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Autore: Keiko    13/03/2011    2 recensioni
Poteva davvero fargli così male lasciarsi cullare dall’amaro sapore dei ricordi?
Sarebbe stata l’ultima volta, forse ancora qualche altra e poi avrebbe smesso di sentire il tremore nella propria voce o il cuore che accelerava i battiti al richiamo di un’immagine che a poco a poco nella sua mente avrebbe iniziato a sbiadire sino a scomparire del tutto.
Concedersi il tepore di un istante in cui avrebbe dovuto fermare il tempo e che invece gli era scivolato via dalle mani come sabbia di una clessidra e che mai sarebbe riuscito a riportare indietro con la rimembranza, sembrava il più amaro – e al contempo il più dolce – dei palliativi.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hermione Granger, Ron Weasley | Coppie: Ron/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Disclaimer. Tutti i personaggi di Harry Potter appartengono a J. K. Rowling, agli editori inglesi e ai distributori internazionali che detengono i diritti sull'opera. Questa storia è stata redatta per mero diletto personale e per quello di chi vorrà leggerla, ma non ha alcun fine lucrativo, né tenta di stravolgere in alcun modo il profilo dei caratteri noti. Nessun copyright si ritiene leso.

{Cronologicamente si colloca dopo “Harry Potter e il principe mezzosangue”}




Il brusio che faceva da sottofondo al torpore in cui era caduto era composto da costanti e fastidiose voci, alcune delle quali riconoscibili anche in quello stato di dormiveglia, acuendo il dolore che gli sfondava il petto e la testa con la forza di una Maledizione Cruciatus.
“Ronald caro, come ti senti quest’oggi?”
Il volto tirato di sua madre non aiutava di certo a fargli dimenticare l’ultima notte che aveva vissuto fuori dal San Mungo, quella in cui la luna non si era affacciata su Londra e i Mangiamorte erano stati gli occhi, le labbra e le mani di Voldemort.
Non riusciva a sopportare la vista delle dita tremanti di Molly che tentava di sistemare alla meno peggio - nel vano tentativo di mascherare il proprio nervosismo affannandosi in faccende del tutto futili e prive di utilità - i fiori e le cioccorane che ingombravano il comodino e parte del pavimento accanto al letto.
“Mamma puoi uscire per favore?”
“Ronald è più di dieci giorni che non mangi, dovresti…”
“Dovrei ringraziare Merlino per potermi ancora permettere di mangiare, lo so. Lasciami solo.”
Si era girato dall’altro lato, lasciando la donna a osservare la sua schiena forte ora meno tonica a causa dall’apatia che l’aveva colpito subito dopo il ricovero, un figlio lacerato da una ferita profonda che mai sarebbe sparita dal suo corpo come pure i ricordi di una notte durata un’eternità.
Molly avrebbe dovuto ringraziare Merlino per la benevolenza con la quale aveva guardato a suo figlio salvandolo da morte certa, quella stessa che non aveva risparmiato altri.
“Ron, so che è difficile e che…”
“Mamma vattene, non ho intenzione di ascoltare nulla. Mi da’ i nervi il solo sentirvi parlare.”
Gli aveva lasciato una carezza che racchiudeva tutto il suo amore materno sulla chioma fulva, prima di uscire dalla stanza che occupava da solo.
Quella era una solitudine che ricercava con disperazione e che lo faceva sentire meno stupido quando le lacrime gli scorrevano sul viso e i singhiozzi venivano soffocati sul cuscino scomodo tipico degli ospedali.
“Ron?”
Ginny aveva fatto capolino nella stanza senza bussare, consapevole che sarebbe stato vano ogni tentativo di addentrarsi in quel luogo con il permesso del fratello.
“Vattene Ginny, non ho voglia di ascoltare nulla.”
Si era morsa il labbro inferiore cercando le parole adatte per farsi ascoltare da lui, sedendosi cautamente sulla poltrona che era costantemente occupata da sua madre come se fosse una mastino a guardia di un tesoro prezioso e poteva anche essere così sotto un certo punto di vista, considerando quanto erano stati fortunati ad avere ancora Ron tra loro.
“La mano…riesci a muoverla Ron?”
