Questa
One-Shot è stata scritta per il contest "A
spasso nel tempo",
indetto da "Twilight
Fanfic Contests".
La
storia doveva essere ambientata in una determinata epoca storica ed i
protagonisti principali dovevano essere Edward e Bella.
Le
votazioni sono ancora aperte, verranno chiuse il 24 Marzo. Vi
consiglio di dare un'occhiata al forum, ci sono storie veramente
carine!
Grazie mille a chiunque avrà voglia di
leggere.
_____________
Una
parola, una vita.
Southampton,
10 aprile 1912.
Seguo
a piccoli passi l'addetto ai bagagli. A testa bassa, come sono
abituata a vivere.
Mi prendo il lusso di alzarla raramente, come
se la mia vita fosse un bicchiere d'acqua da bere a piccoli sorsi. E
a piccoli sorsi ora alzo lo sguardo. Solo per qualche timido secondo,
per sbirciare le pareti, i lampadari, i tessuti. Per specchiarmi in
un mondo che mi ospita, ma che non è mio.
Arriviamo davanti
ad una porta di legno massiccio e scuro, che risalta a contrasto con
la moquette quasi dorata.
Il signore che mi precede si passa
tra le mani un grande mazzo di chiavi ed apre la porta. Entra,
trascinando parte dei bagagli. Portarli tutti insieme era un
problema, il resto delle cose verranno consegnate nelle prossime
ore.
Aspetta che anch'io entri nella stanza e poi se ne va, senza
considerarmi. Senza il piccolo inchino a cui lo obbliga il suo
mestiere, senza un cenno della testa, senza salutarmi educatamente
con un "Prego, signorina", "Buona permanenza,
signorina". Se ne va in silenzio perché ha capito che con
me può risparmiarsi i saluti, che valgo quanto le valigie che
ha lasciato sul pavimento.
La porta si chiude ed io aspetto
qualche secondo prima di guardarmi intorno.
È una suite,
naturalmente. C'è un soggiorno, due guardaroba, due bagni, un
ponte di passeggiata privato e tre camere da letto, di cui due
matrimoniali ed una singola. E pensare che tutte queste stanze
saranno a disposizone di una persona soltanto.
Sento partire
l'applauso al di là delle finestre. Le urla si fanno più
forti, l'entusiasmo aumenta, sento il pavimento che comincia a
tremare sotto i piedi.
Non voglio partecipare ai festeggiamenti,
per me non c'è niente per cui essere felice.
È
soltanto un viaggio, uno dei tanti. Non ci saranno cambiamenti nelle
mie giornate. Il mio lavoro richiede sempre gli stessi impegni, la
stessa educazione, lo stesso rispetto. La prigione rimane sempre la
stessa, sia che le sbarre siano piantate sulla terra ferma sia che
galleggino in mare aperto.
Resto per qualche secondo sospesa,
indecisa se continuare ad ascoltare le urla della gente che
impazzisce per i motori accesi o iniziare a darmi da fare, iniziare
il mio lavoro.
Decido che la prima cosa da affrontare è il
cambio d'abito.
Cerco la mia piccola borsa, soffocata da tutte le
altre valigie, e mi dirigo verso la mia stanza. Trovo subito quella
singola ed entro, senza fare attenzione all'arredamento che mi
ospiterà nei prossimi giorni.
Mi tolgo i miseri abiti
da viaggio ed indosso la camicia bianca, un lungo vestito nero ed un
grembiule chiaro, intrecciato sulla schiena. Lego i capelli in una
crocchia bassa, assicurandomi che sia solida e che non ci siano
ciocche fuori posto.
Torno in soggiorno e faccio il punto della
situazione, ripetendomi a bassa voce le prime cose da fare.
Appendere
i quadri, sistemare i fiori, riempire il guardaroba.
Decido di
iniziare dall'ultima opzione e, mentre mi avvicino al primo bagaglio,
la porta si apre.
Indossa un lungo cappotto rosso scuro, in tinta
con il rossetto. La pelliccia nera che decora il colletto riprende il
colore dei suoi guanti di pelle. Sui capelli scuri, raccolti in
un'acconciatura elegante, è poggiato un piccolo cappello, dal
quale pendono ciuffi di piume che le dondolano davanti agli occhi.
Mi
vede, accucciata in mezzo ai suoi bagagli, e gli occhi le si
riempiono di quel disprezzo che ormai conosco bene.
"Non hai
ancora sistemato le mie cose?" mi sputa contro.
"Mi
scusi, signorina Angela."
E, a testa bassa, sollevo la
prima valigia.
***
11
aprile 1912
"Allora,
Bells?" urla dall'altra stanza. "Quanto ancora dobbiamo
aspettare per questo tè?"
Al suono della sua voce, una
mano trema e rischio di far cadere una tazza. La sistemo bene insieme
alle altre, accanto alla zucchero e al piccolo bricco del latte. Con
il vassoio tra le mani raggiungo il salotto, mentre la luce del
pomeriggio entra prepotente dalle finestre, insieme al rumore del
mare. Un rumore lontano per le mie orecchie, così lontanto che
non sembra neanche vero.
Appoggio con cura il vassoio sul tavolino
in mezzo ai divani, facendo attenzione a non far scontrare le tazze
tra loro. La signorina odia questi piccoli rumori fastidiosi.
"Ecco
a voi," sussurro, a testa bassa. "Chiedo scusa per il
ritardo."
Angela e le sue amiche si servono senza degnarmi di
uno sguardo. Sono tutte appollaiate sui cuscini, fumano sigarette
incastrate in ridicoli bastoncini d'oro e chiaccherano delle loro
stupidaggini preferite.
"Bells, non te ne andare." mi
ordina Angela. "Almeno se avremo bisogno di qualche altra cosa
non aspetteremo anni prima di riaverti qui, giusto?"
