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Autore: Roxe    13/03/2011    4 recensioni
Ogni frase che iniziava con ‘io e Mary’ spostava qualcosa dentro di lui. In una direzione che non riusciva a controllare.
Un movimento nervoso ed imprevedibile, sul quale la mente non aveva alcuna giurisdizione.
E questo era in qualche modo terribilmente spaventoso, perché per la prima volta sentiva premere sulla parete della coscienza qualcosa di diverso dal pensiero razionale, che tentava d’infilarsi tra le maglie della ragione per emergere in superficie.

[ Pairing: Sherlock-John-Mary ] [ Pre-slash ] [ Rivality ]
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

 

 

 

Grey VERSUS Blue

 

 

 

Johnny, I’ll be late.
Don’t wait up for me.

 

Sollevando stancamente il pollice della mano destra Mary premette il tasto invio che lampeggiava impaziente sullo schermo del suo cellulare, allontanando la testa dalla ringhiera nel tentativo di resistere all’intenso desiderio di chiudere le palpebre e permettere al sonno di averla vinta su di lei.

Ormai si stava avvicinando inesorabile il momento in cui avrebbe dovuto ammettere che la sua si stava rivelando la seconda idea più scema della giornata, dopo quella di fare un trasloco alle sei di pomeriggio.

Anzi.
A ben pensarci restare seduta su una scala fino alle tre di notte, nell’attesa di qualcuno che non sapeva nemmeno se sarebbe mai rientrato a casa, era in assoluto  l’idea più cretina dell’intera settimana.
Probabilmente dell’intero anno.

Sbagliato ancora.
L’idea più idiota del secolo era appena scivolata via dalle sue dita, liberandosi nell’etere assieme a quel messaggio inviato a notte fonda, in risposta ai sette di John in cui le domandava dove fosse, se stesse bene, se doveva passare a prenderla o se avesse bisogno di qualcosa.

La parte più infantile di lei era rimasta aggrappata fino all’ultimo alla convinzione che finché non avesse mandato quel messaggio, avrebbe mantenuto la sua promessa.

Ma ormai era tardi anche per quello.
Era giunto il momento in cui si sarebbe finalmente alzata da quel gradino, avrebbe disceso quelle maledette scale e si sarebbe arresa.

Probabilmente aveva ragione fin dall’inizio.
Non c’era niente che lei potesse fare.

Doveva solo continuare a resistere, aspettando che il tempo sbiadisse a poco a poco i colori.

Era talmente presa dai suoi pensieri, ormai prigioniera di quella stanchezza che lentamente la stava conducendo nel limbo che precede il sonno ed attenua i sensi, preparando il corpo alla notte della coscienza, da non avvertire il rumore del portone mentre si apriva.
Non lo sentì richiudersi con un colpo secco.
E non captò i passi rapidi che salivano la scala nella sua direzione.

Ogni suono le giungeva all’orecchio come ovattato. Lontano.
Gli occhi si appannavano, a dispetto del suo estenuante impegno nel tenerli aperti.
Le membra perdevano forza.
Il busto si abbandonava delicatamente sulla ringhiera.

E d’un tratto lui entrò.

Prepotentemente ed inaspettatamente nel suo campo visivo.

Un piede sul primo gradino. La mano stretta sul mancorrente, pronta a far leva per proiettarlo verso l’alto. Il cappotto largo e scuro, completamente slacciato, intento a tracciare un’ampia parabola nell’aria spinto dalla rotazione che il suo corpo aveva appena compiuto.
Gli occhi dapprima socchiusi, contratti. Poi di colpo spalancati. Fissi su quella figura sottile, inattesa, raggomitolata in cima al suo pianerottolo.

 

Sherlock Holmes si bloccò.

 

Inchiodato su quel gradino.
Paralizzato alla vista di quella donna di fronte a lui. Ferma in mezzo alla sua strada. Sulla sua scala.
Di fronte alla sua casa.
Piazzata per traverso nella sua vita.