Era stata la prima cosa che le era venuta in mente nonché la meno adatta. Dopo dieci giorni di ricovero restrittivo i medimaghi avevano dato il permesso di accedere alla stanza di Ron anche al resto della famiglia Weasley e non solo ad Arthur e Molly, ma sul viso del minore dei suoi fratelli Ginny non riusciva a vedere il sorriso allegro di sempre, quel suo cipiglio da finto Don Giovanni che si era cucito addosso dopo la storia con Lavanda e dal quale non aveva voluto liberarsi se non forse troppo tardi.
“Non mi importa molto se non posso muoverla.”
“E la squadra di Quiddich? Come farai a impugnare la bacchetta?”
“Non la impugnerò, semplice. Siete in grado di lasciarmi da solo o vi sentite così tanto in dovere di rendermi partecipe della vostra pietà? Non ne ho bisogno, okay? Sto benissimo, non sono mai stato meglio. Non si vede?”
La ragazza aveva stretto con forza i lembi della propria gonna tra le dita, impedendosi di sbottare davanti al fratello con la furia indomita che le era propria, guidata da quella stessa fiamma che le ardeva nel petto e che aveva stregato il cuore di Harry.
“Senti Ron, non puoi pensare di stare così per sempre. E’ difficile per tutti quanti e vederti così non aiuta nessuno di noi a starti vicino.”
“Ho detto che dovete lasciarmi solo, sapete cosa significa? Che qui dentro ci devo essere io e io soltanto. Se è così difficile come concetto posso sempre farvi un disegno, eh?”
“Come vuoi Ron.”
Prima di uscire dalla stanza si era voltata verso di lui un’ultima volta, il viso affondato nel cuscino e la mano destra avvolta in una stretta fasciatura che ricopriva la carne bruciata da fiamme di gelo, lo stesso che aveva costruito una bara di cristallo in cui Ron aveva chiuso il proprio cuore.
Non erano mai sonni tranquilli né pomeriggi sereni.

Ogni respiro era accompagnato da una fitta al cuore e da mareggiate continue di ricordi come se fosse stato condannato a scandire il proprio tempo sull’onda dei rimpianti.
Era sempre stato facile dare per scontato un sorriso, una battuta al vetriolo o uno sguardo eppure solo ora che non poteva più averli si rendeva conto che era nella quotidianità che si celava la grandezza della felicità.
Aveva avuto sotto il naso quella verità osservando Fleur e Bill o i suoi genitori, persino Ginny ed Harry erano l’emblema di quanto il condividere cose semplici potesse essere il fulcro di una devozione senza pari di cui persino lui aveva inconsapevolmente goduto.
Seduto su di un letto d’ospedale nella penombra della sera, fissava la Londra magica destarsi nella vita notturna costellandola di lumi e lanterne che avrebbero cancellato ogni anfratto buio come se fosse la luce a poter preservare dalle tenebre la vita.
Sospirò appoggiando il capo alla gelida spalliera in metallo, gli occhi chiusi e le mani strette in grembo. Era nell’ora in cui il crepuscolo stemperava nella notte più buia in cui era più difficile sopportare il dolore e il peso dei ricordi, forse perché tutto al San Mungo si metteva a tacere o perché anche sua madre infine si ritirava contro voglia con la tristezza nello sguardo causata dalle sue perpetue richieste di solitudine o ancora, perché era stato nell’estasi di un tramonto sul Tamigi che aveva coronato il primo passo di un amore adolescenziale di cui aveva ignorato i segnali sino allo scoccare dell’ultima ora della sua giovinezza.
Poteva davvero fargli così male lasciarsi cullare dall’amaro sapore dei ricordi?
Sarebbe stata l’ultima volta, forse ancora qualche altra e poi avrebbe smesso di sentire il tremore nella propria voce o il cuore che accelerava i battiti al richiamo di un’immagine che a poco a poco nella sua mente avrebbe iniziato a sbiadire sino a scomparire del tutto.
Concedersi il tepore di un istante in cui avrebbe dovuto fermare il tempo e che invece gli era scivolato via dalle mani come sabbia di una clessidra e che mai sarebbe riuscito a riportare indietro con la rimembranza, sembrava il più amaro – e al contempo il più dolce – dei palliativi.

“Non fare rumore Ron!”
Gli dava le spalle avanzando lentamente nell’imbrunire di Kensington Garden seguendo uno dei numerosi sentieri laterali che costeggiavano i viali principali che innumerevoli volte aveva percorso nella loro controparte babbana, la bacchetta tesa dinnanzi a sé pronta a schiantare chiunque si parasse dinnanzi a loro.