Annuisco,
mi allontano fino a raggiungere il camino e resto in piedi, con la
schiena che sfiora a malapena la parete di legno e lo sguardo fisso
sulla moquette.
Provo ad ignorare le loro voci squillanti e mi
concentro sul rumore del mare. Ma non riesco più a
trovarlo.
"Allora, ragazze? Cosa facciamo questo pomeriggio?"
chiede Angela, dopo aver bevuto un sorso di tè.
La ragazza
con i capelli più chiari si impettisce, posa la tazza sul
tavolino e, sporgendosi verso le altre con fare ammicante, dice:
"Sala fumatori." Le sue amiche la guardano con aria
interrogativa.
"Mi sono informata, sarà piena di
uomini." aggiunge lei, soddisfatta. E scoppiano le
risatine.
Ormai le conosco tutte. So i loro nomi, so come
preferiscono prendere il tè, so chi ha la risata più
fastidiosa, so che aspetto hanno gli autisti che le accompagnano fino
alla casa della signorina Angela.
Jessica, Leah, Alice,
Lauren.
Una più insopportabile dell'altra.
Ma oggi non
sono solo loro quattro. C'è anche un'altra ragazza, seduta a
gambe incrociate sulla poltrona.
Hai i capelli lunghi e biondi,
raccolti in una treccia che le cade sulla spalla fino ad arrivare
sotto il seno. È vestita di nero, l'unica nota di colore sono
le labbra carnose tinte di rosso. È bellissima, più di
tutte loro messe insieme.
Sembra non dare importanza a ciò
che dicono. Non si è mai intromessa nei loro discorsi, non ha
mai fatto sentire la sua voce. Ogni tanto le guarda, ma il suo unico
pensiero sembra essere quello di fumare.
"Avete sentito chi
c'è sulla nave? Ormai è ufficiale!" squittisce
Jessica, con una mano sulla bocca.
Le altre la guardano, in attesa
della rivelazione. Lei sorride compiaciuta, aspetta qualche secondo
prima di parlare e poi esclama: "Edward Cullen!" E i
gridolini si fanno così acuti che temo che il soffitto si
possa spaccare a metà.
Edward Cullen è il figlio di
un famoso e potente industriale. La signorina Angela ne parla da
mesi. È innamorata follemente di lui, proprio come tutte le
sue amiche. E, nei loro pensieri e nelle loro chiacchere, se lo
contendono con tenacia, cercando di decidere a chi spetta il diritto
di finire tra le sue braccia.
La ragazza bionda è l'unica a
non esultare, e tutte le altre si voltano a guardarla.
Lei tira a
lungo la sigaretta, lascia che il fumo esca lentamente dalla piccola
fessura formata dalle sue labbra e poi sorride. "No, grazie. Lo
lascio a voi."
Angela si indispettisce, minacciata e
spiazzata dalla superiorità che quella ragazza così
bella riesce a dimostrare. Si rivolge a lei, con la voce più
acida del solito.
"Che c'è, Rosalie? Nemmeno lui è
abbastanza per te?"
"No, Angela." risponde, con una
calma nella voce e nei movimenti che non fa altro che innervosirla
ancora di più. "È che non ho voglia di faticare
così tanto per portarmi a letto un uomo."
La stanza,
al suono delle sue parole, trabocca di scandalo. Le ragazze la
guardano con gli occhi spalancati, indignate da ciò che si è
permessa di dire e dai toni usati. Si lanciano occhiate a vicenda,
senza il coraggio di commentare, prendendo piccoli sorsi di tè
con le labbra indispettite strette intorno ai bordi della
tazza.
Rosalie ha già smesso di considerarle, continua a
fumare come se nella stanza non ci fosse nessun'altro.
Poi accade
una cosa strana, insolita anche da parte dell'essere umano più
interessante che ho incontrato negli ultimi anni: si volta e mi
sorride.
Si volta, cerca me – proprio me – ed allarga
le labbra fino a dedicarmi un sorriso.
Di solito si rivolgono a me
per dare ordini, per lamentarsi di come li ho eseguiti, per pulire
dove loro hanno sporcato. Ma mai, mai, si rivolgono a me per
mostrarmi un sorriso.
Mai fino ad ora. Mai fino a
Rosalie.
Imbarazzata, chino la testa e torno a guardare il
pavimento, sentendo il calore che inonda le guance.
"Bells,"
mi chiama, ed io sono costretta a tornare a guardarla. "È
così che ti chiami, vero?"
"Bella."
sussurro, dopo essermi schiarita la voce. "Mi chiamo
Bella."
Sulla faccia di Rosalie appare una smorfia, e si
rivolge ad Angela. "E perché la chiami Bells?"
Angela
diventa completamente rossa in volto, trasuda rabbia da ogni
lineamento e, senza aprire bocca, cerca solidarietà nello
sguardo delle altre.
"Bella," ripete Rosalie
gentilmente, facendomi cenno di avvicinarmi. Allunga una mano e mi
porge la tazza vuota. "Per favore, riempila con qualcosa di
forte. Ne ho disperatamente bisogno."
E mi sorride un'altra
volta.
Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, mentre sono
impegnata a riordinare la stanza di Angela, sento sbattere la porta.
Mi raggiunge camminando velocemente, con i capelli in disordine e il
fiato corto.
Apre un armadio e lancia un mucchio di vestiti sul
letto, vanificando il lavoro delle ultime ore.
"Mi devi
aiutare." Mi guarda negli occhi come se fosse indemoniata. Per
un attimo riesco perfino a preoccuparmi. "Devi scegliere il
vestito più bello, non posso sbagliare."