Lo stupore durò pochi istanti. Poi l’aria tornò a riempire i suoi polmoni, le membra s’irrigidirono con una violenta contrazione e le pupille si strinsero piantandosi su quel volto confuso e disorientato che sembrava uscito in quel momento da uno stato di torpore.

Non appena i loro occhi si scontrarono Mary scattò in piedi. Completamente sveglia.
Attraversata dal suo sguardo come un sottile foglio di carta è attraversato dalla luce, rivelando alla vista tutte le sue più piccole imperfezioni.
Si raddrizzò di colpo sulla schiena in una posa completamente innaturale, unendo le gambe e serrando i piedi l’uno contro l’altro, nel tentativo inconscio di occupare il minor spazio possibile, mentre le mani si aggrappavano alle braccia, quasi a tentare di sostenerle per evitare che le cadessero dalle spalle.
Terrorizzata.

Tutti i discorsi che si era ripetuta mentalmente in quelle nove ore, una volta, due volte, cento volte, seduta sul freddo gradino di quella scala, evaporarono d’improvviso dalla sua testa, dissolti dal violento riflesso di quegli occhi che ora la fissavano con sufficienza. Sdegno.

Rabbia.

 

Rimasero a lungo così.
Immobili.

L’uno di fronte all’altra.

Anche a quella distanza, anche se era quasi un metro più in basso di lei, costretto ad alzare la testa per poterla fissare negli occhi, Mary l’avvertiva chiaramente.
Lo schiacciante senso d’inferiorità che s’infiltrava in ogni muscolo al solo esistere nella sua stessa stanza.
C’era qualcosa in lui. Qualcosa d’indefinibile che si trovava in un punto imprecisato lungo il percorso tra il grigio dei suoi occhi, l’assoluta imprevedibilità dei suoi movimenti, la sua aria annoiata ed attenta e la sua mente straordinaria. Qualcosa che rendeva ogni incontro con lui molto più simile all’accostarsi di un magro pellegrino errante all’altare ricoperto d’oro di una divinità piuttosto che a un incontro tra due esponenti del genere umano.
Non era necessario essere intelligenti per capire quanto incredibile fosse la precisione, la vastità e la velocità del suo pensiero. Il suo genio era fin troppo grande per restare confinato nella sua testa, e così traboccava dagli occhi, diventando il suo sguardo.

Mary non fu capace di sostenerlo a lungo.
Abbassò presto la testa, fissando i disegni sbiaditi tracciati sulla stoffa rossa che foderava i gradini.
E maledicendo la sua stupida, stupida idea.

In quel momento non riusciva a ricordare nemmeno un solo motivo per trovarsi su quella scala.
Non una sola cosa che avessero da dirsi, o da spartire.
Ciò che avevano in comune era piuttosto la ragione per cui lei avrebbe dovuto trovarsi ovunque, tranne che lì.

Sherlock continuò a fissarla, assaporando ferocemente la sua vittoria su quella testa china e confusa.

Lei rimase immobile, aprendo e chiudendo le labbra senza emettere alcun suono.

Quando finalmente la voce uscì fu quasi un sussurro.
Appena percettibile.

 

- B… B-buongiorno.

 

Alle tre di notte.
Beh, era un inizio.

Lui non rispose.

Si mosse di scatto verso di lei.

Mary lo sentì avvicinarsi senza riuscire a sollevare il viso per guardarlo, mentre il cervello scavava in ogni angolo di se stesso alla disperata ricerca di una ragione.
Un motivo che le permettesse d’essere lì senza essere sciocca e inopportuna.

Pronunciò la prima frase che riuscì a trovare.

- Io… Io ho dimenticato una cosa importante nell’appartamento e… non sapevo come entrare per riprenderla, così-…

Lui continuò ad avanzare in silenzio.
Era a tre passi da lei. Due.
Un solo passo.