“Non ti sembra di esagerare Hermione?”
Si era arrestata di scatto puntandogli la bacchetta sotto il naso, fissandolo dal basso dei suoi dodici centimetri e mezzo di differenza, occhi nocciola persi in occhi smeraldo per la seconda volta in poche ore.
“Smettila di essere stupido. Rischiamo di farci scoprire, lo vuoi capire?”
“La fai troppo grossa tu. Andiamo, cosa vuoi che accada? Ci sarà quella pazza di Bellatrix e…”
“Appunto, l’hai detto. Pazza. Ed Harry pensi che starà a guardare mentre lei vola libera su Kensington?”
“No, ma penso che sia anche abbastanza in gamba da potersi difendere da solo e anzi, noi in questo caso saremmo solo di impiccio.”
“Sei insopportabile quando fai così lo sai?”
“L’aria da secchiona non la perdi nemmeno fuori da scuola eh?”
Aveva risposto alle sue parole riducendo gli occhi a due fessure dopo averli spalancati per una frazione di secondo prima di girarsi nuovamente su sé stessa, decisa a non dilungarsi oltre in una conversazione sterile che si trascinavano appresso sin dal primo giorno in cui il treno del binario 9 e ¾ li aveva condotti a Hogwarts.
“Ehi, ti sei zittita tutto d’un colpo?”
Le aveva dato una leggera spinta sulla spalla e lei le aveva scosse come se volesse togliersi di torno una mosca fastidiosa.
“Non starai facendo seriamente, vero Hermione?”
“E se anche fosse?”
“Avanti era una battuta cosa vuoi che sia ci sei…”
“Ci sono abituata vero? Alla fine Lavanda era tutt’altra storia o sbaglio?”
Un piede in fallo: Lavanda.
Secondo passo falso, il tono irritato e decisamente troppo acuto per appartenere alla Granger che conosceva lui. Quella che sorrideva a tutti e che per lui aveva solo rimproveri, quella che alla fine della giornata trovava la forza per stare sveglia sino a tardi per aiutarlo nei compiti, quella che aveva fondato il C.R.E.P.A. e ancora credeva in quella causa utopistica portata avanti come una lotta proletaria con l’aiuto di Luna, quella che si era commossa per Fierobecco e che aveva sostenuto Harry durante il Torneo Tre Maghi.
Quella che aveva pianto al Ballo di Yule dopo aver discusso con lui.
Quella che era semplicemente la Hermione che conosceva e che aveva imparato ad apprezzare per il coraggio e la fierezza, per lo spirito materno che nonostante l’emancipazione e la testardaggine racchiudeva in ogni gesto riservato ai più ma non a lui.
“Si può sapere cosa c’entra Lavanda ora?”
“Giusto, Lavanda cosa c’entra? Nulla è chiaro no?”
Si era girata nuovamente verso di lui sistemandosi con un gesto nervoso il maglione, la bacchetta rivolta verso il terreno e lo sguardo ferito.
“Hermione giuro che non riesco a seguirti.”
“Quando mai l’hai fatto Ron?”
Avrebbe potuto citare un Ballo a cui non aveva avuto il coraggio di invitarla o una partita di Quiddich in cui aveva fatto faville grazie ai suoi incantesimi e che per contro, si era rivelata l’arma vincente per vederselo portare via da una qualunque strega inesperta.
Non che la bravura di fattucchiera potesse essere la condizione su cui basare un sentimento, ma lei era sempre stata lì a un soffio da lui e sentirsi sempre quella di troppo, quella che in fondo faceva la differenza ma non brillava mai davvero ai suoi occhi era logorante.
Nemmeno per i G.U.F.O. si era sentita così frustrata quanto sopportare l’infantilismo di Ron e ancora credeva di poterlo far ragionare in qualche modo, dopo anni di fallimenti su tutta la linea.
Era calato il silenzio tra loro per un lasso di tempo in cui Kensington era stato avvolto dalle tenebre, una coltre fitta e densa che era giunta con il sorgere della nebbia tipica della capitale, lenta come fumi usciti dai calderoni magici dell’Aula di Pozioni.
“Fa troppo freddo, non mi piace questa sensazione. Muoviamoci.”