Ormai conosco
tutti gli abbinamenti giusti tra evento, abito e trucco. So quale
vestito è giusto indossare durante un pranzo importante,
quello adatto per un pomeriggio con le amiche o per una cena
impegnativa. Conosco tutto quello che c'è da sapere per
vestire gli altri, per vestire Angela. So come si abbinano gli abiti
che non indosserò mai, so come si vive la vita che non avrò
mai. Per vestire e per far vivere me non è necessario
conoscere niente.
"Eravamo tutte in sala lettura,"
inizia a raccontare, mentre io provo gli abbinamenti, appoggiando
ogni abito sul vestito che già indossa. "Abbiamo
incontrato Edward ed alcuni suoi amici o colleghi, non ho ben capito.
Alice si è innamorata all'istante di un biondino tutto
silenzioso, sempre sulle sue. Un certo Jasper, ma non è
importante." Sollevo un abito arancione, ma lei me lo prende
dalle mani e lo scaraventa sul letto. Non le piace. "Quello che
è importante è che c'è un'avversaria in meno.
Adesso le altre sono andate al Caffè Parigino, io mi sono
inventata una scusa per andarmene."
"Vuole tornare a
cercare quell'uomo, signorina?" chiedo, sovrappensiero.
"Certo
che voglio tornare a cercarlo! Cosa credi? Che me lo faccia soffiare
da sotto il naso da quelle lì?" risponde stizzita.
Scelgo
un abito di pizzo beige, con la fodera rossa. Un rosso acceso in
tinta con la grande cintura di raso stretta in vita. So già
quali orecchini posso abbinarci.
Glielo mostro, le consiglio
sottovoce quali gioielli indossare. Con un'espressione di
sufficienza, annuisce e mi ordina di aiutarla a vestirsi.
Poco
dopo siamo davanti allo specchio, lei seduta sullo sgabello ed io
dietro, impegnata a sistemarle i capelli. Al trucco ho già
pensato, e gli anni di pratica mi hanno aiutata a raggiungere un
risultato praticamente perfetto.
"Quella Rosalie,"
esclama indignata, mentre le intreccio una ciocca di capelli. "La
detesto! È insopportabile... una maleducata, una poco di
buono. Ho anche parlato con i suoi genitori questa mattina, e mi
hanno confermato i miei sospetti: è completamente fuori
controllo, non riescono a gestirla."
Come spesso accade
durante le mie giornate, sono costretta a mordermi la lingua e a
soffocare i pensieri per non dire cose che mi rovinerebbero la vita.
Per non dire quello che penso, la mia verità.
"Poco fa
ha superato il limite," continua, senza aspettarsi nessun
commento da parte mia. "Ha avuto il coraggio di dirmi che sono
completamente pazza a tenermi intorno una come te, perché"
e scimmiotta la voce per provare ad imitarla "la
sua bellezza è così disarmante che offusca la tua.
Te ne rendi conto?"
Rosalie pensa questo di me? Quella donna
meravigliosa ed intraprendente pensa che sono bella? Più bella
della signorina Angela?
Devo sforzarmi fino a farmi venire il mal
di testa per non lasciarmi andare ad un sorriso. Per non lasciar
trapelare la felicità che mi sta riempiendo il
petto.
Ordinando e spolverando il salotto, non posso fare
meno di pensare ad Angela.
Una ragazza giovane, ricoperta di
soldi, abituata a vivere nel lusso. Ma sempre sola.
Perfino
i suoi genitori fanno di tutto per tenerla lontana, sono arrivati
addirittura a spedirla in mezzo all'oceano, con l'unica speranza che
finalmente riuscisse a trovare marito.
L'unica compagnia che
riesce ad ottenere è quella di un gruppetto di amiche false
come lei e quella della sua serva. Perché è questo che
sono, la sua serva. E lo sono da tanti anni, da quando ero una
ragazzina, da quando mi hanno insegnato che sognare fa male. Fa male
alla testa e al cuore. Perché quelli che il mondo chiama
sogni, la gente come noi li conosce come illusioni. Io ne ero piena –
di speranze, sogni, futuro - quando mi hanno buttata in casa di gente
sconosciuta, ripetendomi che da quel giorno il mio unico pensiero
doveva essere quello di ubbidire, annuire, soddisfare i bisogni delle
persone che ti assicurano un tetto sopra la testa.
I miei pensieri
vengono interrotti quando qualcuno bussa alla porta.
Immagino che
sia Angela. Disperata, in lacrime, in cerca di attenzioni perché
non è riuscita a trovare quell'uomo, o non è riuscita a
parlargli, o un'altra insopportabile tragedia ha stravolto il suo
mondo.
Passo le mani sul grembiule bianco, libero un respiro
profondo ed apro la porta.
Mi trovo davanti Rosalie, in tutta la
sua bellezza ed esuberanza.
È vestita e pettinata
esattamente come ieri, ed immagino lo scandalo che ha provocato
quando se ne sono accorte tutte le altre.
Dopo un attimo di
sopresa, riesco a parlare. "Buonasera, signorina Rosalie."
"Si
può sapere chi è questa signorina?
Chiamami Rosalie." sorride, ed ancora non riesco a farci
l'abitudine.
"Posso aiutarla in qualche modo?"
sussurro.
"Sì, sono qui proprio per questo." Mi
mostra quello che stringe tra le braccia: un lungo cappotto grigio
scuro. "Indossalo" mi ordina, con un tono che non ammette
repliche.
"Cosa?" Sento gli occhi spalancarsi, i muscoli
irrigidirsi. Non capisco cosa mi sta chiedendo, e la paura che mi
pietrifica è quella di non riuscire a soddisfare il bisogno
dell'unica persona che è stata gentile con me.
"Voglio
che indossi questo cappotto, così nessuno noterà la
divisa."
Annuisco e, sempre in piedi davanti alla porta,
infilo le braccia nelle maniche, fino a sentire il tessuto morbido e
profumato coprirmi dal collo alle ginocchia.