La superò passandole a fianco, senza rallentare, e si diresse spedito verso  il suo appartamento.

Lei non ebbe modo di sorprendersi. Si girò appena in tempo per vederlo raggiungere la soglia.
Sherlock esitò solo un istante prima di entrare, voltandosi a fissarla con sfacciato disprezzo, mentre spalancava la porta con una leggerissima pressione della mano, rendendo tristemente evidente quanto fosse falsa e stupida la scusa che si era appena inventata.

Poi tornò a darle le spalle ed entrò in casa, senza una parola.

- Ah!... io-…

Lei scattò in avanti, affrettandosi a seguirlo.
Pronta a scusarsi. A spiegarsi. Ad inventarsi qualsiasi altra cosa.
Pronta a…

 

SBAM

 

Qualche istante prima che potesse varcare la soglia dell’appartamento la porta si richiuse a pochi centimetri dal suo viso.
Con un gesto secco.
Deciso.

Inequivocabile.

 

Mary restò immobile di fronte a quel legno scuro, il naso a pochi centimetri di distanza, fissando le venature sottili che trasparivano appena sotto la lucida vernice.
E maledicendo se stessa.

Che diavolo ci faceva lì?

Con lentezza chiuse gli occhi e inclinò la testa in avanti, lasciando che la sua fronte si appoggiasse delicatamente su quella superficie liscia e fredda, mentre cercava dentro di sé le parole ed il coraggio.
Non ne aveva mai avuto molto nella sua vita. Ed ora che si trovava lì, eliminata ancor prima di tentare, non sapeva in che modo provare ancora.

Forse il momento di andarsene era davvero arrivato.

Ma d’un tratto le tornò in mente il volto di John.
Immobile su quella stessa soglia, con le spalle curve e il peso del mondo addosso, mentre la guardava con un sorriso triste.

E la nebbia iniziò a diradarsi.

 

- Mi dispiace.

 

Lo sussurrò a mezza voce, rivolgendosi a quella porta chiusa.

Non era per la sua squallida bugia. Né per il suo agguato.
Non per l’ora assurda, o per quello stupido buongiorno, e nemmeno per la sua sfacciataggine.

Era per qualcosa che in qualche modo aveva sempre percepito chiaramente, al di là di tutto ciò che in questi due mesi Sherlock non le aveva detto. E di tutto ciò che si era trattenuto dal fare.
Non certo per lei.

Fin dal primo momento le era apparso chiaro il suo scomodo ruolo nella vita di quell’uomo.
E più passava il tempo più prendeva forma nella sua mente.
La consapevolezza di spezzare qualcosa di perfetto.

La certezza di macchiarsi di un peccato mortale, senza poter evitare di farlo.
E contemporaneamente alla gravità del suo crimine cresceva in lei la coscienza che non avrebbe mai potuto evitare di commetterlo, senza dover pagare un prezzo troppo alto per se stessa.
Ma di fronte a quella porta chiusa, sbattutale in faccia con disprezzo e rabbia, Mary era consapevole di essere la sola ad avere qualcosa di cui scusarsi.
Qualcosa per cui dover chiedere perdono.

Questa percezione così lucida non scaturiva da una sua particolare intelligenza, o da un’astuzia fuori dal comune. Né tantomeno vi era in lei nessuna traccia di una qualche forma di pensiero deduttivo.
Si trattava semplicemente di quella capacità innata propria a tutte le creature che troppo spesso fanno del cuore il centro del loro mondo, lasciando alla ragione solo un piccolo spazio. E per questo facilmente arrivano là dove la ragione fatica ad arrampicarsi, appesantita dalla zavorra delle sue convinzioni.

Alcuni uomini lo chiamano scioccamente intuito femminile.

Mary inspirò con lentezza, lasciando che l’ossigeno penetrasse ogni fibra del suo corpo.
John la guardava ancora, fermo sulla soglia.

