò, scostandosi una ciocca di capelli e sistemandosela dietro un orecchio.

«Molto.».

«Avrà preso tutto dalla mamma.», la adulò Sean.

«Oh, Sean, così mi fai arrossire!», mormorò lei, acuendo leggermente il tono di chi è imbarazzato.

«E invece dimmi, il padre?».

«Il mio ex compagno non ne ha voluto saperne di prendersi simili responsabilità quali un figlio. Ma non c'è problema: si è perso cinque anni di gioie», disse lei, muovendo una mano mentre parlava mentre l'altra era sempre pericolosamente vicina a una gamba del suo capo.

Sean adocchiò la mano della sua sottoposta e sorrise.

«Mi spiace.», disse.

Samantha scrollò le spalle.

«Non importa. Russel ed io ce la caviamo bene comunque. Ma ora, dimmi qualcosa di te: hai figli?».

Sean stava per iniziare a parlare, quando un cameriere, lo stesso che poco prima aveva accompagnato Samantha nel separé, chiese loro le ordinazioni, per poi sparire di nuovo.

«No.», riprese l'avvocato. «Non ho figli, anche se mi piacerebbe.».

Samantha cercò di nascondere per un istante la sorpresa a quell'affermazione.

«Non hai ancora trovato la donna giusta per mettere su famiglia?», domandò fingendosi ignorante riguardo alla sua vita privata e sorseggiando un goccio di vodka. Solitamente gli agenti non dovevano bere quando erano in servizio, ma oltre al fatto che sarebbe sembrato strano non ordinare un alcolico in un locale, Samantha riusciva a sopportare benissimo l'alcol.

«Sembrerà banale, ma sì.», disse Sean, aprendo le braccia lasciandole poi ricadere lungo i fianchi. «Le mie ex mogli erano troppo preoccupate alla propria forma fisica per rischiare di perderla con una gravidanza.».

Man mano che parlava Samantha tentava sempre più di tenere a bada la sorpresa; quell'uomo, dalle sue parole, sembrava essere capace di avere figli. Quindi non era impotente. Non si adattava al profilo.

A meno che non mentisse.

«Oh, sei stato sposato più volte?», chiese lei, continuando a bere il proprio drink. Sean la imitò.

«Sì, due. Non erano quelle che mi aspettavo che fossero.».

La ventisettenne lo stava del tutto rivalutando e più era al suo fianco più si rendeva conto che quell'uomo non si adattava affatto al profilo. Avevano sbagliato strada, il fatto che Iris Isaac e Jamie Hudson avessero avuto entrambe dei contatti con lui era, per una volta, una mera coincidenza.

Chinò il capo sconfortata socchiudendo gli occhi per lo sconforto mentre O'Connor, ormai, parlava della sua vita, dei suoi soldi, della sua famiglia e della propria persona.

Era arrogante, un maschio alfa, narcisista, certo, ma non era l'S.I.

«Tu hai preso qualche precauzione?», le domandò un'ora e cinque drink più tardi, intontito per la quantità d'alcol assunta senza nemmeno mandare giù un pezzo di pane.

«Di che genere?», chiese Samantha, che era ancora a metà del terzo alcolico e si sentiva perfettamente lucida.

«Per il serial killer di quest'ultimo mese.», disse Sean, un braccio ormai totalmente intorno alla vita della ragazza.

«So cavarmela da sola.», ribatté lei.

«Non dovresti affidarti solo a te stessa.», disse O'Connor. «Sono morte tante donne.».

«Lo so.», annuì tristemente l'agente. «Lo so.».

«Due di loro lavoravano con me.», continuò lui. «Un'avvocatessa... e la segretaria prima di te. Uccise entrambe. Forse il nostro studio legale è maledetto, chissà.», buttò giù di un solo fiato l'ultimo sorso della sua vodka e si asciugò la bocca con la manica della camicia.

«Non credo al sovrannaturale.», disse Samantha.

Sean annuì, comprensivo.

«Dimmi, Sean, tre giorni fa, alle dieci, dov'eri?», domandò la ragazza, rendendosi conto che poteva fargli quella domanda senza il rischio che il mattino dopo l'uomo se ne ricordasse, e se avesse fatte domande ora come ora poteva benissimo confonderlo con una bugia di poco conto.

«In ufficio, che domande!», singhiozzò lui. «Come mai?».

«Credevo di averti visto in un supermercato vicino a casa mia...», disse lei, mentendo.

«Ah», fece lui, avvicinando il proprio capo a quello della ragazza e iniziando a baciarle il collo. Samantha lo lasciò fare, chiudendo gli occhi. Ora ne aveva la certezza: Sean O'Connor non era, nel modo più assoluto, l'S.I.

Quando la mano destra dell'avvocato si fece più molle e scivolò sino al seno della ragazza, Samantha scosse il capo.

«È ora che io vada.», disse. «Si è fatto tardi.».

Sean grugnì seccamente.

«Mi spiace. Devo andare a prendere Russel.», insistette Samantha, vedendo che Sean non accennava a volersi alzare. «Forse è meglio che ti chiami un taxi...».

«No, sono perfettamente capace di tornare a casa da solo», sbottò lui. Arrogante, giusto, non bisogna ferire il suo orgoglio, ricordò la ragazza.

«Va bene.», annuì lei, alzandosi e chinando il capo su di lui dandogli un bacio a fior di labbra. «Ci vediamo domani mattina, capo.».

Sean O'Connor annuì, con un sorriso arricciato sulle labbra sottili.

Samantha si fece portare il proprio cappotto dal cameriere, lasciò una banconota da trenta dollari sul tavolo, e si allontanò, dirigendosi verso l'uscita, voltandosi soltanto una volta per osservare l'avvocato.

Non l'avrebbe rivisto mai più, lo sapeva benissimo.


Continua...

Posterò “Somewhere in my mind” in settimana. :)

  
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