"Ti sta
benissimo," afferma soddisfatta. "Ora seguimi."
"Signorina,
è impazzita?" esclamo impaurita. "Non posso lasciare
la stanza!"
"Sei abituata a ricevere ordini, vero? Bene,
te ne sta dando uno la signorina
Rosalie."
Mi afferra un braccio e lo intreccia al suo, chiude la porta e mi
trascina lungo il corridoio. "Non permetterò che tu stia
tutto il viaggio chiusa in quel buco! Scommetto che non hai ancora
visto l'oceano."
Scommette bene.
"Ma se la signorina
Angel-"
"La signorina Angela è impegnata in
altro," mi interrompe. "Ho controllato."
Cammino
arrancando, trascinata dalla sua camminata decisa, rassicurata dal
calore del suo fianco.
"Lei si comporta così con la
sua servitù?" le chiedo curiosa. E per un attimo mi
immagino come sarebbe, trascorrere le giornate in sua compagnia,
obbidire ai suoi ordini invece che a quelli di Angela.
"Io
non ho servitù," risponde schifata. "Ce l'hanno i
miei genitori."
Spinge un'enorme maniglia di legno e la porta
si apre, mostrandomi cosa nascondono le pareti in cui sono
rinchiusa.
Le nostre braccia si sciolgono e Rosalie, soddisfatta e
felice, mi lascia libera.
Libera di respirare aria nuova, di
stringermi nel suo cappotto per proteggermi dal freddo, di farmi
spettinare i capelli dal vento.
Di godermi la gente, le
chiacchere, il movimento, la vita.
L'enorme distesa blu che si
apre davanti ai miei occhi.
Così nitida da sembrare un
dipinto.
Me lo godo sorridendo.
L'oceano.
***
13
aprile 1912
Per
stasera è prevista, nel salone principale, una cena di gala,
seguita da un ballo.
Ho trascorso tutto il pomeriggio ad aiutare
Angela con i preparativi. Era entusiasta ed emozionata; dopo le ore
passate con Edward è convinta di avere la vittoria in pugno.
Ho impiegato più tempo di sempre nel prepararla perché
ogni cosa, dal trucco all'abito, doveva essere più che
perfetta.
Ed il risultato per fortuna non l'ha delusa. Quando è
uscita era bellissima, sembrava una principessa.
Ho concluso la
mia serata riordinando il suo guardaroba e la sua stanza. Il resto
della suite splende grazie alle pulizie di questa mattina.
Decido
che è arrivato il momento di coricarmi e raggiungo la mia
stanza.
Mi tolgo la divisa, la piego con cura e la sistemo sulla
sedia vicino al letto.
Mi lascio coccolare dalle coperte
morbide e, cullata dal silenzio e dalla stanchezza che sempre mi
accompagnano, mi addormento in pochi secondi.
Un rumore mi sveglia
e mi fa sobbalzare. Mi metto seduta sul letto, mi porto le coperte
sulle spalle e trattengo il respiro. Il rumore si ripete, e capisco
che qualcuno sta bussando alla porta con insistenza.
Non può
essere Angela, è troppo presto. E allora chi è?
Indosso
velocemente una vecchia vestaglia, che copre la leggera camicia da
notte, e a piedi nudi raggiungo il salotto. Poggio i palmi sulla
porta, avvicino anche l'orecchio. Non sento niente.
"Chi è?"
sussurro.
"La tua cara signorina
Rosalie!"
risponde sarcastica. E continua a bussare.
Apro la porta prima che
possa svegliare ed insospettire tutto il piano.
Mi sorride, e
sento che le mie labbra stanno facendo lo stesso.
"Entri
pure, signorina." e mi faccio da parte per farla
passare.
Indossa un lungo abito rosso, che le lascia scoperte le
spalle e molto altro ancora. Non riesco nemmeno ad immaginare quanti
uomini abbia fatto impazzire durante la cena.
Inizia subito a
girovagare tra le varie stanze, stringendo tra le braccia un fagotto
scuro che non riconosco, e si ferma quando trova la mia. La seguo e
quando la raggiungo noto, appoggiato sul letto, un meraviglioso abito
da sera.
"Che significa?" mormoro, sentendomi in balia
di una sensazione che assomiglia tanto alla paura.
"Significa
che, terminata la cena, ho finto di sentirmi poco bene e ho
gentilmente chiesto il permesso di alzarmi." risponde Rosalie,
con calma. "Sono salita in camera, ho scelto il vestito più
bello che ho e te l'ho portato."
Sono sempre confusa. Non
riesco a seguire i suoi ragionamenti, non riesco a capire i suoi
ordini.
Cosa vuole da me? Perché è qui?
"Non
si aspetta che lo indossi, vero?"
"Certo. Mi aspetto che
tu lo indossi, insieme ai gioielli che ti ho portato e al trucco
della tua signorina Angela. E mi aspetto anche che tu esca da quella
stanza, tu raggiunga la sala e che tu ti divert-"
"Perché
lo sta facendo?" la interrompo, e subito mi pento della mia
maleducazione. "Perché lo sta facendo, signorina
Rosalie?"
Abbassa per un attimo lo sguardo, e quando alza di
nuovo la testa noto così tanta tristezza nei suoi bellissimi
occhi che mi viene voglia di piangere.
"Perché sono
stanca," sussurra. "perché mi annoio, perché
li odio tutti. Perché non sopporto che si godano il lusso, il
cibo, la musica, quella vita. Loro non se la meritano, io non me la
merito. Tu sì."
Si volta velocemente ed io,
completamente nel panico, l'afferro per un braccio. Sento le mie dita
stringere la sua pelle morbida e mi allontano in un istante, facendo
cadere le braccia lungo i fianchi, scusandomi a testa bassa per la
confidenza che mi sono presa.
Rosalie si ferma, si volta, mi
stringe il mento tra le dita e mi costringe a guardarla negli
occhi.