In quei silenzi che si erano venuti a creare sempre più di frequente tra loro c’erano parole non dette, gesti trattenuti e un imbarazzo che sarebbe rimasto tale per lungo tempo ancora se qualcosa nello sguardo di Hermione non avesse tradito una delusione che poteva essere quella di un’innamorata rifiutata.
I suoi passi si erano arrestati nel momento in cui Ron le aveva afferrato il polso costringendola a voltarsi verso di lui, e la distanza tra i loro visi era divenuta quella di un respiro.
Un respiro poteva somigliare a un bacio, dopotutto.
C’era qualcosa nello sguardo di Hermione di una consapevolezza disarmante quella notte, una certezza assoluta che l’amore avrebbe potuto essere come lo immaginava lei.
Romantico, impacciato e del tutto naturale come poteva essere il posare le proprie labbra su quelle di Ron, stringendo la mano che lui aveva lasciato ricadere lungo il proprio fianco in gesto di resa.
Labbra che si erano attese per anni, dita intrecciate in una stretta salda che pareva l’appiglio più sicuro del mondo in quella notte - preludio di una battaglia che non era altro che l’ennesima di una guerra avviata prima ancora della loro nascita - e occhi chiusi per cancellare tutto ciò che poteva esistere attorno a loro.
Non sarebbe stato un bacio a far fallire il recupero della Horcrux di Kensington né il poter stringere in un abbraccio il corpo di Hermione.
“Perché proprio stanotte dovevi dirmi una cosa così importante?”
“Perché sarà un grande giorno. Il recupero della Horcrux deve essere festeggiato a dovere.”
Quella notte avrebbe offerto loro una grande vittoria: un altro pezzetto dell’anima di Voldemort e la certezza che sentimenti ignorati avrebbero invece preso piede nelle loro esistenze trovandovi la giusta collocazione.
Hermione non era più in grado di comprendere se erano state le sue labbra a cercare quelle di Ron o il contrario, come se fosse stata una bizzarra concomitanza di intenti a farli spogliare di ogni timore per vestirli di una maturità nuova, come se la certezza degli avvenimenti di quella notte fosse già incisa sulle loro anime.
“E’ ora di andare.”
“Ancora uno Hermione.”
Un ultimo bacio in cui il solo sfiorarsi era stato come avere il mondo dischiuso sotto i piedi, in cui perdersi nel vedere il viso di lei abbandonarsi a una dolcezza che mai le aveva visto prima era stato il più splendente dei miracoli.
Le loro mani non si erano lasciate mentre avanzavano nel buio con le bacchette impugnate, il parco avvolto in un silenzio del tutto innaturale in cui solo il rumore dei loro passi sull’acciottolato giungeva amplificato alle loro orecchie.
“C’è qualcosa che non va Ron.”
Una flebile luce verde aveva filtrato la nebbia imprimendosi sul terreno di Kensington, accompagnato da una risata roca e perversa che aveva spezzato l’irrealtà di quel luogo a metà strada tra il Mondo Magico e il Mondo Babbano.
“Harry!”
Era stato per correre da Harry e Ginny che aveva abbandonato la presa di Ron scomparendo nella nebbia lasciandolo solo.
Non che Ronald Weasley avesse paura, ma era chiaro come i loro temperamenti – entrambi coraggiosi – avessero l’una l’impeto della passione tipicamente femminile e l’altro quello più terreno ed esitante intrinseco dell’animo maschile, quel classico tentennare sempre un istante di troppo in ogni situazione.
Anche lui non faceva eccezione a quella regola e anzi, la sua tempistica era persino più lunga e tortuosa rispetto a quella di un qualsiasi uomo medio, ed era così rimasto a fissare un punto imprecisato nella nebbia in cui forse Hermione era scomparsa per poi mettersi al suo inseguimento quando ciò che si poteva definire preoccupazione aveva iniziato ad attanagliargli le viscere.
Poteva innamorarsi di milioni di streghe e invece aveva optato per complicarsi la vita, così come Bill che aveva sposato Fleur o Ginny, che aveva scelto di restare al fianco di un uomo – perché ormai era inevitabile appellarsi al titolo di adulti, nonostante non fossero ancora totalmente fuori dall’età dell’adolescenza e al contempo non vi fossero mai passati – a cui la Morte avrebbe continuato a dare la caccia per tutta la vita.