E d’un tratto le fu tutto chiaro.

Sollevò di scatto la testa, fissando decisa lo sguardo su quella porta chiusa.
Prese fiato ancora una volta. Con determinazione.
Poi iniziò a parlare.

- So di essere l’ultima persona al mondo che vorresti vedere oggi, ma c’è qualcosa che devo dirti.

La voce decisa, forte e delicata allo stesso tempo. Abbastanza alta da poter attraversare quel sottile strato di legno, ma non troppo sguaiata da invadere uno spazio non suo.
Posò entrambe le mani sulla porta, quasi a voler entrare in risonanza con la sua superficie e far vibrare più chiaramente le sue parole al di là di quella barriera.

- Io ti prometto…

Espirò profondamente e chiuse gli occhi.
Finalmente pronta.

- Ti prometto che avrò cura di lui.

Un tono fermo e determinato.
Come mai aveva avuto in tutta la sua vita, fino ad oggi.

- Ti prometto che farò ogni sforzo per rendere perfetta la sua vita. Lo proteggerò. Cercherò di non fargli mancare nulla e sarò sempre dalla sua parte. Non lo tradirò mai e non gli mentirò mai più. Sarò onesta con lui e cercherò di evitargli il maggior numero di dispiaceri.

Promesse sciocche. Banali. Sdolcinate.
Impossibili da mantenere.

E totalmente sincere.

- Ti prometto che farò tutto quello che posso per renderlo felice. Ma…

La voce si fermò nella gola un istante, per permettere al cuore di prendere piena coscienza di ciò che stava per sentire.

- …se lui sarà felice o meno, non dipende solo da me.

Ci volle una grande volontà.
Perché dirlo lo rendeva più reale. E faceva male.

- So quello che rischio a dirtelo. So quello che rischio se lo farai. Però ti prego…

Anche se forse avrebbe perso tutto.
Anche a costo di quel prezzo così alto che non era pronta a pagare.
Era l’unica cosa che poteva fare.

L’ultima.

- …non fingere che non t’importi.

Con tutto il coraggio che aveva.

 

- Tu devi essere sincero con lui.

 

Le ultime parole restarono nell’aria un po’ più a lungo delle altre. Pronunciate con una forza diversa, molto più vicina ad un grido soffocato.

Mary rimase ferma di fronte alla porta, captando il silenzio al di là del muro.
Probabilmente non la stava ascoltando.
Non aveva sentito una sola parola.

Adagio tornò a posare la fronte sul legno, serrando gli occhi con una contrazione dolorosa, e ripetendo quella frase con un filo di voce. Solo a se stessa.

- Devi essere sincero…

 

Accadde in un attimo.

Di colpo perse l’appoggio.
Le dita che fino a qualche istante prima premevano contro quella parete verticale si ritrovarono all’improvviso sospese nel vuoto, proiettate in avanti e pronte a trascinare con sé il resto del corpo, improvvisamente privato del suo sostegno.

Con un rapido scatto di reni riuscì a non perdere l’equilibrio, tirandosi indietro con insospettabile prontezza mentre alzava d’istinto la testa, sollevando lo sguardo oltre quella porta serrata fino ad un istante prima. Ed ora completamente spalancata.

Ebbe appena il tempo di posare gli occhi su quel volto serio, quasi rilassato, che improvvisamente si trovava ad una manciata di centimetri dal suo, tradito solo dal leggero solco che scorreva tra le sopracciglia, segnando appena la sua fronte ampia e chiara, indizio involontario e inopportuno della tensione che l’attraversava.
Una mano stretta sulla maniglia che aveva appena tirato a sé. L’altra posata sullo stipite della porta, ben piantata e tesa a sostenere la sua alta figura.
Lo sguardo fisso su di lei, inaspettatamente privo di qualsiasi espressione.

 

- Io ti odio.

 

Totalmente sincero.