Ha lo sguardo dolce. Triste, lontano e dolce.
"Nessuno
lo scoprirà, non ti riconosceranno. Fidati. Truccati tanto,
non ti avvicinare troppo a chi ti conosce. Ed andrà tutto
bene. Io sarò nei paraggi, se hai bisogno di un sorriso
cercami con lo sguardo."
Mi specchio nei suoi occhi. Ed
immagino quanto possano sembrare spaventati i miei.
Lei capisce
tutta quella paura, ed aggiunge le uniche parole che sa che mi
arriveranno dritte al cuore.
"Pensa all'oceano."
sussurra.
E, lasciandomi impietrita con l'immagine di quella
distesa infinita di acqua e libertà davanti agli occhi, se ne
va.
L'abito è stupendo.
Nero, lungo, impreziosito da
pizzo e brillanti. Il corpetto mi fascia la pancia, valorizzando i
fianchi e il seno. Le spalle sono coperte da sottili spalline, le
mani e gli avambracci da lunghi guanti di pizzo nero. La gonna mi
accarezza le gambe e cade leggera verso il pavimento, svolazzando ad
ogni passo. La collana e gli orecchini sono meravigliosi,
perfetti.
Ho scelto un trucco abbastanza pesante per essere ancora
più irriconoscibile. Le labbra disegnate da un luminoso
rossetto rosso fuoco, gli occhi coperti da un po' di ombretto nero e
mascara, le guance illuminate dal phard. I capelli li ho raccolti in
uno chignon alto ed ordinato, che ho decorato con un filo di
brillanti.
Mi guardo un'altra volta allo specchio.
Sono
bellissima.
Irriconoscibile.
Un sogno.
E tutta quella
bellezza riflessa davanti ai miei occhi fa sparire la paura, i dubbi,
i ripensamenti. Mi guardo e sento che andrà tutto bene. Mi
guardo e c'è solo coraggio.
Mi volto e, a testa alta, esco
dalla suite.
Mentre cerco il salone principale e sorrido a
chiunque incontri il mio sguardo, c'è solo un pensiero che mi
occupa la mente, uno soltanto: per una sera, indosso gli abiti che ho
imparato a scegliere ed abbinare;
per una sera, vivo la vita che
sono sempre stata costretta ad osservare da lontano.
Due
enormi scalinate si aprono davanti a me. Le pareti, le colonne e le
ringhiere sono di un legno scuro e lucido, impreziosito da disegni e
motivi d'oro. Il salone, i lampadari, i tavoli, le sedie... tutto
così grande e bello che non riesco a godermelo tutto
insieme.
Cerco tra la folla la signorina Angela e le sue amiche,
ma non riesco a trovarle. Allora mi faccio più piccola che
posso e, sorreggendomi al corrimano e sentendo lo strascico del
vestito che accarezza i gradini, scendo lentamente le scale.
Da
lontano scorgo la sala nella quale si è svolta la cena, ma è
già vuota. Si sono spostati tutti nel salone principale.
L'orchesta sta suonando con trasporto e la gente, divertita ma sempre
composta, ha occupato quasi tutta la pista. Altri piccoli gruppetti
si sono riuniti intorno ai tavolini. Chiaccherano allegramente,
osservano gli altri ballare, sorseggiano champagne.
Un cameriere
mi passa accanto e mi porge un bicchiere posato su un vassoio. Lo
accetto con un sorriso e, con tutta la naturalezza che riesco a
fingere, inizio a camminare lungo la stanza, sorseggiando lentamente
dal bicchiere. Le piccole bollicine mi solleticano la lingua ed
arrivano subito alla testa.
Scorgo Rosalie, appoggiata ad una
colonna, con la sigaretta tra le dita. Sta parlando con un ragazzo.
Alto, moro, un fisico possente. Ridono, gesticolano, bevono.
Lei
si volta all'improvviso e mi vede. Rimane per qualche secondo con la
bocca aperta, poi mi sorride e, senza farsi notare da nessuno, mi fa
l'occhiolino. Sento le guance prendere fuoco, ricambio il sorriso e
mi allontano, temendo che Angela e le altre siano nelle
vicinanze.
Sto appoggiando il bicchiere sempre mezzo pieno su un
tavolino, quando una voce bassa mi solletica le spalle.
"Mi
concede un ballo, signorina?"
Mi volto tremando e la prima
cosa che vedo sono due bellissimi occhi verdi.
Ha i capelli, di un
colore unico, tirati indietro. Indossa, con innata eleganza, uno
smocking nero. Un sorriso perfetto gli illumina i lineamenti marcati,
le piccole fossette intorno alla bocca, la mascella tesa e disegnata
alla perfezione.
Non riesco a pensare, non riesco neanche a
ricordare come si fa a parlare. Mi limito a guardarlo, sperando che
la mia espressione confusa trasmetta quel distacco che lo faccia
allontanare.
Ma lui mi afferra una mano, avvicina il pizzo nero
che mi copre il dorso alle labbra e, quasi senza sfiorarlo, ci lascia
un bacio. Mi guida fino alla pista, intreccia la mia mano alla sua e,
alzandole all'altezza delle mie spalle, mi sorride un'altra volta. Mi
circonda il fianco con l'altro braccio, avvicina la testa al mio
orecchio ed inizia ad ondeggiare.
"Ho deciso di prendere il
suo silenzio per un sì." sussurra.
Impietrita dalla
timidezza, mi limito a fare l'unica cosa di cui sono capace:
respirare.
"Qual è il suo nome?" chiede,
guidandomi a tempo di musica.
La mia mano trema appoggiata alla
sua spalla, socchiudo gli occhi e mi concentro solo sul suo
indescrivibile profumo. I secondi passano, la musica continua a
riempire la sala. Io non rispondo, ma, abbracciata dal suo calore,
inizio ad abituarmi alla sua vicinanza.