Forse l’amore era in un certo senso costringersi a mettersi in gioco, esporsi sino al limite delle proprie possibilità per poi virare bruscamente all’interno di una vita che avrebbe offerto solo felicità.
Quando era giunto nei pressi della statua di Peter Pan posta nel lato ovest di Kensington Garden si era trovato dinnanzi a una scena che mai avrebbe voluto vedere. Ginny era carponi accanto a Harry protetta da Hermione che fissava decisa Bellatrix Lanstrange, e persino nella nebbia poteva vedere il petto della ragazza alzarsi e abbassarsi violentemente nella foga di una corsa che si era interrotta probabilmente con un duello in procinto di concludersi ora, con il corpo di Harry riverso a terra privo di sensi e Ginny che sillabava in sua direzione incantesimi di cura di basso livello per tenerlo in vita o quanto meno, farlo riprendere.
Il suo arrivo in quella situazione poteva essersi rivelato fatale quanto salvifico, un rumore di passi che si erano arrestati a pochi metri da loro dietro ai bassi cespugli che circondavano l’ampia aiuola e tutt’attorno il silenzio rotto solo dalle parole di Ginny e dal respiro affannoso di Hermione.
La vedeva sotto una luce differente ora, bella nonostante le imperfezioni del viso o i capelli cespugliosi. Bella per il semplice fatto che gli apparteneva in qualche modo, bella perché risplendeva di quella luce tutta nuova di cui risplende la persona amata, resa incantevole da un coraggio e una determinazione che negli anni erano diventati le qualità d’eccellenza di una strega-bambina diventata una donna tutto d’un colpo ai suoi occhi.
La era diventata molto prima a essere sinceri, ma erano tutti quegli interrogativi disseminati lungo sette anni di amicizia a frenare ogni tuffo del cuore per spingerlo violentemente nello stomaco.
“Togliti di lì, mezzosangue.”
Bellatrix aveva fatto seguire alla propria intimazione un gesto distratto della bacchetta con l’intento di sottolineare la propria minaccia.
Expelliarmus!”
Un tonfo sordo che nel silenzio della notte ne aveva spezzato l’irrealtà, a pochi passi da lui.
Sarebbe bastato poco, un qualche movimento in direzione della bacchetta e il suo recupero sarebbe stato un gioco da ragazzi.
Una risata intrisa di follia aveva lacerato la coltre fatata che pareva circondare l’intera Kensington, ma Ron non aveva udito passi sull’erba umida di rugiada.
“Siamo tre contro uno, Bellatrix. Sei sicura di voler proseguire nella ricerca?”
“Ragazzina stai cercando di intimorirmi?”
“Sto dicendo la verità.”
“Siete tre mocciosi che giocano a fare gli Auror e persino i migliori di quella feccia del Ministero sono morti per mano nostra. Credi che mi fermerò per così poco?”
Un passo in avanti verso Hermione e lei ancora immobile nella sua posizione di difesa di Ginny ed Harry, senza voltarsi indietro per guardare a che punto fosse l’amica.
Stupeficium!”
Ora udiva la voce di Ginny di qualche tono più alta rispetto a poco prima, poi erano state nubi verdognole a formarsi troppo velocemente vicino a lui perché potesse anche solo parlare o gridare.
“Vediamo cos’abbiamo qui. Una mezzosangue, la vergogna dei Purosangue e un Prescelto agonizzante. Non male. Bella avresti potuto finire velocemente questa farsa, lo sai mia cara?”
“Lucius vorrei la mia bacchetta se non ti dispiace.”
Non era suo desiderio né sua indole giocare con le proprie prede come al gatto e al topo, ma nell’esatto istante in cui aveva lanciato la Maledizione Cruciatus su Potter, Bellatrix Lanstrange si era ritrovata tra i piedi un fastidioso moscerino Grifondoro che le ricordava Andromeda per quel cipiglio saccente e lo sguardo di sfida, la sorella che aveva rinnegato e che disprezzava al punto da averla cancellata dagli annali della propria casata.
“Accio! Bacchetta di Bellatrix!”
Ron aveva sentito un pizzicore, come se l’avesse colpito una scarica elettrica, percorrergli il braccio in cui impugnava la bacchetta della Mangiamorte, recuperata poco prima, mantenendo ben salda la propria stretta.