Senza nessuna esitazione.

Mary trattenne il fiato, spalancando gli occhi nei suoi.
E questa volta toccò a lei dover alzare la testa per guardarlo. Pronta a ricadere nel terrore e nella confusione.
Dimenticando ogni cosa.

Ma non fu così.

Senza timore sostenne quello sguardo.
Mentre i suoi grandi occhi blu si riempivano di una dolce tristezza.

 

- Lo so.

 

La bocca si piegò in un timido e mesto sorriso, carico di tutta la compassione che aveva per se stessa, per lui, per John. E per quel lungo giorno in cui qualcosa di perfetto era andato in frantumi.

Mary Morstan sollevò il mento ancora un po’, senza distogliere gli occhi dai suoi.
Decisa a resistere.

E lui continuò a guardarla.

Osservò attentamente l’azzurro intenso delle sue iridi, sottolineato da un’impercettibile alone blu che le faceva spiccare con maggior forza sul bianco della cornea, circondata da ciglia lunghe, appena incurvate, tinte di un nero opaco e discreto.
Erano grandi quegli occhi. Quasi troppo per trovarsi sul suo viso minuto.
Non portava altro trucco se non qualche traccia di un leggero rossetto che un tempo doveva averle ricoperto le labbra sottili, ma ormai resisteva solo sul bordo più esterno a testimonianza del suo vizio di mordicchiarsi la bocca quando era nervosa, raschiando via quel rosa pallido perfettamente adatto alla sua carnagione chiara, sensibile, così facile ad arrossarsi per ogni minima emozione, tipica della popolazione anglosassone.
Gli zigomi accentuati contrastavano con la forma ovale del mento, che meglio si accordava al suo naso garbato ed al suo profilo grazioso, quasi infantile, incorniciato da un’aureola di capelli biondi e folti, faticosamente trattenuti dietro la nuca da un minuzioso lavoro di puntello, prova evidente dei grandi sforzi compiuti dalle sue piccole mani per riuscire ad acconciarli in una massa composta.
Eppure qualche boccolo sfuggiva capricciosamente all’elegante groviglio, danzando nell’aria ad ogni lieve movimento del capo, pronto a sottolinearne le movenze delicate.

Tutto era delicato in lei.
Il suo corpo esile, da ballerina, avvolto in un semplice golf beige con un ampio scollo a V, scolorito dai tanti lavaggi, che esponeva alla vista le scapole dritte e sottili, permettendo appena d’intravedere la canottiera bianca.
Le sue gambe snelle infilate in un paio di jeans attillati, che su qualsiasi altra donna sarebbero apparsi volgari ed ammiccanti, e invece si limitavano a caderle morbidamente addosso, formando mille piccole pieghe all’altezza della vita e delle ginocchia, per terminare  qualche centimetro sopra la caviglia sottile sulla quale erano ancora evidenti i segni del laccio di un’elegante calzatura, certo troppo alta per lei, che doveva averla costretta la sera prima a stringere più del necessario nel tentativo di conservare una parvenza d’equilibrio.
Le scarpe scollate, totalmente prive di tacco, consumate sul tallone e sulla suola esterna a causa della sua abitudine di camminare con il piede un po’ inclinato, quasi incerto, che le donava un’andatura leggera ed ondeggiante.
Le sue dita bianche ed affusolate, intrecciate in una posa composta all’altezza della vita, che raccontavano in ogni piega gli aspetti peggiori del suo lavoro di cameriera.

Era bella.

Non particolarmente bella.
Per niente appariscente. Né provocante. Né in alcun modo sensuale.

Ma era bella.

Straordinariamente rara nella sua semplicità.

Ed era anche intelligente se si trovava lì.
O molto stupida.

E bastarda.

 

Lui la guardava e lo capiva.

Non lo provava. Ma lo capiva.
Il tipo d’attrazione che può suscitare una creatura di quel genere.