"Capisco,"
mormora. "È una donna di poche parole.
Una meravigliosa donna
di poche parole."
Arrossisco e, facendomi coraggio, cerco i
suoi occhi. Ora che sono così vicini, sono ancora più
belli.
Sto ancora contando tutte le sfumature di verde che
riempiono le sue iridi, quando, al di là della sua spalla,
noto un piccolo gruppo di donne in agitazione.
La prima che
riconosco è Jessica, che guarda nella nostra direzione e, con
un cenno della mano, ci indica a tutte le altre. Mi volto di scatto,
prima che qualcuno mi possa riconoscere. Chiudo gli occhi e rimango
nascosta dietro di lui, coperta dalle sue spalle.
"Che
succede?" esclama, stringendomi le braccia.
Io mi libero
dalla sua presa, lo saluto con un sorriso amaro che non potrà
mai vedere e, a grandi passi, esco dalla sala.
La prima uscita che
trovo è una grande porta a vetri, che spingo con forza ed
impazienza. Mi ritrovo all'aria aperta, su una grande terrazza
affacciata sull'oceano.
L'aria fredda mi schiaffeggia la
faccia, mi porto le braccia intorno alla vita per trovare calore in
un abbraccio. Aumento il passo, quando sento in lontananza dei passi
che mi seguono. Ma, in bilico su tacchi troppo alti per me e le mie
abitudini, non riesco ad essere abbastanza veloce.
Mi afferra una
mano e, con un unico movimento, mi costringe a voltarmi e ad ammirare
ancora una volta la bellezza del suo volto.
Sono sconvolta. Lo
sento, lo so. E lo sa anche lui.
"Che succede?" ripete,
con più dolcezza e meno irruenza.
"N-niente"
balbetto. Ed è la prima parola che gli dico, dopo minuti
interi di silenzio emozionato.
Mi guardo intorno, controllo se
qualcun'altro ci ha seguiti. Lui mi osserva accigliato, non
capisce.
All'improvviso sorride, alzando un angolo della
bocca.
"Non ho capito cosa sta succedendo, ma va bene lo
stesso." Si avvicina e, alzando un braccio, mi fa cenno di
intrecciarlo con il mio.
Dovrei andarmene, prima che qualcuno mi
riconosca. Dovrei salire in camera, prima che Angela si stufi del
ballo e decida di andare a letto. E dovrei allontanarmi da lui, prima
che capisca che l'unica cosa che ho da offrirgli sono mani vuote
consumate dal lavoro.
Ma stasera non sono io. Stasera le mie mani
non sono vuote, sono solo coperte da morbido pizzo nero. La
stanchezza del volto è stata camuffata dal trucco, e il mio
corpo insignificante è nascosto da un bellissimo abito che non
potrò indossare mai più. E non sono rinchiusa tra
quattro pareti, stasera intorno a me c'è solo
l'oceano.
L'oceano.
Pensa
all'oceano.
Mi
faccio coraggio, sorrido per la prima volta da quando l'ho visto ed
intreccio il mio braccio al suo.
Camminiamo lungo una scala
di legno, che conduce ad un'altra piccola terrazza.
"Sotto di
noi c'è il salone," bisbiglia. "La sente la
musica?"
Mi avvicina di nuovo a sè, mi cinge la vita
con un braccio e ricomincia a guidarmi su note a me sconosciute. Il
freddo è sparito, non ho più bisogno di
abbracciarmi.
"Sì" sorrido. Sotto i nostri piedi
l'orchestra sta continuando a suonare, ma questa volta la musica è
soltanto per noi. Per le parole che nessuno ascolterà, per i
sorrisi che nessuno potrà sbirciare. Per me, per lui, per le
onde dell'oceano che accompagna i nostri passi.
"Allora,"
dice, guardandomi fisso negl'occhi. "Le posso dare del
tu?"
Nessuno
mi aveva dato del lei prima d'ora,
vorrei rispondergli. Ma mi limito ad annuire.
"Si può
sapere dove ti nascondevi? Giuro di non averti mai vista prima."
Mi
schiarisco la voce, arrossisco sotto il suo sguardo. "Chissà...
forse non hai una buona memoria."
"Mi ricorderei di te,
fidati." La sua voce è sempre più bassa, sempre
più calda. "Come ti chiami?"
"Isabella,"
Decido di presentarmi con il mio nome di battesimo, il nome che
nessuno conosce. "Isabella Swan."
"Incantato,
signorina Swan." Al suono di quelle parole, così insolite
ed assurde, sento le gambe tremare. "Io sono Edward Cullen."
No,
no, no. Lui no.
I muscoli si pietrificano, gli occhi si
spalancano, non riesco più a seguire la musica insieme a
lui.
È sempre peggio, è ancora peggio.
La
signorina Angela l'avrà tenuto d'occhio per tutta la sera.
Avrà controllato ogni suo spostamento, ogni persona che gli si
è avvicinata, ogni sorriso che ha regalato.
È
pericoloso ogni minuto che trascorro con lui.
Mi allontano di
qualche passo, rimango immobile davanti ai suoi occhi. L'atmosfera si
spezza come un bicchere di cristallo lasciato cadere sul
pavimento.
"Di solito non è questa la reazione!"
esclama divertito.
Si avvicina, io indietreggio ancora di più.
"Mi
dispiace" sussurro, con le labbra tremanti e le lacrime agli
occhi.
"No, no" mormora confuso. "Ti prego,
no."
Scappo dalle sue mani, dai suoi occhi, dal suo sorriso
perfetto. Scappo dal sogno che è finito troppo presto. E,
scendendo le scale accompagnata dal mio triste strascico, sento la
sua voce disperata graffiarmi le spalle.
"Domani sera, su
questa terrazza!" urla. "Io ti aspetto!"