Hermione non aveva fatto trasparire nessuna emozione da quell’improvvisa - nonché desiderata – apparizione, quando Ron e la bacchetta di Bellatrix erano apparsi accanto a Lord Malfoy.
“Guarda chi abbiamo qui, un altro dei leprotti di casa Weasley. La tua bacchetta, Bella.”
“Crucio!”
Il grido di Ron si era cristallizzato in un gelo che aveva attanagliato il cuore di Hermione, stritolandolo come le spire di un serpente, lo stesso che dall’alto della propria delicata bellezza ammaliatrice aveva puntato la propria bacchetta su Ronald in un istante che avrebbe potuto essere fatale.
“Stupeficium!”
“Protego!”

Lucius Malfoy era stato sbalzato a qualche metro di distanza mentre Hermione aveva puntato la bacchetta contro Bellatrix, lo sguardo fisso in quello della donna che la fissava divertita battendo le mani in un gesto di derisione.
“Cosa vorresti fare ora? Siete patetici. L’Horcrux sarà nostro, che lo vogliate o meno. Non mi costa nulla uccidere questo moccioso insignificante che è un’onta per tutti i Purosangue. Dio, i Weasley…sempre così amici dei babbani.”
Aveva sputato a terra vicino al capo di Ron che tentava di rialzarsi, la bacchetta ancora puntata su di lui.
“Allora? Voglio l’Horcrux immediatamente. O potete salutare per sempre il signor Weasley.”
“Crucio!”
Un fascio di luce verde era scaturito dalla bacchetta di Harry colpendo la Mangiamorte in pieno petto, costringendola ad accasciarsi al suolo stringendo con la mano i lembi di pizzo che costituivano il corpetto del suo vestito nero, lacerato sul lato del cuore.
“Stupido moccioso, hai osato troppo. Avada Kedavra.”
Potevano esserci infiniti modi di morire ed era stato quello peggiore per chi restava e il migliore per un essere che aveva fatto del proprio cuore puro il fulcro di un’esistenza intera, quello per mano di una Maledizione senza Perdono.
Riverso a terra, così vicino a lui da poter sfiorare la sua mano con la propria, era una scultura scomposta che recava la bellezza tipica della morte.
Un solo singhiozzo era giunto da Ginny prima di coprirsi la bocca con le mani per non gridare, Harry inginocchiato a terra con la bacchetta ancora stretta tra le mani e le lacrime che gli scivolavano lungo le guance sporche di terriccio.
“Che idiozia l’amore. Questo tipo di amore. Ne ho visti troppi, tutti uguali e conclusi nel medesimo modo: con un sacrificio. Peccato, sarebbe stata un’Auror promettete per quel poco che il Ministero può riuscire ad avere di davvero eccellente. Accio, Horcrux di Cosetta Corvonero!”
Dalla tasca della giacca di Harry si era levata quella che nella nebbia era apparsa come una gemma ma che probabilmente era tutt’altro, probabilmente una passaporta.
“Addio Potter.”
“Avada…”
“Findfyre!*”
“Crucio!”

Lucius Malfoy era riemerso dall’ombra impugnando la propria bacchetta puntata contro Ron, che gridava di dolore tenendo stretto nella mano sinistra il polso destro.
Non sapeva quantificare il dolore fisico e quello spirituale se non con le lacrime e le grida, entrambi distinti da una bruciatura di cui avrebbe per sempre portato un’indelebile cicatrice.
Un guizzo di fumo verde, nebbia che si trasformava e modellava attorno sino a far scomparire i due Mangiamorte.
Ancora lì, riverso sul suolo dinnanzi a lui, giaceva il corpo di Hermione, quello che pochi minuti prima aveva stretto tra le braccia con la convinzione cieca di poterlo fare altre milioni di volte da quel punto in poi, come se fosse una partenza e non un arrivo.
“Hermione?”
“Ronald…”
“Statemi lontani…tu l’hai uccisa Harry!”
Potevano essere le parole di odio di un folle o di una vittima, ma quante volte si era comportato a quel modo Harry? Come suo padre e Sirius, anche lui aveva agito di impulso senza pensare al pericolo a cui sottoponeva gli amici di sempre.
Dopotutto per un Eletto cosa poteva mai essere un martire per la gloria?