Una giovane creatura bionda, piccola, delicata. Che a dispetto della sua apparenza fragile aveva coraggiosamente sostenuto il suo sguardo fino a quel momento, e solo ora rinunciava all’impossibile impresa, reclinando il capo con una grazia composta che tramutava quel gesto di resa in una dichiarazione di guerra.

I suoi riccioli biondi ondeggiarono lievemente attorno al collo mentre s’inclinava con dolcezza, portando adagio il viso verso il basso con un movimento morbido. Dignitoso.
Sorprendete per la sua eleganza.

E così dannatamente, sfacciatamente femminile.

Sherlock Holmes distolse lo sguardo.

Sconfitto.

Alzò gli occhi al cielo e ruotò la testa di lato.
Emettendo un lungo, profondo sospiro.

 

- Non ho nessuna speranza.

 

Le voltò le spalle e si allontanò dalla porta, avanzando a grandi passi nella sala mentre fissava lo sguardo sulla fioca luce di un lampione che attraversava le tende tirate, illuminando con il suo riverbero giallo e stanco l’appartamento altrimenti immerso nel buio.

Poi si fermò.
Esattamente al centro.

- Non posso competere con questo.

Lei sollevò adagio la testa, immergendosi in quell’ambiente scuro. Senz’aria.

Lui era proprio là.
Immobile in mezzo alla stanza. Nello stesso identico punto.
La schiena tesa e le spalle curve. Gravate di un peso che non riuscivano a sostenere.

E nonostante la corporatura slanciata, la testa nera scompigliata sopra le ampie spalle, le gambe lunghe e sottili appena divaricate, le mani abbandonate lungo il corpo, e i mille altri particolari che rendevano la sua figura totalmente differente. Sherlock le parve indistinguibile.
Esattamente uguale in ogni dettaglio.

Identico a John.

 

- Buffo. Stavo pensando la stessa cosa.

 

Mary avvertì il sussulto provocato in lui dalla sua voce, che scosse il suo profilo nella penombra.
L’osservò girarsi lentamente e tornare a fissarla.

I loro occhi si scontrarono ancora una volta. Per l’ultima battaglia.

Una battaglia triste, senza vincitori né vinti, in cui non restava altro da fare che quantificare i danni e tamponare le ferite. Rinunciando a combattere.

La guerra era finita.

E doveva ancora cominciare.

 

- Che cos’avevi dimenticato?

Colta di sorpresa da quella domanda Mary abbassò il viso a terra come per riflesso, confusa da quel tono imprevedibilmente pacato che qualcuno avrebbe persino potuto definire gentile, se non fosse stato il suo. Se non fosse stato rivolto a lei.
Se non fosse stato quel giorno.

Lentamente scosse la testa, vergognandosi in silenzio e per l’ultima volta della sua inutile bugia.

- Niente vero? Hai preso tutto.

Le labbra di Sherlock si schiusero in un sorriso triste, che Mary non potè vedere.
Poi tornò a darle le spalle, lasciando vagare lo sguardo in quella stanza buia di cui riusciva appena a distinguere i vaghi contorni.

 

- Hai preso proprio tutto.

 

Mary alzò la testa per l’ultima volta, osservando la massa scura del suo corpo, scolpito dalla luce radente che ne disegnava il profilo, stagliando la sua figura nell’oscurità vuota e priva di forme che lo circondava, pronta a schiacciarlo sotto il suo peso soffocante.

No.
Mancava ancora una cosa.

La più importante.

 

- Perdonami.

 

Lui non si voltò.

Rimase immobile nel buio, ascoltando il suo respiro.

La sentì indietreggiare lentamente. Attraversare il pianerottolo con passo malfermo.
Scendere i primi gradini con lenta riluttanza.
Uno ad uno.
Trattenendo il rumore dei suoi passi leggeri.

Avanzare ancora.
Con cautela.

Poi più in fretta.
Sempre più in fretta.