Lui mi
aspetta, ed io corro.
Corro fino a raggiungere quelle quattro
pareti che mi hanno nascosta per una vita intera.
Corro fino
a far sciogliere il trucco.
Corro fino a dimenticarmi di
lui.
***
14
aprile 1912
Non
sono riuscita a dormire, nemmeno per un secondo.
Sono rientrata
nella mia stanza con la paura che qualcosa andasse storto, che
qualcuno che mi avesse vista e riconosciuta. Mi sono spogliata il più
velocemente possibile, mi sono strappata via i gioielli, ho tolto il
trucco rimasto sulla mia faccia. Ho nascosto l'abito sotto il letto,
sperando di poterlo restituire a Rosalie al più presto.
Mi
sono nascosta sotto le coperte, con le orecchie pronte a sentire la
signorina Angela rientrare.
Non sono riuscita a prendere
sonno. Troppa preoccupazione, troppa confusione, troppe novità.
E poi quelle parole: Mi
ricorderei di te, fidati.
E quel sorriso, quegl'occhi, quelle mani che sapevano abbracciarmi
insieme alla musica.
Trascorro la giornata in una bolla di vetro,
sbrigo tutte le mie faccende con le parole di Angela che arrivano
ovattate. È furiosa, avvelenata, arrabbiata. Tutto perché
ieri sera non è riuscita a ballare con lui, non è
riuscita nemmeno a scambiarci due parole. A quanto dice, è
sparito a metà serata e poi nessuno l'ha più visto. Io
resto a testa bassa, annuendo mentre lei racconta, senza fare
commenti o domande.
Sono passate dalla suite anche le sue amiche.
E questa volta, ascoltandole perdersi nelle loro chiacchere frivole,
sono riuscita a sopportarle più facilmente. Forse perché
capisco come hanno fatto ad innamorarsi, forse perché - dopo
essermi specchiata nel verde dei suoi occhi – le loro esultanze
e i gridolini sembrano meno fastidiosi. C'erano tutte, tranne
Rosalie. Ho sentito una delle ragazze, Leah, raccontare che non
l'hanno mai vista uscire dalla stanza di un ragazzo, un certo Emmett,
con cui aveva trascorso tutta la serata. In cuor mio, la ringrazio
ancora e spero che si stia divertendo.
Le ore volano via
velocemente e ad ogni minuto cresce la convinzione sulla mia
decisione di stasera. So che non mi potrò presentare
all'appuntamento con Edward, so che è impossibile. Come mi
potrei vestire? Cosa gli potrei dire? E anche volendo fare questa
pazzia, come farei ad uscire da questa stanza? Sarebbe solo un'altra
umiliazione. Una delle tante.
Il buio è arrivato ed io, in
silenzio, ripeto la mia decisione come se fosse una ninna nanna.
Angela è uscita soltanto qualche ora, per cenare insieme a
Jessica e per scoprire che fine possa aver fatto il loro amato Edward
Cullen. Io mi stendo sul letto, ripetendomi che non c'è motivo
di sentirsi agitata. Non è cambiato niente, quella di ieri
sera è stata solo una piccola parentesi felice. Una parentesi
chiusa.
Gli occhi rimangono spalancati per ore, fissi sul
soffitto.
Fino a quando, come se fossi attraversata da un fulmine,
mi alzo di scatto e capisco che sto sbagliando.
Perchè se
davvero Edward Cullen mi sta aspettando su quella terrazza, se sta
aspettando proprio me, quella parentesi non sarà mai chiusa.
Rimarrà uno spiraglio, un rimpianto, un piccolo dolore per una
situazione non chiarita.
C'è solo un modo per chiuderla
davvero, la nostra piccola parentesi: presentarmi con i miei abiti,
con la mia verità, con la mia vita. Mostrargli quella che sono
e osservarlo mentre si allontana. Da me, per sempre.
Mi
alzo, indosso la mia divisa ed un vecchio cappotto marrone. Controllo
l'orologio, sono quasi le undici. Stando attenta a non fare rumore,
controllo che Angela stia dormendo e, con il cuore in gola,
esco.
Cammino lentamente, toccando con delicatezza il
pavimento. Raggiungo la ringhiera, la stringo fino a vedere le nocche
diventare bianche. Lancio un'occhiata all'oceano per trovare il
coraggio.
"Buonasera, signor Cullen." Si volta di
scatto, i suoi occhi si illuminano. "Mi dispiace se l'ho fatta
attendere, ma non potevo assentarmi dalla stanza."
D'istinto,
si alza. Si passa le mani sui pantaloni, provando a togliere le
pieghe dovute al troppo tempo trascorso seduto.
"Avevamo
deciso di darci del tu, o sbaglio?" Prova a sorridere, ma non è
spontaneo come ieri sera.
Ha i capelli più spettinati, una
leggera barba gli copre il viso. È ancora più
bello.
"In realtà, lei è obbligato a darmi del
tu. Proprio come io sono obbligata a darle del lei." Apro
lentamente il cappotto, ed ogni bottone che si sgancia è una
fitta dritta al cuore.
Rimango in piedi davanti a lui,
mostrandogli la mia patetica divisa.
L'orribile vestito nero
e il vecchio grembiule bianco.
"Non capisco..." mormora,
portandosi le mani alle tempie.
"Conosce la signorina Angela,
vero?"
Alza la testa e mi guarda confuso, accigliato.
Annuisce lentamente.
"Io sono con lei." Allargo le
braccia, mostrandogli ancora una volta i miei abiti. E se la
situazione ancora non gli è chiara, saranno i miei capelli
spettinatati e il mio viso pallido senza un filo di trucco a
chiarirgli le idee.
"Ora posso andare?" E senza
aspettare il suo permesso, gli do le spalle e mi allontano.
"Dove?"
mi urla contro.