Si era trascinato al capezzale di Hermione scostandole ciocche di capelli dal viso, attirando a sé quel corpo già freddo e privo di vita, affondando il proprio pianto in quella chioma ispida di riccioli castani.
Quante volte avrebbe potuto farlo e mai aveva osato?
Erano state così tante le occasioni perdute, innumerevoli i segnali che il suo cuore gli aveva lanciato e avrebbe dovuto aprire gli occhi davanti a Viktor Krum e agguantare il coraggio che Hermione gli aveva sventolato sotto il naso persino nel suo ultimo gesto, il più grande e disperato.
Possibile che la morte avesse reso immortale l’amore?

Non gli era stata concessa nemmeno la possibilità di un ultimo saluto a quella che avrebbe potuto essere la donna della sua vita, quella che senza chiedergli nulla in cambio gli aveva donato sé stessa e il proprio cuore.
Era davvero giusto morire a diciassette anni?
Hermione era come un fiore reciso dal proprio vergineo stelo, l’ennesima vittima necessaria in una guerra che si protraeva da anni e che ancora attendeva un epilogo al quale Ronald Weasley avrebbe partecipato da spettatore, se non vi fosse stata quella certezza assoluta di un rimprovero da parte della strega migliore che avesse mai conosciuto.
Quella che era riuscita a creargli tuffi al cuore anche solo parlando e che gli aveva concesso un bacio prima di scegliere la sua vita a scapito della propria.
Un sacrificio così grande non poteva essere stato vano.
Oltre la finestra l’ennesimo tramonto sul Tamigi si stagliava dinnanzi a lui fiero e ammonitore, così vivo nei ricordi da essere soffocante.
“Ronald?”
“Luna vorrei che uscissi di qui.”
“Mio padre dice sempre che chi muore non muore davvero sino a quando resterà nel cuore di chi l’ha conosciuto in vita. Io non dimenticherò mai Hermione, e tu?”
La genuinità fanciullesca di Luna aveva la capacità di irritare e ispirare tenerezza al contempo, costringendo Ron a voltarsi verso di lei.
Luna si tormentava distrattamente con le dita affusolate la collana fatta di noccioli di pesca, che aveva sostituito quella creata con tappi di burrobirra.
“Ci sono i rimpianti e il loro peso è pari a quello del dolore.”
“Lei sapeva di amarti e ti ha atteso. Ha aspettato che anche tu lo capissi. Ci sono persone che credono di essere destinate sin dalla nascita le une alle altre e forse anche per voi è così. Devi solo avere pazienza sino a quando i nargilli saranno grandi.”
Quando i nargilli fossero cresciuti avrebbe portato gigli e rose sulla tomba di Hermione. Piangerla nell’immensità di Hogwarts, la sua tomba accanto a quella di Silente, senza averle offerto un ultimo addio né aver avuto la possibilità di sussurrarle a fior di labbra il suo “ti amo”.
Gli piaceva credere alla parole di Luna, erano una pillola dorata da ingoiare quando il vuoto lasciato da Hermione si apriva come una nova pronta a esplodere in tutta la sua violenza travolgendo tutto ciò che incontrava sul proprio cammino devastandogli l’animo.
La condanna peggiore sarebbe stata quella dei rimpianti, il ricordo di un bacio strappato a un passo dalla morte in cui lui aveva visto un inizio che si era rivelato un preludio alla fine di un qualcosa di mai nato che, con il passare degli anni, sarebbe divenuto il punto di forza su cui fondare un’intera vita da Auror.








* Findfyre. E’ un incantesimo utilizzato in “Harry Potter and the Deathly Hallows”, capace di distruggere persino gli Horcrux.

Note dell'autrice. Da sempre sono una fervida sostenitrice dei Grifondoro ma ancora non ero riuscita a scrivere nulla su di loro, specie perché il fandom tende a inflazionare inverosimilmente i personaggi principali della saga e la coppia che ho scelto come protagonista di questa vicenda non fa eccezione. In vista dell’uscita italiana dell’ultimo capitolo della serie (ho scritto questa storia ormai nel lontano 2007), ho così deciso di dare con questa one-shot un breve spaccato di ciò che potrebbe essere, senza aver letto spoiler. Inoltre, con questa vicenda adempio agli impegni presi esaudendo una delle richieste del terzo sondaggio dell’archivio.
   
 
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