Troppo veloce.
Rischiando di cadere.
Inciampare.
Serrare la tre dita il mancorrente per tenersi in piedi.

Rialzarsi.
E cominciare a correre.

Giù per le scale. Senza fiato.
Attraversare l’ingresso.

Raggiungere il portone.
Afferrare la maniglia.
Tirarla con forza.

Uscire in strada.

E respirare.

 

Senza voltarsi indietro.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:
1. Quale scemo ha osato dire che scrivendo fanfic non ti fai una cultura?
Prima di titolare questo capitolo non avevo idea che esistessero due modi di scrivere ‘grigio’ nella lingua inglese, e che uno fosse più inglese e l’altro più americano. Mi limitavo a considerare ‘gray’ il colore e ‘Grey’ un cognome…
E invece no. In inghilterra il grigio è proprio grey, non gray.
Quindi non venite a dirmi che ho sbagliato a scrivere il titolo (ma figuriamoci... appena io potevo non saperlo). È proprio Grey VS Blue, cioè Grigio contro Azzurro, cioè… Ve lo devo spiegare? Nah.
Mica siete rintronate/i come Watson.

2. In questo secondo capitolo posso chiarire una cosa che avrei dovuto dire nel primo, ma non potevo specificare finché Sherlock non fosse entrato in scena, completando la struttura del racconto.
Qualcuno di voi forse si era chiesto, leggendo il primo cap, come mai non mi fossi sprecata per niente a descrivere le sensazioni di John che lascia la casa in cui ha vissuto con Holmes per ben otto anni della sua vita, per andare a vivere con Mary.
Troppa fatica? Troppi compiti a casa? Troppi capitoli necessari per lo sviluppo della tematica?
No. In realtà è stata una scelta precisa, non una sfatica o una dimenticanza.
Ho deciso volontariamente di raccontare Watson solo dall’esterno, lasciando appena intravedere i suoi sentimenti sotto la superficie delle sue azioni, perché in questa storia non è il soggetto della vicenda, bensì il suo oggetto.
Più precisamente l’oggetto del contendere.
La chiave di volta di questo racconto sta proprio nell’indeterminatezza della posizione di Watson, che si trova in un punto imprecisato lungo la strada trafficata che separa, sia fisicamente che emotivamente, Holmes dalla Morstan.
Per questo motivo per ora è stato sempre e solo visto da fuori, attraverso gli occhi degli altri. L’intento era quello di mostrarlo esattamente come lo vedono i due ‘rivali,’ immedesimando il più possibile chi legge nella condizione di Mary e Sherlock, che credono di capire, pensano d’intuire, ritengono di conoscere, ma in realtà non possono sapere con certezza cosa passi per la testa e per il cuore di Watson.
Esattamente come loro, anche il lettore può solo provare ad intuire dall’esterno cosa prova John e da quale parte sia orientata la sua preferenza. Sempre che ne abbia una.
Questo è importante per l’equilibrio della storia, perché entrare nel merito, trasformando l’oggetto in soggetto, sbilancerebbe la struttura e muoverebbe troppo presto l’ago della bilancia.

3. La descrizione fisica di Mary vista attraverso gli occhi di Holmes è inventata da me in quasi ogni sua parte, com’è ovvio che sia visto il diverso contesto storico/culturale. Ma nonostante la necessità di reinventare praticamente da capo il personaggio ho ripreso quasi alla lettera una parte della descrizione che fa di lei Watson la prima volta che la vede. Per essere precisi ho ‘trasferito’ nella mia descrizione questa frase: «She was a blonde young lady, small, dainty […]» trasformandola in: «Una giovane creatura, bionda, piccola, delicata.»
L’ho fatto per sottolineare che alla fine sia John che Sherlock, seppur da punti di vista e sensazioni direi opposte tra loro, vedono alla fine la stessa cosa, in ogni epoca ed in ogni contesto.

  
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