Mi fermo, indecisa se rispondere o lasciar
perdere. Ma la verità ormai svelata mi da coraggio, e torno a
guardarlo.
"Forse non ha capito, signor Cull-"
"Ho
capito benissimo, invece." mi interrompe. "Mi sta dicendo
tutto quello che mi ripetono da una vita intera."
Si avvicina
lentamente, mi raggiunge, con un dito mi sfiora il colletto del
cappotto.
"Mi sta dicendo con chi devo parlare, con chi devo
ballare, con chi devo trascorrere le mie serate. Mi sta dicendo che
non conta quello che voglio, mi ritroverò sempre bloccato ad
un maledetto tavolino a sopportare per un pomeriggio intero le
chiacchere di una logorroica disperata che cerca marito."
"No,
signor Cullen. Le sto solo dicendo chi sono."
"Anch'io.
Sto facendo la stessa cosa, credimi."
"Posso andare?"
ripeto, confusa e con un nodo in gola che non vuole
sciogliersi.
"No." Mi afferra per le spalle, mi stringe
le braccia. Mi prende la testa tra le mani, i miei capelli gli
scivolano tra le dita. "Non andrai da nessuna parte.
Guardami."
Alzo la testa, scuotendola disperatamente. Sento
gli occhi bruciare. "Signore,"
"Ti è bastato
uno sguardo per farmi crollare. I tuoi occhi, il tuo profumo, la tua
voce... e ho capito che eri la mia unica salvezza in questo mare di
banalità."
"Signore," lo chiamo, con voce
fioca e debole.
"Salvami, Isabella. Salvami."
"Non
posso, io sono sol-"
"Non m'importa. Non m'importa."
I nostri volti a pochi centimetri, i suoi occhi che traboccano di
quella stessa tristezza che riempiva quelli di Rosalie. "È
da ieri sera che ti penso, ed è una vita che ti aspetto. Ti
scongiuro, Isabella. Ti scongiuro."
Le sue dita
affondano ancora di più nei miei capelli. E con la stessa
disperazione le sue labbra cercano le mie. Mi bacia, come nessuno
aveva fatto prima d'ora. Mi bacia ed io mi perdo nel suo sapore. Il
mio cuore ormai impazzito è tra le sue braccia e sulle sue
labbra, così morbide e sicure da farmi tremare le gambe. Fa
scivolare una mano sul mio collo, un brivido mi copre la schiena.
Mi
stacco per guardarlo, per capire se anche questa volta il sogno
finirà.
Lui sorride, e il suo sorriso non è mai
stato così bello. E ha qualcosa in più, negli occhi e
sulle labbra. Qualcosa che mi ricorda la prima volta che mi sono
affacciata sull'oceano, il momento in cui mi sono specchiata e mi
sono vista diversa. Qualcosa che non so come chiamarla, se non
libertà.
Mi abbraccia, mi solleva in aria, con la bocca si
fa spazio attraverso il colletto della camicia e mi bacia il collo.
Mi prende in braccio e si siede sulla panchina, facendomi accomodare
sulle sue ginocchia.
Io non so cosa fare, sento solo la testa che
scoppia, il cuore che batte e le orecchie che fischiano.
Allora
faccio quello che sono abituata a fare quando sono in difficoltà:
respiro.
Lo guardo, lo ascolto, e respiro.
E piango, piango
senza accorgermene. Piango lacrime di un sapore sconosciuto. Lacrime
che non fanno male, che non bruciano sulla pelle, lacrime così
belle che le lascio cadere senza fermarle.
Lui mi asciuge le
guance, mi sorride. Mi racconta di quando mi ha vista, ieri sera, ed
ha capito che l'unica cosa che doveva fare era avvicinarsi, chiedermi
di ballare, scoprire il mio nome. Mi racconta che non si è
mosso da questa terrazza per tutto il giorno, ignorando gli impegni,
i colleghi, la barba da fare. Mi racconta di quanto è stato
orribile questo viaggio fino a questo momento.
Io gli racconto di
Rosalie, della prima volta che mi ha sorriso, della sua bravura nel
mettere in difficoltà la signorina Angela e della sua infinita
generosità nei miei confronti.
"Ricordami di
ringraziarla la prossima volta che la vediamo" sussurra, con le
labbra vicine alla mia guancia.
"La vediamo?
Insieme?"
"Isabella," mi sposta una ciocca di
capelli dietro l'orecchio, mi accarezza le labbra. "Credi che
d'ora in poi ti lascerò andare da qualche parte senza di
me?"
Sorrido, improvvisamente inondata dalla grandezza delle
sue parole. Lui si avvicina per darmi un bacio, ma veniamo
interrotti.
E ad interromperci non è uno sguardo
indiscreto, nè la mia paura di essere scoperta.
È
una parola.
Una parola che nasce dal cuore della nave, e si
diffonde ovunque. In ogni stanza, in ogni ponte, in ogni sala, su
ogni rampa di scale.
Una parola fatta di brividi, terrore,
impotenza.
Una parola che ci metterà alla prova, ci farà
pregare, ci farà rifugiare l'uno nella braccia dell'altra.
Una
parola che strapperà via la vita a più di
millecinquecento persone, compresa quella della donna a cui devo
tutto quello che ho. Quella ragazza bellissima, esuberante,
sorridente. Luminosa come i suoi capelli color oro. Piena di vita mai
capita, pronta a farmi vivere la felicità che lei non riusciva
a raggiungere.
Una parola che, però, risparmierà
me ed Edward. Ci lascerà vivere, ci lascerà amare. Come
mai avremmo sognato.
Una parola che nascerà dal sussurro di
una vedetta e metterà in ginocchio famiglie intere.
Un
parola che farà affondare il Titanic, e la speranza da cui era
nato.
Una parola, una soltanto.
Iceberg.